CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Tra i Paesi mediorientali protagonisti delle rivolte del 2011 contro i regimi dittatoriali, l’Egitto è quello di gran lunga più importante. A differenza delle rivolte in Tunisia e in Libia, che hanno preso di sorpresa tutti i commentatori, quella egiziana era in qualche modo attesa. Contro il regime del presidente Hosni Mubarak, un tipico esempio di dittatore laico-nazionalista impopolare e corrotto, c’erano già state proteste duramente represse, nel 2000 e nel 2003, e un lungo sciopero generale nel 2008. Da tre o quattro anni molti si chiedevano che cosa impedisse alla rivoluzione di scoppiare.
Il 6 giugno 2010 un giovane attivista che protestava via Internet, Khaled Said (1982-2010), è arrestato ad Alessandria in un Internet caffè. Muore poco dopo durante la detenzione, e tutti accusano la polizia. Un dirigente egiziano di Google che vive a Dubai, Wael Ghoneim, fonda su Facebook il gruppo «Siamo tutti Khaled Said», che ottiene un enorme successo. Di ritorno in Egitto, sarà arrestato il 27 gennaio 2011. Il caso Khaled Said è solo una delle cause prossime della rivolta. C’entrano anche gli evidenti brogli nelle elezioni del novembre 2010 e soprattutto l’esempio della Tunisia, che spinge gli attivisti di «Siamo tutti Khaled Said» e di altri gruppi diffusi su Facebook e su Internet a proclamare un giorno nazionale di protesta per la giornata (festiva) del 25 gennaio 2011, che ha un grande successo non previsto dagli stessi organizzatori.
Il movimento - che ha certo aspetti positivi nella sua denuncia della corruzione e delle ingiustizie diffuse - è ampiamente spontaneo. Non lo organizza l’Occidente, che ha buoni rapporti con il regime di Mubarak. Non lo organizzano i Fratelli Musulmani, la principale associazione fondamentalista, la cui dirigenza nei primi giorni della rivolta si mostra semmai molto riservata. È semai il movimento giovanile dei Fratelli Musulmani a trascinare nella rivolta dirigenti inizialmente riluttanti. Nelle zone lontane dal Cairo, specie nel delta del Nilo, dove godono di un’indiscussa egemonia politica i Fratelli Musulmani prendono però a poco a poco la guida delle manifestazioni.
Ma al Cairo tutto è molto più confuso. Lottando contro la polizia che interviene con i manganelli e il gas lacrimogeno, e lasciando sul terreno anche qualche morto, i manifestanti occupano la centrale Piazza Tahir e ne tengono il controllo fino a una seconda grande manifestazione organizzata per il 1° febbraio 2011. Il 2 febbraio i miliziani del regime cercano di riprendersi la piazza con coltelli e bastoni, ma sono respinti, anche perché i primi reparti militari cominciano a schierarsi con i manifestanti.
Ma chi sono i manifestanti, esattamente? Essi hanno in comune un solo punto programmatico: Mubarak se ne deve andare. Salvo questo, sono divisi su tutto. I Fratelli Musulmani vogliono più islam. I seguaci del tecnocrate Mohammed El Baradei, già direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Agenzia Atomica dell’ONU e discusso premio Nobel per la pace nel 2005, vogliono meno islam. Gli attivisti islamici, che considerano Mubarak troppo laico, vogliono la liberazione degli arrestati come sospetti della strage di Capodanno di Alessandria contro i cristiani copti. Ma in Piazza Tahir ci sono anche copti che vogliono la libertà religiosa. C’è chi chiede ai grandi industriali di riorganizzare l’economia egiziana e chi lancia slogan socialisti.
La corruzione del regime di Mubarak e la gestione fallimentare della crisi economica tengono unita la piazza, ma non emerge una chiara dirigenza. Il 3 febbraio un gruppo di leader della società civile – fra cui il più noto industriale egiziano, Naguib Sawiris, proprietario in Italia di Wind – forma un gruppo di contatto per proporre soluzioni. Ma né loro né El Baradei, rientrato in Egitto, convincono la folla di Piazza Tahir. Più popolare è il dirigente di Google Wael Ghoneim, rilasciato dal carcere il 7 febbraio. Ma emerge ben presto che non ha alcuna esperienza politica, né - forse - un progetto.
La protesta però cresce in modo incontrollabile e l’11 febbraio l’Esercito comunica che Mubarak si ritira e lascia il potere a un Consiglio Supremo delle Forze Armate - guidato dal generale Mohamed Hussein Tantawi, per vent’anni ministro della Difesa di Mubarak -, che resterà al potere provvisoriamente in attesa di libere elezioni politiche annunciate per il settembre 2011. Il governo provvisorio comprende anche alcuni civili, tra cui il costituzionalista Yehya Abdel-Aziz al-Gamal, un uomo di El Baradei, e un copto, Mounir Fakhry Abd El Nour, che diventa ministro del Turismo. Il mondo saluta la vittoria dei «ragazzi di Facebook». Ma è tutto oro quello che luccica?
