Pubblicati due saggi che analizzano il terrorismo religioso
Il confronto politico prodotto dall'annunciato attacco all'Iraq ha fatto perdere di vista la causa prima dell'odierna tensione internazionale: la necessità di reagire all'attacco del terrorismo globale. Il fatto che la scena sia occupata oggi dagli aspiranti «dissobbedienti» ferroviari o dal protagonismo chiracchiano all'Onu è sintomo abbastanza sconfortante del fatto che l'opinione pubblica, soprattutto europea, non sembra avere ancora compreso la gravità della minaccia terroristica al nostro sistema di vita. Viviamo nell'epoca della «guerra asimmetrica», dove il terreno decisivo non è costituito dallo scontro fra eserciti e apparati militari (del resto improponibile nel tempo della debordante potenza militare americana), ma da quello, infinitamente più insidioso, della sicurezza negli scambi economici e sociali. Pochi sembrano rendersi conto del fatto che l'attuale sistema sociale è potentissimo e, nello stesso tempo, fragilissimo. Accade, nel mondo interconnesso e globalizzato, che l'insicurezza distrugga la ricchezza e riduca il volume degli scambi. Nel rallentamento della crescita economica internazionale non c'è solo lo scotto pagato alle passate euforie globaliste, c'è anche una nuova «visione» della realtà internazionale, un mondo sempre più «fuori controllo» e dove il terrorismo di matrice etnico‑religiosa gioca un ruolo di primo piano.
Non si può certo ridurre tutta l'odierna instabilità al fondamentalismo armato (rimangono sempre, sullo sfondo, le tensioni prodotte dagli squilibri mondiali e dalla gigantesca partita per il controllo sia delle materie prime sia delle fonti energetiche) ma è certo che i terroristi dell'integralismo religioso costituiscono le pedine decisive del nuovo scenario.
Il terrorismo religioso inquieta perché, a differenza dei terrorismi che conoscevamo (anarco-comunista e nazionalista), questo di tipo di attacco alla convivenza civile sembra venire da un altro mondo obbedendo a logiche sconosciute alla mentalità razionalista e materialista dominante nelle nostre società.
Se non lo si può combattere con le armi tradizionali, lo si deve almeno cominciare a conoscere nelle sue dinamiche profonde, non fossaltro che per dotarsi di quelle armi culturali che possono risultare decisive nella «guerra asimmetrica» in corso, che è essenzialmente una psicoguerra una guerra, cioè, in cui la preparazione e i nervi saldi dell'opinione pubblica costituiscono gli elementi essenziali.
Va perciò segnalata con interesse l'uscita di due saggi che analizzano il fenomeno da diverse angolature. Uno, scritto da Massimo Introvigne, si concentra sul caso palestinese e spiega perché l'affermazione dei kamikaze islamici è tanto destabilizzante per la società mediorientale: «Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina» (Elledici, pp. 126, euro 8). Laltro libro appartiene invece al sociologo americano Mark Juergensmeyer, che dirige il Dipartimento di Studi globali e internazionali dell'Università della California: «Terroristi in nome di Dio» (Editori Laterza, pp. 340 euro 18).
La caratteristica di questi due saggi sta nel fatto che entrambi smentiscono la rassicurante «vulgata» terzomondista che vede nella povertà la matrice essenziale del terrorismo. È in base a questa stessa «vulgata» che sia detto per inciso il terrorismo islamico non viene considerato nella sua esatta portata dalle frange pacifiste dell'opinione pubblica europea, quasi che l'origine di tutti i mali del Medioriente provenga dal solito «capitalismo imperialista».Introvigne ci dice invece che l'intima essenza di Hamas non è economica ma religiosa. Affermare che il kamikaze che si imbottisce di tritolo e si fa esplodere in mezzo a gente pacifica è un uomo reso «disperato» dalla povertà, dalla disoccupazione o dalla crisi economica significa, per Introvigne, offrire una «ricostruzione pittoresca» che non regge alla prova dei fatti. Citando una ricerca di un funzionario pakistano, Nasra Hassan, che è stata pubblicata dal «New Yorker» il 19 novembre del 2001, l'autore rileva che la maggioranza dei kamikaze di Allah vengano dalla classe media. «Contrariamente allo stereotipo del disperato che ha sempre vissuto di stenti in un campo profughi, lo studio di Hassan mostra come molti dei candidati al suicidio appartengono alla buona borghesia palestinese, e alcuni all'élite economica di Gaza». La «disperazione» dei militanti di Hamas è «soprattutto culturale e politica».
