CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Con
qualche ritardo sulla sua data di pubblicazione, propongo una recensione di
un’opera importante su uno dei più tragici «suicidi collettivi» legati alle «sette», quello del
movimento «cattolico di frangia» Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio a
Kanungu, in Uganda, il 17 marzo 2000. I lettori italiani conoscono la storia di
Kanungu soprattutto grazie ai lavori di Raffaella Di Marzio – di cui cfr.
da ultimo Kanungu: l’Apocalissi ugandese.
Quando la fede religiosa diventa fabbrica di morte, ilmiolibro.it, Roma
2010 – che rimangono punti di riferimento indispensabili insieme agli
articoli dello storico svizzero Jean-François Mayer. L’antropologo neozelandese
Richard Vokes ha da poco pubblicato con Ghosts
of Kanungu. Fertility, Secrecy & Exchange in the Great Lakes of East Africa (James Currey, Woodbridge [Suffolk] e Rochester [New York] 2009, da cui
sono tratte tutte le citazioni seguenti) quello che presenta lui stesso come
«il migliore resoconto disponibile» (p. 214) del movimento di Kanungu e della
sua tragedia finale.
L’affermazione
può sembrare presuntuosa ma arriva verso la fine del volume quando il lettore,
anche quello specializzato, si è convinto che ha le sue buone ragioni. Sul
piano dei fatti, nessuno ha studiato Kanungu come Vokes, il quale parla il
Runyankore/Rukiga – la lingua dell’Uganda sud-occidentale dove si sono
svolti i fatti – , ha una moglie ugandese e ha trascorso otto anni sul
posto raccogliendo tutta la documentazione disponibile. Sul piano delle
interpretazioni il libro necessita invece di essere integrato da altre fonti.
Vokes è un antropologo, che si è concentrato sullo studio del caso senza
proporre paralleli sociologici con altri «suicidi collettivi». Inoltre, e
questo non è irrilevante per lo studio di un movimento nato nella Chiesa
Cattolica, Vokes ha una conoscenza piuttosto elementare del cattolicesimo.
Considera l’insistenza sul peccato originale una dottrina tipica dei cattolici
che li contrapporrebbe ai protestanti (cfr. p. 84), quando parla di preti
francesi provenienti da Lourdes gli vengono in mente i culti preistorici e non
l’apparizione mariana (p. 80) – che pure altrove cita –, e
soprattutto ha un’idea non del tutto precisa della distinzione fra apparizioni
riconosciute e non riconosciute, che pure sarebbe essenziale per la materia che
tratta. Con queste riserve, si deve essere grati a Vokes per un lavoro
preziosissimo, corredato da un sito
Internet che fornisce per
così dire le «note» del volume e contiene ampia documentazione sia in
Runyankore/Rukiga sia in inglese, fotografie e video che documentano le
affermazioni del volume.
Il
punto di partenza dell’indagine di Vokes è il culto di Nyabingi, una divinità
femminile della fertilità, nato probabilmente nel Ruanda del Nord nel tardo
secolo XVIII ma diffuso soprattutto da una principessa ruandese, Muhumuza
(?-1945), che per prima ne fa strumento di lotta contro il colonialismo tedesco
e britannico. Vokes critica la ricostruzione della letteratura coloniale che
presenta il culto di Nyabingi come un movimento gerarchico, suscettibile come
tale di essere stroncato incarcerandone i «capi». Più che un movimento, per
Vokes il culto di Nyabingi è un network di medium che entrano in contatto con lo spirito in ambito familiare.
Tipicamente, si tratta di mogli giovani che, nell’ambito della poligamia, hanno
dissapori con le mogli più anziane, o di donne sterili – una sciagura
considerata molto grave in Africa – le quali entrano in contatto con
Nyabingi, la quale si presenta come uno spirito protettore ma anche esigente e
vendicativo, e in genere richiede offerte in capi di bestiame, spesso molto importanti,
da parte del capofamiglia o di altri. Ne nasce uno scambio, perché lo spirito
ordinerà poi di ridistribuire queste offerte, talora riparando a ingiustizie,
altre volte – e qui scatterà la repressione coloniale – arricchendo
le medium e i loro collaboratori o finanziando movimenti insurrezionali.
Benché
la principale «disgrazia» per cui ci si rivolge a Nyabingi sia la sterilità, si
ha ricorso allo spirito anche per calamità che non sono solo personali, come la
presenza di un amministratore coloniale percepito come oppressivo, le epidemie o
le carestie. Si spiega così, nonostante la dura repressione britannica, il
grande successo del culto di Nyabingi negli anni 1946-1951, quando le autorità
coloniali costringono circa quindicimila ugandesi di etnia Kiga a spostarsi dal
distretto di Kigezi, sovrappopolato, ad altri distretti vicini situati a Nord o
a Ovest, sottopopolati. Il trasferimento ha un senso sul piano economico, ma ha
un effetto devastante sulla struttura familiare dei Kiga e sul modo di funzionare
della poligamia. La questione è di rilievo per Kanungu perché la grande
maggioranza dei membri del movimento Restaurazione dei Dieci Comandamenti di
Dio faranno parte della diaspora dei Kiga nata con i trasferimenti forzati di
quegli anni.
