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La mistica di San Paolo contro la cultura del Diavolo

di Massimo Introvigne

All'udienza generale del 13 giugno 2012, continuando nella sua «scuola della preghiera» dedicata a san Paolo, Benedetto XVI ha commentato l'esperienza narrata nel  capitolo 12 della Seconda Lettera ai Corinzi, una delle due esperienze fondamentali che segnano tutta la vita dell'Apostolo insieme a quella del primo incontro con il  Signore sulla via di Damasco.

Si tratta dell'esperienza sconvogemente del rapimento in Cielo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi,  «di fronte a chi contestava la legittimità del suo apostolato, egli non elenca tanto le comunità che ha fondato, i chilometri che ha percorso; non si limita a ricordare le difficoltà e le opposizioni che ha affrontato per annunciare il Vangelo, ma indica il suo rapporto con il Signore, un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi».  San Paolo dunque ricorda che, quattordici anni prima dall’invio della Lettera, «fu rapito - così dice - fino al terzo cielo» (v. 2), fino al «giardino» stesso di Dio.

«Con il linguaggio e i modi di chi racconta ciò che non si può raccontare», san Paolo afferma che l'evento è stato talmente sconvolgente che egli «non ricorda neppure i contenuti della rivelazione ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco al momento della sua conversione».

Il Papa ha dedicato la sua catechesi soprattutto a un dettaglio del racconto. San Paolo avrebbe potuto insuperbirsi dopo una tale esperienza. Perché questo non accada, egli porta nella sua carne  una «spina» (2 Cor 12,7), e per tre volte ha supplicato il Signore di esserne liberato. Alla fine, in una contemplazione nella quale «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare» (v. 4),  il Signore si è manifestato e ha risposto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (v. 9).

Con un commento che, nota il Pontefice, «può lasciare stupiti», nel riferire questo episodio ai Corinzi l'Apostolo aggiunge: «Mi vanterò quindi ben volentieri  delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (vv. 9b-10).

Qui vi è qualcosa di «fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita, per la nostra relazione a Dio e alle nostre debolezze». Benché si siano fatte varie speculazioni, che cosa fosse davvero questa «spina» nella carne noi «non lo sappiamo e [san Paolo] non lo dice». Quello che invece sappiamo con certezza è che «ogni difficoltà nella sequela di Cristo e nella testimonianza del suo Vangelo può essere superata aprendosi con fiducia all’azione del Signore». Non superata attraverso una nostra presunta forza. Al contrario, «nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza». Certo, «Paolo avrebbe preferito essere liberato da questa "spina", da questa sofferenza; ma Dio dice: "No, questo è necessario per te. Avrai sufficiente grazia per resistere e per fare quanto deve essere fatto"». E  «questo vale anche per noi. Il Signore non ci libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni». Come spiega lo stesso testo della Seconda Lettera ai Corinzi, quando ci affidiamo a Dio, «se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ci sono tante difficoltà, quello interiore invece si rinnova, matura di giorno in giorno proprio nelle prove» (cfr v. 16). L’Apostolo ci assicura che «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (v. 17).

Non dobbiamo però credere che si trattasse solo di piccole difficoltà: «umanamente parlando, non era leggero il peso delle difficoltà, era gravissimo; ma in confronto con l'amore di Dio, con la grandezza dell'essere amato da Dio, appare leggero».  È l'umiltà la chiave di tutto: «non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all'incarico. Dobbiamo, quindi, avere l’umiltà di non confidare semplicemente in noi stessi, ma di lavorare, con l'aiuto del Signore, nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili "vasi di creta"».

Questo episodio relativo a san Paolo sembra riguardare solo lui - chi infatti potrebbe essere rapito fino al Terzo Cielo? -, ma invece riguarda tutti noi e trova il suo posto logico in una «scuola della preghiera» come quella che il Papa sta proponendo. «Nella preghiera noi apriamo, quindi, il nostro animo al Signore affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza, trasformandola in forza per il Vangelo». San Paolo, per indicare la presenza di Dio in lui, usa il vero greco «episkenoo», letteralmente «porre la propria tenda». Sì, «il Signore continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione. Lo stesso Verbo divino, che è venuto a dimorare nella nostra umanità, vuole abitare in noi, piantare in noi la sua tenda, per illuminare e trasformare la nostra vita e il mondo».

L'esperienza di San Paolo, parallela a quella degli Apostoli nella Trasfigurazione, c mostra che «contemplare il Signore è, allo stesso tempo, affascinante e tremendo: affascinante perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore; tremendo perché mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne».

Il richiamo del Pontefice alla presenza del Maligno richiama quello, parallelo, nella «lectio divina» sul Battesimo dello scorso 11 giugno in San Giovanni in Laterano, per il Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma. Qui il Papa aveva detto che i riferimenti nel rito del Battesimo a Satana non sono semplici metafore. Alludono a «una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone». C'è una vera e propria cultura del Diavolo, una «cultura del male», spesso «dominante», una «cultura alla quale diciamo "no". Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura. Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità; anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo "no"».

Ma nella preghiera, ha spiegato all'udienza del 13 giugno, sconfiggere questa «cultura del male» diventa possibile. «In un mondo in cui rischiamo di confidare solamente sull’efficienza e la potenza dei mezzi umani, in questo mondo siamo chiamati a riscoprire e testimoniare la potenza di Dio che si comunica nella preghiera».

Benedetto XVI ha voluto ricordare le parole del celebre teologo e missionario protestante Albert Schweitzer (1875-1965), secondo cui «Paolo è un mistico e nient’altro che un mistico». San Paolo è l'uomo che è stato rapito fino al giardino stesso di Dio. Ma nello stesso tempo «la mistica non lo ha allontanato dalla realtà, al contrario gli ha dato la forza di vivere ogni giorno per Cristo e di costruire la Chiesa fino alla fine del mondo di quel tempo. L'unione con Dio non allontana dal mondo, ma ci dà la forza di rimanere realmente nel modo, di fare quanto si deve fare nel mondo». Questo vale anche nei momenti di aridità spirituale, e qui il Papa ha richiamato la beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), che «nella contemplazione di Gesù e proprio anche in tempi di lunga aridità trovava la ragione ultima e la forza incredibile per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura. La contemplazione di Cristo nella nostra vita non ci estranea - come ho già detto - dalla realtà, bensì ci rende ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore, attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni fratello nel suo amore».