La logica del suicidio che ispira le azioni del gruppo fondamentalista deriva da un'influenza dello sciismo (che nell'ambito islamico propugna da sempre la mistica del martirio) esercitata sul mondo sunnita (a cui appartengono gli integralisti palestinesi) dopo la guerra Iran - Iraq degli anni Ottanta. Il movimento di Hamas, creato da Ahmad Isma il Yasin dal ceppo dei Fratelli Musulmani, nasce del resto in contrapposizione al nazionalismo arabo dell'Olp e punta, fin dal 1993, a sabotare gli accordi di Oslo perché contrario alla creazione di uno Stato palestinese di tipo laico nonché vicino, in qualche modo, al modello occidentale.
Altra spinosa questione riguarda il legame tra il terrorismo palestinese e l'organizzazione guidata da Osama bin Laden. Introvigne tende ad escludere un rapporto strategico, ancorché rilevi che «alcuni militanti di Hamas si sono addestrati nei campi di Al Qaeda». II fatto è che i dirigenti palestinesi risulterebbero «sostenitori di una linea "leninista" di "rivoluzione in un solo paese", contro la "posizione trotzkista" di Al Qaeda che predica la "rivoluzione (islamica) mondiale"». Lautore precisa comunque che un «sostegno a bin Laden sembra venire piuttosto da intellettuali fondamentalisti palestinesi non direttamente legati ad Hamas; e non è impossibile un raccordo fra l'internazionale del terrorismo guidata da Al Qaeda e ambienti del jihad islamico palestinese».
Vale la pena comunque avvertire che, sia o non sia direttamente legato a Osama, il terrorismo di Hamas non è meno destabilizzante di quello riconducibile allo sceicco del terrore. II conflitto israelo‑palestinese è uno dei grandi fattori di instabilità internazionale e non c'è dubbio che il terrorismo dei kamikaze ne sia il principale fattore di propulsione.
D'altra parte, l'«ideologia del martirio» è il tratto culturale comune a tutta la galassia internazionale del terrorismo religioso. È lì che trae forza quell'«atomica umana» puntata sulle «linee di faglia», per dirla con Huntington, che rendono esplosivo lo «scontro delle civiltà». Proprio dalla lettura del libro di Juergensmeyer ricaviamo ulteriori conferme dell'irriducibilità del fondamentalismo armato alla logica (in definita rassicurante) del razionalismo economicista in cui si vorrebbe rinchiuderlo. «Il grande fascino del sacrificio non si deve solo al fatto che implica un'uccisione, ma anche al fatto di essere, ironicamente, nobilitante. La distruzione è eseguita all'interno di un contesto religioso che trasforma l'uccisione in qualcosa di positivo. Così come tutte le immagini religiose di sacrificio, il martirio fornisce simboli di una violenza soggiogata (o almeno messa al suo posto) dal più generale modello di ordine fornito dal linguaggio religioso».
Dire che la motivazione principale del terrorismo religioso non va cercata nell'economia, ma nelle stesse dinamiche religiose (o, per meglio dire, nella loro degenerazione) non equivale certo a negare l'incidenza del sociale e dell'economico. Significa solo riconoscere il fatto che la cultura religiosa può nell'eclissi delle ideologie laiche, fornire quel «senso» a un mondo che sembrerebbe altrimenti dominato dall'insensatezza nichilista. «Le idee religiose scrive ancora Juergensmeyer hanno dato profondità e chiarezza ideologica a quelle che in molti casi sono state esperienze reali di destituzione economica, oppressione politica e un disperato bisogno della speranza di innalzarsi al di sopra delle limitazioni della vita moderna».
La violenza un giorno verrà sconfitta, ma avverte il sociologo americano il problema rimarrà. «La religione dà energia e vitalità alla vita pubblica e mette a disposizione un segnale guida per l'ordine morale».
È rassicurante pensare che sia tutto un fatto economico. La permanenza di un tale stereotipo ci affranca dall'obbligo di sentirci in guerra (anche con i nostri pregiudizi) senza più il conforto di un dolciastro pacifismo.
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Massimo Introvigne, Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina Elledici, Leumann (Torino) 2003 |
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