L’11 febbraio, più che a una vittoria dei rivoltosi, si è assistito a un colpo di Stato. I militari si sono liberati dell’ormai impresentabile Mubarak. La loro mossa è stata in parte popolare, specie fuori del Cairo, dove il disordine regnava sovrano, edifici pubblici erano assaltati e negozi saccheggiati. La popolazione, che pure non amava la polizia di Mubarak, chiedeva che “una” polizia rimettesse le cose a posto. L’imposizione dell’ordine pubblico è però una mossa ambigua, da parte di una categoria - quella dei militari egiziani - che ha sempre operato nella segretezza. Ne sono venuti segnali contraddittori. I militari hanno subito aperto una pagina Facebook e hanno annunciato che, fedeli all’originalità della «rivoluzione», comunicheranno soprattutto con questo strumento. Ma un blogger che criticava l’Esercito è stato prontamente arrestato e condannato a tre anni di carcere. Hanno dato garanzie alla minoranza cristiana. Ma le violenze contro i copti non si sono fermate e l’11 aprile tutti i sospetti dell’attentato di Alessandria sono stati scarcerati. Il 19 marzo un referendum di riforma costituzionale è stato facilmente approvato, ma la maggior parte dei commentatori giudica le modifiche insufficienti per instaurare un regime compiutamente democratico. Né è stata messa in discussione la legge islamica come fondamento dell’ordine costituzionale egiziano.
Negli ultimi giorni molti manifestanti sono tornati in Piazza Tahir chiedendo le dimissioni di Tantawi, troppo legato al vecchio regime, e il nuovo governo dei militari – salutato inizialmente come espressione della «rivoluzione» – non ha esitato a usare la mano pesante (due morti), anche se nello stesso tempo ha accolto le domande perché si proceda legalmente contro Mubarak e i suoi principali collaboratori. Uno di questi, l’ex presidente del Senato Safwat Al Sherif è stato arrestato l’11 aprile. Non sembra che i militari desiderino rimanere al potere a lungo. Ma neppure accettano di perdere i privilegi di cui hanno fino ad ora goduto. Per le elezioni di settembre annunciano di essere aperti a una supervisione internazionale che eviti i brogli. Ma non c’è molto tempo perché le forze politiche si organizzino.
I più organizzati - anche se dovranno cambiare pelle e nome per presentarsi alle elezioni - sono i vecchi collaboratori di Mubarak, il meno impopolare dei quali - il segretario della Lega Araba Amr Moussa - è sceso per tempo in Piazza Tahir e ha abbandonato la sua carica internazionale per dedicarsi a tempo pieno alla politica egiziana. A contendere il potere a Moussa forse non sarà tanto El Baradei - stimato ma non popolare - quanto il gruppo dei partiti islamici, al cui interno si manifesta una competizione fra i Fratelli Musulmani, nettamente maggioritari e che promettono di presentarsi alle elezioni tramite un partito non confessionale, «Libertà e Giustizia», e un gruppo –i l Wasat («Centro») - che si è staccato dai Fratelli fin dal 1996 presentandosi come più aperto al dialogo con l’Occidente, mentre dovrebbe partecipare alle elezioni anche il partito Nahda («Risveglio»), risultato di una scissione conservatrice dei Fratelli cui nelle ultime settimane hanno aderito importanti dirigenti del movimento.
In effetti, all’interno dei Fratelli Musulmani esistono conflitti generazionali e di leadership fra chi rimane legato al modello fondamentalista originario e chi ammira il conservatorismo islamico del primo ministro turco Erdogan.
In verità, chi parla di una contrapposizione fra un «mubarakismo senza Mubarak» e i Fratelli Musulmani semplifica un quadro più complesso. Negli ultimi anni - pur escludendoli dal potere politico - Mubarak aveva governato in tacita intesa con i Fratelli Musulmani, cui aveva lasciato l’egemonia sulla società civile, moltiplicando i segni d’islamizzazione e di discriminazione verso la minoranza cristiana. L’alleanza fra gli eredi «critici» di Mubarak e i Fratelli Musulmani è dunque nelle cose e si è già manifestata con il referendum costituzionale del 19 marzo. Una «democrazia» in coabitazione fra «mubarakismo senza Mubarak» e islam politico assomiglierebbe forse troppo al vecchio regime per i gusti di chi continua ad andare a manifestare in Piazza Tahir. Ma non sembra ci siano grandi alternative. I ragazzi di Piazza Tahir che chiedono una seconda rivoluzione reclamano gesti simbolici di rottura con il regime – come il processo al vecchio dittatore – ma non sembrano avere un progetto alternativo per il nuovo Egitto. Che rischia dunque di assomigliare al vecchio, con un po’ più di democrazia e - a seconda del risultato elettorale dei Fratelli Musulmani e degli altri partiti islamici - un po’ più d’islam e di ostilità a Israele, e nessun cambiamento nella discriminazione dei cristiani.
A chi importa del Bahrain, l’isola del Golfo Persico dov’è in corso una dura repressione dell’ennesima rivolta araba? Dev’esserselo chiesto anche Barack Obama, che su quanto avviene nel piccolo regno ha emesso dichiarazioni contraddittorie, considerando alternativamente i rivoltosi dei combattenti per la libertà o dei pericolosi agenti iraniani.
Alla fine, qualcuno gli avrà spiegato che il Bahrain in effetti è molto importante. È il luogo dove - tra l’Arabia Saudita, l’Iraq e l’Iran - ha la sua base la Quinta Flotta americana. Il suo ruolo geopolitico è uno dei più cruciali del Medioriente. È anche, di questi tempi, la prova dell’ipocrisia delle monarchie del Golfo e dell’Occidente. La repressione della rivolta iniziata il 14 febbraio non è meno violenta di quella di Muhammar Gheddafi in Libia. Il Qatar, il grande alleato della Francia nel Golfo, è intervenuto in Libia contro Gheddafi. È intervenuto anche in Bahrain: semplicemente, schierandosi dalla parte opposta. Le sue truppe hanno dato man forte a quelle del governo per reprimere i rivoltosi. L’Occidente si è limitato a qualche blanda censura. Quello che succede in Bahrain è la dimostrazione finale delle bugie sugli interventi umanitari che sarebbero inevitabili quando i governi sparano sui loro popoli.