In
quanto network, il culto di Nyabingi
non scompare con l’arresto – talora l’uccisione – di quelli che
l’amministrazione coloniale percepisce, a torto, come i suoi «capi», dopo che è
diventato strumento di rivolte antibritanniche. Esiste ancora ai giorni nostri.
Secondo Vokes subisce però una trasformazione nel secolo XX quando i missionari
cattolici, particolarmente i Padri Bianchi, trasformano consapevolmente luoghi
di culto di Nyabingi in santuari mariani e abituano soprattutto le donne Kiga a
rivolgersi alla Madonna, Consolatrice degli afflitti, con accenti simili a
quelli con cui un tempo si rivolgevano a Nyabingi. Un movimento cattolico, la Legione
di Maria, diventa lo strumento per inquadrare questa devozione popolare alla
Vergine. Lo stesso luogo delle apparizioni di Kibeho (1981-1989), in Ruanda
– riconosciute dalla Chiesa Cattolica come autentiche, anche se Vokes non
lo precisa né esplora collegamenti tra Kanungu e Kibeho che altri autori hanno
menzionato – corrisponderebbe a un antico centro del culto di Nyabingi. È
difficile dire se Vokes esageri nel suo tentativo d’interpretare la confessione
cattolica nelle parrocchie ugandesi come qualcosa che è percepito da molti come
simile a quanto avveniva nelle capanne sacre dove s’incontrava Nyabingi. Ma
certamente processi cattolici d’inculturazione basati sull’inveramento nel
cattolicesimo di tradizioni precedenti fanno parte della storia della Chiesa
africana e anche di quella della Chiesa universale, fin dalla prima evangelizzazione
dell’Europa.
Dopo
il Concilio Ecumenico Vaticano II, tuttavia, si registra un po’ dovunque in
Africa da una parte una critica talora frettolosa e imprudente della
religiosità popolare, dall’altra la sostituzione del clero missionario con un
clero indigeno che qualche volta non gode immediatamente della stessa
autorevolezza dei vecchi missionari. Accanto alla proliferazione di migliaia di
«Chiese iniziate da africani» (AIC) di origine protestante, nascono così le
prime AIC che si separano dalla Chiesa Cattolica. Esemplare – e studiato
in particolare dall’antropologa statunitense Nancy Schwartz – è il caso
della trasformazione della Legione di Maria tra i Luo del Kenya in una AIC, la
Legio Maria Church, che oggi conta secondo alcune stime oltre un milione di
seguaci.
Lo
stesso processo porta alla separazione dalla Chiesa Cattolica ugandese della
Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio, che nasce dalle visioni di
Ceredonia (secondo la versione preferita da Vokes, mentre i documenti in
inglese del movimento usano «Credonia») Mwerinde (1952-2000), una Kiga della
diaspora, cattolica, che, dopo due relazioni con uomini che muoiono
rapidamente, nel 1979 diventa la settima di nove mogli di un certo Eric Mazima.
All’epoca, Ceredonia è comproprietaria con il fratello di un bar a Kanungu,
dove lavora: una professione ritenuta poco consona alle donne per bene e che
spiega le successive voci di prostituzione. Benché abbia avuto due figli dalle
relazioni precedenti, Ceredonia non riesce a dare un figlio a Mazima, che la
considera quindi sterile, il che la rende molto impopolare tra le altre mogli. Nella
notte del 24 agosto 1988 Ceredonia sveglia il marito e gli comunica che le è
apparsa la Vergine invitandola a recarsi alle vicine grotte di Nyabugoto, dove
si manifesterà il giorno seguente. Il mattino dopo con il marito e dieci membri
della famiglia Ceredonia si reca in effetti alle grotte. Solo lei vede una roccia
trasformarsi nella Madonna, che la incarica di una missione di apostolato. Il
marito non le crede, e poco dopo chiede il divorzio. Ma Ceredonia riesce a
riunire un gruppo di una quarantina di fedeli.
Già
di questo episodio di fondazione Vokes mette in luce il legame con il culto di
Nyabingi. Non solo i sogni e le visioni da parte di una moglie giovane e
sterile maltrattata dalle mogli anziane in in una famiglia poligama sono un
elemento caratteristico di tale culto, ma le grotte di Nyabugoto erano un sito
associato alla venerazione di Nyabingi – e all’insurrezione dei seguaci
dello spirito contro gli inglesi –, che non era neppure mai stato
trasformato in sito mariano cattolico, forse perché troppo evidente era il
simbolismo di fertilità legato al fatto che l’entrata di una delle grotte
assomiglia a un organo sessuale femminile.
