Non è che a non chiamarla guerra la guerra si trasforma magicamente in qualcos’altro. E non è che a chiamarla con il suo nome, invece di mettere la testa sotto le lenzuola sperando che il babau scompaia, significhi goderne. Tutt’altro. Solo che se la si chiama come da sempre essa si chiama ci si acquista in chiarezza, lucidità e consapevolezza d’idee. Prima fra tutte quella che la guerra va combattuta.
Solo le utopie più sciocche pensano che scegliendo di non reagire il nemico muti consiglio. Solo la dabbenaggine più becera può pensare di fare politica ritenendo che siccome la guerra l’hanno dichiarata gli altri allora noi ci facciamo bella figura se per tutta risposta organizziamo un pic-nic.
Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni, membro del gruppo “Religioni” dell’Associazione Italiana di Sociologia, coordinatore di corsi di formazione sulla violenza e i conflitti religiosi anche per il Critical Incidents Response Group dell’FBI e per esperti di sicurezza mediorientali, autore di quaranta volumi e di numerosi articoli dedicati ai fondamentalismi e al terrorismo di matrice religiosa, chiama le cose con il loro nome e la guerra guerra.
Nel corso degli ultimi anni ha percorso in lungo e in largo il globo terrestre inviando corrispondenze ed expertise pubblicate su Il Giornale, Il Foglio, Il Domenicale, Cristianità, Il Timone e Il Dialogo-al hiwâr. Adesso, raccolte e rivedute sono divenute un libro, La nuova guerra mondiale. Scontro di civiltà o guerra civile islamica? (SugarCo, Milano 2005, pp. 230, Euro 18,00).
Il titolo riprende la forte e significativa suggestione lanciata nel 2004 da Norman Podhoretz, negli Stati Uniti sul mensile Commentary e in Italia in traduzione prima su Il Foglio poi per la casa editrice torinese Lindau con il saggio divenuto libro La quarta guerra mondiale. Come è incominciata, che cosa significa e perché dobbiamo vincerla. E in più fa propria una frase del ministro della Difesa statunitense Paul Wolfovitz, che per il nuovo conflitto planetario ha profetizzato la durata di un quarto di secolo.
È iniziata l’Undici Settembre, l’11 settembre 2001 che ne è stato momento di passaggio dalla potenza all’atto e contemporaneamente sua dichiarazione tanto pubblica quanto dirompente.
Da un lato l’islamismo, che combatte una guerra vero nomine secondo la strategia dello jihad globale e con la tecnica del terrorismo, dall’altra i vincitori del Terzo conflitto mondiale, la Guerra cosiddetta “fredda”, e in realtà assai calda, contro il comunismo, ossia gli statunitensi. Di questo hanno consapevolezza entrambi, islamisti e americani. Eppure forse si tratta solo del momento più eclatante e macroscopico (per via della magnitudo dei contendenti, giacché in esso gli USA sono, a torto o a ragione, anche l’avamposto dell’imperium occidentale tutto) di uno scontro più ampio. Quello che ingloba, dice bene Introvigne, anche una miriade di conflitti locali e dimenticati (soprattutto dai nostri media), e il famoso scontro tra le civiltà. Civiltà tutte, però, o comunque molte, tanto che i conflitti regionali spesso altro non sono se non l’eco o la maschera di ben altri e vasti combattimenti.
Il libro è quindi una nutrita, e documentatissima, rassegna di macro e microconflitti, tesa tutta, se non proprio già a esaurire, quanto meno a istruire adeguatamente la risposta posta dal sottotitolo.
È davvero, quello fra Occidente e jihadismo, uno scontro tra le civiltà oppure è il riflesso di una guerra interislamica mirante a delegittimare e ad abbattere anzitutto i regimi dei cosiddetti Paesi arabi moderati, ritenuti inefficaci, insufficienti e addirittura apostati dai nostalgici del califfato perduto?
I molti conflitti regionali non solo relativi all’islam, ma comunque a esso connessi o talora riecheggianti per emulazione (anche inconscia) i “grandi combattenti” di cui si hanno poche notizie ma lo stesso moltissime vittime fanno propendere per la seconda ipotesi. Ovvero che in primis al Qaeda e i suoi alleati puntino a una ri-islamizzazione forzata delle stesse società dei Paesi arabo-musulmani da cui provengono, dunque che, in secundis, questo si riverberi pure all’esterno contro l’Occidente, un po’ per fisiologia, un po’ perché la ri-islamizzazione forzata del mondo arabo e arabizzato ha bisogno di nemici da combattere, di emblemi da abbattere, di antagonisti da sfidare.
È una situazione insomma più complessa di quello che già appare e Introvigne invita accortamente a non semplificare troppo.
Ma, scontro tra le civiltà o guerra intestina islamica, il risultato poco cambia. Da un lato, l’insuccesso clamoroso della ri-islamizzazione non fa altro che scatenare ulteriormente la rabbia all’esterno. Dall’altro, qualora e se dovesse avere successo, la ri-islamizzazione sarebbe immediatamente, come sempre è stato l’islam, espansione militare, conversione forzata, schiavizzazione e uccisione. Per l’Occidente, insomma, il risultato è identico.
C’è un ultimo pregio di questo libro. Il ricordare che, reagendo adeguatamente, la sconfitta può essere evitata. I successi militari degli USA in Afghanistan e il coordinamento fra quei Paesi occidentali che non hanno dato retta alle sirene ipocrite del pacifismo hanno impedito catastrofi ancora maggiori di quelle già verificatesi. Una strada giusta, che va perseguita e intensificata. Anche se qualcuno dice che è impopolare.
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La nuova guerra mondiale. Scontro di civiltà o guerra civile islamica? Sugarco, Milano 2005 |