E tuttavia anche in questo Paese dire che i rivoltosi sono i buoni e i sostenitori del governo i cattivi sarebbe semplicistico. Come spesso accade, la crisi economica fa venire a scadenza cambiali secolari. Come in Siria e nello Yemen, Paesi di cui abbiamo già parlato su La Bussola Quotidiana, anche in Bahrain è al potere una minoranza religiosa. La popolazione dell’isola - e delle altre minori dell’arcipelago, che insieme costituiscono il Regno del Bahrain - è in maggioranza sciita da molti secoli. Ma nel 1783 Ahmed bin Muhammad al Khalifa (?-1796), il capo di una tribù sunnita della penisola arabica che controllava all’epoca anche il Qatar, invade il Bahrain e se ne proclama hakim (governatore).
Da allora, la dinastia al Khalifa controlla il Paese, grazie a una lunga alleanza strategica con la Gran Bretagna - ancor più stretta dopo la scoperta del petrolio nel 1932 - che ha permesso ai suoi esponenti, sia pure sotto protettorato inglese, di rimanere emiri del Bahrain e di resistere alle rivendicazioni dell’Iran, che considera l’arcipelago una sua provincia sulla base di argomenti storici e geografici.
Contrariamente a quanto spesso si legge, non è stato l’attuale governo a dare il via a una politica di naturalizzazione di lavoratori sunniti immigrati per bilanciare l’egemonia sciita. Lo hanno fatto in funzione anti-iraniana i britannici fin dagli anni 1950. Dopo la fine del protettorato inglese le naturalizzazioni sono continuate, provocando le proteste degli sciiti, che costituiscono tuttora il 70% dei cittadini del Regno. Nel 1973 l’emiro Isa (1933-1999) concede una Costituzione che ammette un limitato pluralismo politico, ma ne sospende gli effetti nel 1975. Ne seguono tentativi di colpo di Stato e una lunga agitazione da parte di sciiti, marxisti e fondamentalisti sunniti, strani alleati che tuttavia danno vita insieme dal 1994 al 1998 a un movimento semi-insurrezionale detto Intifada del Bahrain. La situazione si calma con la morte dell’emiro e l’ascesa al potere del figlio Hamad, che promette riforme e nel 2002 prende il titolo di re.
Il malessere degli anni 2000 deriva, sostanzialmente, dal fatto che le promesse riformatrici del re non si sono realizzate. Gli sciiti lamentano la concentrazione del potere nelle mani della minoranza sunnita e la continuazione della vecchia politica di cittadinanze facili concesse agli immigrati sunniti. I fondamentalisti sunniti denunciano la corruzione politica e morale e chiedono misure contro la prostituzione e la vendita di alcolici. I marxisti e altre forze di sinistra criticano l’assenza di riforme economiche a vantaggio dei più poveri. La crisi economica e il successo delle rivolte in Tunisia e in Egitto fanno così da detonatore alla «rivoluzione del 14 febbraio», quando dimostranti di diversa provenienza prendono il controllo della centrale Piazza della Perla nella capitale Manama. La polizia reagisce facendo sette morti, ma non riesce a riprendersi la piazza, mentre all’interno della famiglia reale si manifesta una dialettica - forse non fittizia - fra la linea dura del primo ministro Khalifa - cugino del re e in carica dal lontano 1971 - e quella dialogante dell’erede al trono Salman.
La prima linea sembra prevalere quando - senza consultare l’amministrazione statunitense - truppe dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar sbarcano sull’isola il 14 marzo per stroncare la rivolta. Il 15 marzo il re impone lo stato d’emergenza, ma ogni settimana ci sono tentativi di dimostrazioni illegali a Manama, e scaramucce nei villaggi lontani dalla capitale e dai giornalisti.
Chi sono i rivoltosi? Il re Hamad ha concesso una limitata democrazia, e in Bahrain si vota per il Consiglio dei Rappresentanti, una camera che ha in realtà ben pochi poteri. È così possibile tracciare una mappa delle forze politiche sulla base delle elezioni del 2010. L’elettorato sunnita vota un partito fondamentalista espressione dei Fratelli Musulmani, al-Minbar (due seggi), uno tradizionalista che propugna il modello saudita, affine ma non identico al progetto dei Fratelli Musulmani, al-Asala (tre seggi), e soprattutto candidati indipendenti vicini alla famiglia reale (diciassette seggi), nei cui confronti le accuse non sono tanto di brogli ma di un disegno dei distretti elettorali che assicura la maggioranza parlamentare ai sunniti, che pure sono minoranza fra gli elettori.
