Da venerdì 17 gennaio 2002 è in proiezione nelle sale italiane Il Signore degli anelli, primo kolosssal cinematografico tratto dalla saga di John Ronald Reuel Tolkien.
Visto con sospetto da parte cattolica alla sua comparsa nelle librerie italiane, nei primi anni Settanta, Tolkien è oggi divenuto un autore cult, in campo cristiano. Al punto che taluni laici irriducibili sono insorti contro quella che giudicano unindebita annessione.
Ma chi ha contribuito a sdoganare Tolkien tra i cattolici? Il cardinale Giacomo Biffi.
Basta leggere cosa disse Biffi nel 1992, centenario della nascita dello scrittore, introducendo un convegno organizzato a Bologna dal Centro culturale Manfredini, con titolo
Realtà e mistero nell'opera di Tolkien
«Credo fossero gli ultimi giorni del 1971. Una febbre fastidiosa e irriducibile mi aveva costretto a letto per qualche tempo. Uno dei miei giovani venne a darmi da leggere un grosso volume: una sua recente scoperta, mi disse. Era Il Signore degli anelli.
«Cominciai la lettura senza entusiasmo e la proseguii, vincendo una certa istintiva repulsione, più che altro perché non avevo sottomano niente di alternativo. Devo confessare che tutta quella folla di orchi, di nani, di stregoni, di elfi, me la sentivo estranea e lontana, e francamente mi infastidiva.
«Il nostro popolo ignora le saghe: i racconti della nostra tradizione sono le "novelle", dove compaiono mercantesse e studenti, ingordi signori e furbi popolani, ingenue devote e pittori scanzonati: uomini e donne, tutti, quotidianamente verificabili. La mia anima italiana dunque mal sopportava sulle prime quel mondo di creature fantastiche e senza alcuna plausibilità. Ma, con mia meraviglia, a mano a mano che mi addentravo nella vicenda, ne ero sempre più conquistato, fino ad arrivare all'ultima pagina con la persuasione che mi era stata offerta un'esperienza culturale tra le più gratificanti, e anche con un certo rammarico che quella straordinaria avventura dello spirito fosse ormai alla conclusione [...].
«Se adesso voglio arrischiarmi a riconoscere e a manifestare le ragioni del fascino che Tolkien esercita tuttora su di me, credo di poter dire che all'origine c'è la mia propensione per quelli che cantano fuori dal coro e la mia connaturale affinità con coloro che non si adeguano ai gusti prevalenti e alle mode [...].
«Mi ero fatto in quegli anni lidea che quanti si ponevano a scrivere subivano ormai tutti qualche influenza delluno o dellaltro dei tre autori (molto diversi tra loro) che, per così dire, si erano spartiti la funzione di capiscuola nella repubblica delle lettere: Joyce, Kafka, Proust. Avevano pubblicato quasi tutto lungo gli anni Venti, e quando Tolkien arriva alla ribalta avevano già dispiegato universalmente lefficacia della loro esemplarità. Ma lautore de Il signore degli anelli non pareva essersi nemmeno accorto di nessuno dei tre: la sua scrittura non era per niente riconducibile a nessuno di quei modelli: il che me lo rendeva pregiudizialmente simpatico. La mia simpatia poi cresceva nel rilevare come egli avesse avuto il coraggio di trascurare del tutto lo psicologismo, lo psicanalismo, lesasperata introspezione e ogni altra forma di soggettivismo imperante, ed era tranquillamente tornato alla serenità espressiva delle narrazioni epiche di un tempo, che si ritenevano ormai desuete e modernamente improbabili [...].
«Dove il non conformismo di Tolkien mi pareva addirittura deliziosamente provocatorio era nella sua evidente risoluzione di infischiarsene completamente di quell'ossessivo pansessualismo che negli autori contemporanei sembrava essere diventato una specie di professione di fede. Non che mancassero nella sua narrazione i temi dell'amore e della donna; mancavano però le prevaricazioni minuziosamente descritte, le morbosità, le fissazioni libidinose, senza delle quali pare che oggi non sia più possibile farsi accogliere dagli editori e dalle programmazioni televisive.
«Più profondamente Tolkien si imponeva alla mia attenzione per la sua robusta certezza che il bene e il male sono tra loro incompatibili; che nella storia umana è in atto un assalto tremendo da parte delle forze della perversione; che l'esistenza è drammatica e non ci si può cullare in un irenismo zuccheroso. In una cultura dove tutto è mescolato e grigiastro, dove pare che la vita sia un gioco insulso senza scopo e senza regole, dove c'è molta comprensione per tutto tranne che per le ragioni della verità, l'universo presentatomi da Tolkien mi appariva come un forte e provvidenziale richiamo all'autenticità degli esseri, dei principi, delle intrinseche finalità [...].
«Questi erano i miei pensieri di ventanni fa, ma niente da allora mi ha convinto a modificarli. Mi sono in seguito reso conto che lopera di Tolkien corre il serio pericolo di qualche malinteso interpretativo [...].
«La sua più grave disavventura è quella di essere classificata come reazionaria e posta al servizio di una parte politica ottusamente illiberale. E non si potrebbe dare travisamento più radicale. Non cè nulla che sia più rivoluzionario, più rinnovatore, più emancipante della verità. Ed è la verità delle cose a essere cantata in questi libri, oltre la veste variopinta della fiaba».