Gli sciiti votano un blocco di forze molto diverse fra loro, unite dalla rivendicazione di maggiori diritti per la maggioranza sciita, al-Wifaq (diciotto seggi). Ma un gruppo sciita, i seguaci del Grande Ayatollah iracheno Mohammad Hussaini Shirazi (1928-2001) e dei suoi discendenti, ha deciso di boicottare le elezioni del 2010 e preferisce per il Bahrain un futuro repubblicano. Lo stesso chiedono i partiti laici – i nazionalisti di Azione Nazionale Democratica, i marxisti del Forum Progressista e il Gruppo Nazionale Democratico, ispirato alla figura dell’ex-dittatore iracheno Saddam Hussein (1937-2006) – i quali, coinvolti nel generale discredito dei regimi laico-nazionalisti, non sono riusciti nel 2010 a conquistare alcun seggio.
È interessante notare che in Piazza della Perla si sono visti esponenti di tutti i partiti politici, compresi i sunniti legati all’islam politico di al-Minbar e al-Asala, i quali si sono però ritirati quando la guida della rivolta è apparsa saldamente in mani sciite e hanno approvato la proclamazione dello stato d’emergenza. Per quanto molto minoritari nel Paese, laici e comunisti hanno mostrato di poter mobilitare diversi attivisti. E molti giovani convocati via Facebook non facevano riferimento ad alcun partito.
Il re - ma soprattutto il primo ministro - agitano lo spauracchio dell’Iran sciita per convincere i vicini arabi sunniti a intervenire, e gli Stati Uniti e l’Europa a non condannare la repressione della rivolta. È vero che, subito dopo la rivoluzione iraniana del 1979, l’Iran cercò di organizzare nel 1981 un colpo di Stato sciita in Bahrain, e che mantiene contatti con diverse componenti del partito di maggioranza relativa al-Wifaq. Ma è anche vero che nessun partito sciita vuole la riunificazione del Bahrain con l’Iran, e che tutti accettano - in teoria, anche l’Iran - i risultati di un referendum del 1970 condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite, in cui la maggioranza degli abitanti dell’arcipelago scelse di rimanere indipendente anziché diventare una provincia iraniana. L’Iran ha celebrato i «martiri» della repressione, ma nello stesso tempo i suoi media non hanno troppo divulgato le richieste di effettiva democrazia dei manifestanti di Piazza della Perla, che potrebbero evidentemente contagiare anche gli iraniani.
Gli Stati Uniti, che come accennato mantengono una presenza navale nel Bahrain, avrebbero potuto influenzare la famiglia reale e favorire un dialogo istituzionale inteso a disinnescare la rivolta concedendo maggiori diritti agli sciiti. Anche nella vicenda del Bahrain è emersa però l’impreparazione dell’amministrazione Obama ad affrontare complicate questioni di politica medio-orientale. Così, l’Arabia Saudita, gli Emirati e il Qatar - quest’ultimo forte del legame a filo doppio con la Francia - hanno preso l’iniziativa di mandare le loro truppe sull’isola. Per la prima volta un’operazione militare nel Golfo è avvenuta senza che gli Stati Uniti l’approvassero preventivamente. Questa mossa ha restaurato l’ordine pubblico nel Bahrain, ma ha creato un pericolo di dimensioni regionali. Il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki, teoricamente filo-americano ma sciita, si è unito all’Iran nel denunciare la gravissima provocazione sunnita nei confronti di tutto il mondo sciita, e in un discorso si è spinto fino a prevedere che la prossima guerra medio-orientale non sarà fra filo-occidentali e anti-occidentali ma fra sciiti e sunniti.
Quella del Bahrain è una rivoluzione interrotta che - finché gli Stati vicini appoggiano militarmente il governo - non può vincere. Ma nello stesso tempo la repressione dei correligionari nel Bahrain rischia di riavvicinare gli sciiti dell’Iraq a quelli dell’Iran, e di giocare a favore del regime di Teheran, frustrando decenni di sforzi dell’Occidente per impedire agli ayatollah iraniani di prendere la guida di un blocco della Shi’a che potrebbe andare da Beirut alle zone sciite del Pakistan.
La tragica morte del pacifista e attivista anti-israeliano italiano Vittorio Arrigoni ci ricorda che non tutti i terroristi ultrafondamentalisti islamici la pensano nello stesso modo. Non esiste un fronte unito dove Hamas e al-Qa’ida «sono tutti la stessa cosa». Non è così, e la distinzione - che non manca di ricordare quella all’interno del comunismo fra il «comunismo in un solo Paese» di Iosif Stalin (1878-1953) e la rivoluzione permanente e globale di Lev Trotsky (1879-1940) - è fra jihad locale e jihad globale. Usiamo qui jihad nel senso di «guerra santa» rivolta contro nemici esterni; naturalmente, anche gli ultrafondamentalisti conoscono l’altro significato di jihad nell’islam, come sforzo ascetico per vincere i propri difetti e passioni, ma non è in questo senso che essi stessi utilizzano di solito il termine.
Hamas, ancorché oggi governi Gaza, è un’organizzazione terroristica nel senso che non ripudia, anzi teorizza il ricorso al terrorismo come forma di jihad. Ma si tratta di un terrorismo organizzato, promosso e gestito contro Israele e sul territorio d’Israele. Hamas si è preoccupata raramente di colpire interessi israeliani all’estero; certamente non si è mai impegnato in guerre cosmiche o planetarie fra l’islam e il mondo degli infedeli, fra il Bene e il Male. Per Hamas il problema da risolvere, prima di pensare a scenari globali, è la Palestina: e di questo offre anche una giustificazione teologica, ricordando il ruolo sacro della Palestina e di Gerusalemme nell’islam. La battaglia per la Palestina non è, per Hamas, una fra le tante battaglie che l’islam oggi si trova a combattere, ma è la madre di tutte le battaglie. Finché il problema della Palestina non è risolto, secondo Hamas è inutile e perfino dispersivo utilizzare il terrorismo in funzione di scenari globali.
Hamas è la branca palestinese dei Fratelli Musulmani, la maggiore organizzazione fondamentalista islamica su scala mondiale. La rottura fra il suo progetto di jihad locale e un nuovo modello di jihad globale si consuma con l’emigrazione nel 1976 in Arabia Saudita di un importante intellettuale palestinese e teorico del terrorismo, Abdullah Azzam (1941-1989). Dopo aver preso fisicamente le distanze dalla Palestina, Azzam inizia a rifiutare la tesi di una centralità assoluta e incondizionata della questione palestinese. Per lui, lo scontro è globale e dev’essere descritto, con toni millenaristi, come la lotta finale fra il Bene e il Male, fra l’islam e la barbarie della miscredenza. Questa lotta globale e cosmica deve approfittare dei punti deboli del nemico, e colpire là dove c’è possibilità di vittoria. Così, dal 1979, Azzam alterna l’attività accademica con quella di guerrigliero in Afghanistan perché ritiene che sulle montagne afghane, non in Palestina, ci sia la possibilità immediata di vincere una battaglia.
Osama bin Laden è un allievo di Azzam all’Università Re Abdul Aziz in Arabia Saudita: lo segue in Afghanistan, e insieme fondano al-Qa’ida, «la Base», all’origine soltanto una rete per mantenere in contatto i volontari internazionali che avevano combattuto contro i russi in Afghanistan. Da Azzam, bin Laden deriva l’idea di un jihad globale e non più soltanto locale. Paradossalmente, dal palestinese Azzam bin Laden apprende pure, fino all’11 settembre 2001, un relativo disinteresse per la questione della Palestina. Nella stessa retorica di bin Laden, la Palestina è certamente citata, ma gioca un ruolo secondario fino all’11 settembre e alla sua immediata preparazione. Soltanto dopo l’11 settembre i riferimenti alla Palestina si fanno più insistenti, perché bin Laden si rende conto che solo agitando la bandiera palestinese può reclutare militanti in un mondo islamico che non sempre capisce e apprezza le sue strategie.
Ma, anche dopo l’11 settembre, Hamas rifiuta i tentativi di bin Laden di inserirlo nella sua rete internazionale. Il movimento ha un numero tale di candidati palestinesi alle operazioni di terrorismo suicida da non avere alcun bisogno di «martiri» che arrivino dall’estero. Nel 2006, però, Hamas vince le elezioni in Palestina, e dal 2006 governa Gaza, mentre i rivali laici di al-Fatah controllano la Cisgiordania. Com’è avvenuto in tante altre occasioni, un movimento terroristico «di lotta» diventa anche «di governo» e comincia a ragionare in modo parzialmente diverso dal passato, cercando di farsi accettare dalla diplomazia internazionale e avviando contatti almeno con l’Europa - secondo alcuni, in gran segreto anche con gli Stati Uniti e perfino con Israele. Non abbandona veramente gli attacchi terroristici, ma li persegue a intermittenza.
Questo relativo «imborghesimento» di Hamas, diventato partito non solo di lotta terroristica ma anche di governo, apre spazi a forze più radicali. A Gaza l’islam di matrice egiziana dei Fratelli Musulmani è certamente maggioritario. Ma si è diffuso negli ultimi decenni anche un islam «salafita», espressione ambigua e contestata da diversi specialisti che designa un modello tradizionalista che ha il suo tipo nella dottrina wahhabita dell’Arabia Saudita, molto più puritano nei costumi e occhiuto nella repressione di fenomeni come la vendita di alcolici e la prostituzione. Non tutti i salafiti sono terroristi, e l’Arabia Saudita ha represso duramente al-Qa’ida, che da parte sua considera il governo saudita il suo primo nemico. Ma l’ideologia di Bin Laden nasce su una base salafita, cui aggiunge però le dottrine del suo maestro Azzam sul jihad globale condotto attraverso il terrorismo, tanto che la sua dottrina è definita «salafita-jihadista» per distinguerla da quella «salafita-tradizionalista» del governo saudita. Al-Qa’ida dunque differisce due volte da Hamas: perché guarda al jihad globale anziché a quello locale, e perché il suo retroterra islamico, salafita, è molto più puritano e tradizionale rispetto a quello dei Fratelli Musulmani di cui Hamas è la filiale palestinese, e guarda come modello non all’islam tradizionale egiziano ma a quello saudita.
Al-Qa’ida ha aperto un suo ufficio palestinese subito dopo l’11 settembre, agli inizi del 2002, ma questo ha avuto scarso successo fino a quando nel 2006 Hamas ha vinto le elezioni, ha cominciato a governare e ha potuto essere accusata di avere perso il fervore terroristico originario. Hamas significa appunto «fervore», pur essendo insieme acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya («Movimento di resistenza islamico»). Tuttavia non esiste a Gaza oggi un’unica organizzazione salafita-jihadista controllata da al-Qa’ida. C’è una costellazione di gruppi che hanno abbandonato Hamas accusandolo di essersi «imborghesito», nelle cui divisioni s’intrecciano con l’ideologia questioni di denaro, di leadership e perfino familiari. Fino al 2009 uno dei gruppi salafiti-jihadisti più importanti a Gaza era Jund Ansar Allah («Soldati del Partito di Dio»), che ha però attraversato una «linea rossa» progettando attentati contro i dirigenti di Hamas. La repressione è stata durissima e l’11 agosto 2009 la polizia di Hamas ha fatto irruzione in una moschea dove i membri del movimento erano radunati uccidendone ventuno, fra cui i due principali leader, e ferendone cento. In seguito a questi avvenimenti l’altro principale gruppo salafita-jihadista, Jaysh al-Islam («Esercito dell’Islam») – secondo molti esecutore materiale, d’intesa con Hamas, del rapimento del militare israeliano Gilad Shalit, tuttora tenuto in ostaggio, nel 2006 – ha adottato un profilo più basso e collabora tra alti e bassi con Hamas, pur non avendo interrotto i contatti con al-Qa’ida.
Dopo lo smantellamento di Jund Ansar Allah oltre a Jaysh al-Islam e a una costellazione di gruppuscoli che hanno in media una decina di membri ciascuno rimangono a Gaza tre gruppi salafiti-jihadisti: Jaysh al-Umma («Esercito della Nazione»), Tawhid wa al-Jihad («Monoteismo e Jihad»), il movimento del terrorista internazionale Hisham Al-Saidni, noto anche come Abu Walid Al-Magdisi, che tramite il suo braccio armato Brigata Mohammed bin Moslama sembrerebbe responsabile della morte di Arrigoni, e Ansar al-Sunna («Sostenitori della Sunna», cioè dell’insegnamento dell’islam nella sua declinazione sunnita). Che cosa sono, esattamente, questi gruppi? Sono al-Qa’ida? Si può dire che sono in contatto con al-Qa’ida - qualunque cosa sia al-Qa’ida oggi - il cui ufficio di coordinamento a Gaza non è in grado però di dirigerli e certamente non li ha creati. È anche evidente che, fino a quando non organizzano attentati contro Hamas, i gruppi salafiti-jihadisti vivono e operano a Gaza con il permesso di Hamas, che in qualche modo profitta delle loro attività. Infatti li manipola e li usa per un certo lavoro sporco contro Israele, da cui poi - quando è scoperto - può prendere le distanze affermando che «non siamo stati noi ma i nostri nemici di al-Qa’ida».
Da una parte, non si deve considerare la divergenza fra Hamas e i gruppi salafiti-jihadisti puramente fittizia e cosmetica. Le differenze fra le strategie del jihad locale di Hamas e il jihad globale di al-Qa’ida e dei salafiti-jihadisti, e fra lo stile fondamentalista islamico di matrice egiziana dei Fratelli Musulmani - dunque di Hamas - e quello tradizionalista di matrice saudita del salafismo non sono solo di facciata. Come emerge dalla sanguinosa repressione di Jund Ansar Allah nel 2009, queste divergenze sono così reali da provocare qualche volta parecchi morti. Ma dall’altra parte occorre sempre rendersi conto che Gaza è un piccolo territorio di 360 chilometri quadrati e che i gruppi salafiti-jihadisti si riuniscono, tengono contatti con al-Qa’ida, lanciano razzi su Israele e pianificano attentati anti-israeliani solo finché la polizia di Hamas lo tollera e lo permette. Più in generale, e da un punto di vista culturale, i gruppi salafiti-jihadisti trovano reclute perché si muovono su un terreno preparato dalla retorica anti-israeliana di Hamas - separata dal pragmatismo di cui alcuni dirigenti dell’organizzazione palestinese sanno poi dare prova quanto serve - e dall’islamizzazione forzata in senso fondamentalista della vita civile di Gaza a partire dal 2007.
Qui sta anche l’errore di organizzazioni come il gruppo di Arrigoni, International Solidarity Movement. Si tratta di nemici d’Israele «senza se e senza ma» che prendono per buone le dichiarazioni di Hamas secondo cui non è (più) un movimento terrorista e non ha assolutamente niente a che fare con i salafiti-jihadisti, affermazioni che come si è visto sono in buona parte false. Fidandosene, si corrono gravi rischi, e anche le lacrime di Hamas sul destino di Arrigoni, che di Hamas era un amico sincero, sono un po’ lacrime di coccodrillo. Il doveroso cordoglio per la morte dell’attivista italiano non può dunque essere disgiunto da una riflessione più ampia.
Uno dei libri recenti più importanti per capire quanto sta succedendo in Medio Oriente è stato scritto prima che le rivolte scoppiassero. Ma le conclusioni sono profetiche. «Con poche eccezioni – si legge nelle ultime pagine – i Paesi della regione non sono competitivi sui mercati globali dei prodotti e servizi industriali; le loro società civili sono troppo poco organizzate, e troppo represse, per fornire i contrappesi politici necessari a sostenere un regime democratico. Se i governi dittatoriali della regione dovessero magicamente cadere, lo sviluppo di un forte settore privato e di società civili potrebbe richiedere decenni». Così scrive l’economista statunitense di origine turca Timur Kuran, professore alla Duke University e uno dei maggiori studiosi mondiali di sociologia dell’economia, nel suo nuovo volume The Long Divergence. How Islamic Law Held Back the Middle East («La lunga divergenza. Come la legge islamica ha tenuto indietro il Medio Oriente», Princeton University Press, Princeton - Oxford 2011).
Kuran è noto ai sociologi per la sua teoria della falsificazione delle preferenze, secondo la quale il conformismo sociale spinge molti a esprimere un pubblico consenso a tesi di cui non sono intimamente convinti, creando illusioni ottiche che sono poi smentite da rivoluzioni impreviste – come quella iraniana del 1979, sorprendente per chi prendeva per buoni sondaggi sulla presunta popolarità dello scià – ovvero da risultati elettorali: quanti in Italia insistono che «nessuno dei loro amici vota Berlusconi», stupendosi poi dei voti che lo stesso Berlusconi raccoglie nelle elezioni? Il fenomeno di cui si occupa Kuran in questo volume è simmetrico alla falsificazione delle preferenze: il conformismo sociale spinge molti musulmani a ripetere la tesi secondo cui la legge islamica, la shari’a, sarebbe la soluzione di tutti i problemi dei loro Paesi, se solo i governi non fossero corrotti o poco islamici e la applicassero fedelmente. Ma – si chiede Kuran – se fosse il contrario? Se la shari’a non fosse la soluzione ma, precisamente, il problema?
Kuran è il contrario di un nemico dell’islam. Dal 1993 al 2007 è stato titolare all’Università della California del Sud della cattedra Re Feisal di studi islamici, finanziata dall’Arabia Saudita. Nel libro chiarisce infatti ripetutamente che non considera l’islam di per sé un fattore di sottosviluppo economico e culturale, e che la shari’a dei primi secoli islamici garantiva lo sviluppo dell’economia e del commercio in un quadro giuridico che non solo era superiore a quello dell’Arabia pre-islamica ma non sfigurava neppure al paragone con l’Europa del tempo. Cita gli studi dello storico dell’economia Angus Maddison (1926-2010) secondo cui nell’anno 1000 il Medio Oriente islamico contribuiva al Prodotto Interno Lordo (Pil) mondiale per il 10%, paragonato al 9% dell’Europa cristiana. Ma secondo lo stesso studioso nel 1700 la quota del Pil mondiale del Medio Oriente era scesa al 2%, meno di un decimo dell’Europa, che era arrivata al 22%.
Che cosa era successo nel frattempo? È nota la domanda dello storico Bernard Lewis sulle sconfitte militari islamiche che iniziano alla fine del secolo XVII e che nessuno nel mondo musulmano aveva previsto: «Che cosa è andato storto?». Kuran riformula la stessa domanda per l’economia. Le due risposte che Lewis rileva nel mondo islamico per la politica, applicate all’economia, sono per Kuran entrambe insoddisfacenti. La prima postula – appunto – che la decadenza dell’islam derivi dal suo allontanamento dalla shari’a. Ma la «divergenza» sfavorevole, il gap con l’Europa si manifesta prima che alcuni Paesi islamici – anzitutto l’Impero Ottomano – comincino ad adottare soluzioni giuridiche diverse dalla shari’a, non dopo. La seconda, al contrario, considera l’islam come particolarmente avverso al commercio e alla finanza, e cita come prova il divieto dell’usura. Al contrario, argomenta Kuran, lo stesso Muhammad (570 o 571-632) era un mercante, il Corano loda il commercio e il divieto dell’usura c’era anche nell’Europa cristiana del Medioevo. Né convince Kuran la terza spiegazione, terzomondista o marxista, secondo cui sono stati i colonialisti europei la causa del sottosviluppo mediorientale. I dati di Maddison non lasciano scampo: l’economia europea batteva dieci a uno quella del Medio Oriente già nell’anno 1700, prima del colonialismo e quando l’arretramento militare e territoriale dell’islam successivo al fallito assedio di Vienna del 1683 era appena iniziato. Queste sconfitte militari sono del resto – o così pensa Kuran – l’effetto e non la causa del ritardo economico.
Il problema principale che Kuran identifica è quello del diritto commerciale. La shari’a si occupa anche dei contratti di società, e le forme societarie che conosce per imprese commerciali sono varianti o analogie di quella che in Europa è la società in accomandita, in cui si associano soci accomandanti – che conferiscono capitale, ma non interferiscono nell’amministrazione della società – e soci accomandatari, che gestiscono di fatto la società. A seconda che gli accomandatari – cioè i mercanti – contribuiscano o meno anche loro capitale, e non solo lavoro, al pari degli accomandanti – cioè dei meri finanziatori – la shari’a parla di musharaka o di mudaraba.
Non si devono sottovalutare, insiste Kuran, i pregi di queste accomandite musulmane, che hanno funzionato egregiamente per diversi secoli. Tuttavia nella shari’a erano insiti fin dall’origine anche i loro problemi, irrilevanti in sistemi commerciali relativamente semplici, drammatici quando il commercio diventa internazionale e complesso. L’accomandita islamica può essere sciolta su richiesta di uno qualsiasi dei soci. Cosa più grave ancora, si scioglie quando muore un socio. Non gli subentrano automaticamente gli eredi, e anche se c’è l’accordo di questi ultimi per continuare – o meglio rifondare – la società le difficoltà pratiche sono enormi, perché un musulmano ricco ha diverse mogli e molti figli, e la shari’a impone – prima che questo avvenga in Europa – una distribuzione egualitaria delle quote ereditarie. È vero che la shari’a si applica necessariamente solo ai musulmani. I non musulmani che vivono in un Paese islamico possono sceglierla per i loro contratti, ma non sono obbligati a farlo. La pena di morte per l’apostasia, e i sospetti che gravano su chi si associa a un non musulmano come potenziale apostata, sconsigliano però le società fra i mercanti musulmani e i cristiani e gli ebrei che pure, liberi dai vincoli della shari’a, operano con grande successo nei Paesi islamici – un successo che è anche alla radice di secolari invidie e ostilità.
L’accomandita è una società di persone, non di capitali. La shari’a è di per sé ostile alla personalità giuridica concessa a entità che – per usare la formula, ripresa da Kuran, del giurista e uomo politico settecentesco britannico Edward Thurlow (1731-1806) – «non hanno corpi che possano essere puniti né anime che possano essere condannate». Con grande fatica sulla tradizionale base dell’accomandita s’inserisce nel mondo islamico l’idea di una responsabilità limitata dei soci, che è però cosa diversa da una responsabilità limitata della società. Questa non ha personalità giuridica e può sempre essere attaccata per i debiti di un singolo socio. Perfino quando nel 1851 il sultano turco Abdulmecit (1823-1861) fonda la prima società per azioni del mondo islamico, di cui egli stesso è il principale azionista, la società di trasporto marittimo Sirket-i Hayriye, questa presenta sì la grande innovazione delle azioni liberamente commerciabili, ma non ha personalità giuridica. I soci sono responsabili per i debiti della società solo nei limiti delle loro quote, ma la società resta responsabile senza limiti per i debiti dei soci.
Secondo Kuran è nel momento in cui gli affari si fanno internazionali e complessi, con la nascita della modernità, che un sistema di diritto commerciale che prevede soltanto variazioni dell’accomandita non può reggere. Prima le banche italiane, poi le compagnie coloniali inglesi e olandesi permettono a migliaia di imprenditori e investitori di mettersi insieme non per la durata della loro vita ma – vendendo e trasferendo quote e azioni – per secoli, realizzando progetti commerciali e industriali di lungo periodo che hanno bisogno della responsabilità limitata delle società e della forma della moderna società per azioni. Questa forma in Medio Oriente non si sviluppa fino al secolo XX: non per caso, ma perché la shari’a non la permette. E se su altri punti la shari’a è interpretata e aggirata – secondo Kuran l’efficacia del divieto dell’usura è sopravvalutata – la personalità giuridica delle società cozza contro il suo carattere individualistico e i suoi stessi principi fondamentali.
Per la verità, aggiunge Kuran, esistono in Medio Oriente istituzioni permanenti: nella forma del waqf, la fondazione pia costituita da un donatore per rendere servizi di pubblica utilità e di cui può nominare amministratore uno solo dei suoi discendenti, aggirando il principio dell’uguaglianza fra gli eredi. Ma il waqf, tuttora pilastro dell’economia dei Paesi islamici, dovrebbe servire in teoria a fini caritativi o pubblici, non di commercio privato. E – se dura nel tempo – è però rigido, perché le norme stabilite da chi lo ha costituito non possono essere cambiate dai successivi amministratori, che non ne sono i proprietari.
Nel secolo XX, naturalmente, le cose sono cambiate. Oggi in quasi tutti i Paesi del Medio Oriente ci sono società di capitali a responsabilità limitata, azioni, borse e grandi capitalisti. Gli stessi fondamentalisti islamici non protestano troppo, concentrando i loro strali sull’usura e sulle banche, le quali devono adottare misure cosmetiche per presentarsi come «banche islamiche» senza essere però nella sostanza troppo diverse dalle banche occidentali. In alcuni Paesi il lungo ritardo sembra essere in via di recupero. Il tasso di crescita dell’economia turca è più alto di quello di molti Paesi dell’Unione Europea.
Eppure, sostiene Kuran, la shari’a non ha smesso di fare danni. Anche se ci sono le società per azioni e le borse, rimane una mentalità ostile alla crescita di una società civile distinta dallo Stato, e una diffidenza nei confronti di istituzioni private di grandi dimensioni che sole possono opporsi a uno statalismo che ingenera fatalmente inefficienza e corruzione. La buona notizia per Kuran è che si può mantenere un’identità islamica – come proprio l’attuale Turchia dimostrerebbe – cambiando mentalità e marcia in campo economico e politico. La cattiva notizia, secondo l’economista, è che per uscire da questa mentalità ci vorranno decenni, e che non si comincerà neppure a venirne fuori se non si diffonderà la consapevolezza del «ruolo che la classica legge islamica ha avuto nell’impedire la modernizzazione organizzativa e nell’instupidire le imprese musulmane del Medio Oriente». Al contrario, nel mondo arabo «l’idea che responsabili del sottosviluppo siano gli stranieri continua a essere condivisa dalla maggioranza della popolazione, compresi gli stessi laicisti che pure considerano la legge islamica arretrata e obsoleta».
Con le rivolte mediorientali del 2011, scoppiate dopo che Kuran aveva finito di scrivere il suo libro – dove forse mancano una riflessione sul rapporto fra la la shari’a e la teologia che la sostiene, e un’analisi di quanto la legge islamica sia stata davvero rispettata nei comportamenti individuali e sociali (è questa la critica che, dal versante di un islam conservatore, rivolge a Kuran l’economista dell’Università di Brunei Shamin Ahmad Siddiqi) – i giovani di molti Paesi si sono ribellati contro gli effetti. Ma, finché manca un’identificazione delle cause, si può dubitare che le rivolte impostino davvero una soluzione del problema di un secolare sottosviluppo.