Il
piccolo gruppo di Ceredonia diventa un fenomeno di rilevanza più che locale
perché ne viene a conoscenza un personaggio molto più noto, Joseph Kibweteere
(1932-2000). Questo insegnante cattolico e uomo politico, molto benestante, era
caduto in disgrazia dopo la caduta nel 1979 del dittatore Idi Amin Dada (1925 o
1928-2003), con cui aveva collaborato rappresentando anche il suo governo in
missioni in altri Paesi africani e in Europa. Kibweteere aveva così potuto
dedicarsi alla sua passione, le apparizioni mariane, e nell’aprile 1984 anche a
lui era apparsa la Madonna, predicendogli che un giorno avrebbe fondato un
movimento chiamato Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio. Kibweteere, un
laico autorevole nel mondo cattolico ugandese, è al centro negli anni 1980 di
un network di veggenti che il clero
locale tratta con indulgenza, giacché visioni e sogni sono un elemento molto
comune, giudicato sostanzialmente innocuo, della religiosità popolare locale.
Nel luglio 1989 Kibweteere e sua moglie Theresa incontrano Ceredonia, e ne
rimangono entusiasti. La invitano a vivere a casa loro a Kabumba, dove si
trasferiscono anche altre tre veggenti, Scholastica Kamagara (1939-2000), di
Kitabi – che aveva già una sua fama indipendente come veggente – e la
sorella e la nipote di Ceredonia, rispettivamente Angela (Angelina) Mugisha
(nei documenti del movimento, Migisha: 1947-2000) e Ursula Komahangi
(1968-2000).
Questa
piccola comunità di veggenti all’inizio è accolta favorevolmente dai parroci
della zona. Il 5 maggio 1991 è invitata a parlare al gruppo della Legione di
Maria nella parrocchia di Rugazi da uno dei sacerdoti più autorevoli dell’Uganda,
don Dominic Kataribaabo (1936-2000), già rettore del seminario diocesano di
Kitabi e uno dei pochi sacerdoti ugandesi ad avere studiato negli Stati Uniti.
Katatibaabo è anche lui un appassionato di apparizioni mariane: negli Stati
Uniti è entrato in contatto con il Movimento Sacerdotale Mariano di don Stefano
Gobbi, ma anche con il santuario mariano di Necedah (Wisconsin), che è al
centro del movimento creato dalla veggente Mary Ann Van Hoof (1909-1984) e
dichiarato scismatico dalla Chiesa Cattolica nel 1975. L’eccesivo interesse per
le apparizioni mariane, comprese quelle non riconosciute, spiega forse perché
don Kataribaabo non sia mai diventato vescovo, come invece molti in Uganda si
attendevano.
Anche
Kataribaabo si entusiasma per i messaggi di Ceredonia Mwerinde, e nel movimento
entrano altri due sacerdoti, don Paul Ikazire – che poi lo lascerà
– e don Joseph Mary Kasapuraari (1961-2010), figlio della veggente Scholastica
Kamagara. Tutti questi sacerdoti appartengono alla diocesi (oggi arcidiocesi)
di Mbarara, retta dal vescovo mons. John Baptist Kakubi. Quest’ultimo è da anni
preoccupato per la proliferazione di veggenti e apparizioni nella sua diocesi.
Costituisce una commissione d’inchiesta, la quale conclude che le apparizioni
del gruppo di Ceredonia non hanno origine soprannaturale e presentano contenuti
contrari alla fede cattolica. Nel 1991 i sacerdoti che fanno parte del gruppo
sono sospesi a divinis, uno degli
ultimi atti di mons. Kakubi prima di lasciare la diocesi al successore mons.
Paul K. Bakyenga.
Di
qui inizia uno scisma non infrequente nel caso di apparizioni non riconosciute
dalla Chiesa Cattolica. Anziché riconoscere alla Chiesa l’autorità di giudicare
le apparizioni, il gruppo ritiene che siano le apparizioni a giudicare la
Chiesa: se non le ha riconosciute, la Chiesa ha perso il suo ruolo. Così, nel
1992, seguendo rivelazioni che a questo punto solo lei nel gruppo è titolata a
ricevere dalla Madonna, Ceredonia Mwerinde ordina Kibweteere come sacerdote e
vescovo della Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio, ormai una AIC
chiaramente separata dalla Chiesa di Roma. È un passo che la moglie di
Kibweteere non desidera compiere: nel 1992 lascia il movimento e il marito,
seguita nel 1994 da don Ikazire, che protesta anche contro il comportamento
sempre più autoritario e bizzarro di Ceredonia, capo incontrastato di un gruppo
guidato da donne laiche – che si vestono però come suore cattoliche
– dove i sacerdoti e anche i laici di sesso maschile hanno un ruolo
subordinato. Vokes nota che – già prima della partenza di don Ikazire
– il gruppo aveva iniziato a rifiutare alcune riforme e innovazioni
postconciliari, in particolare la comunione nella mano. Inoltre, «molte delle
Messe domenicali della setta cominciarono a essere celebrate interamente in
latino» (p. 180), non è chiaro – né l’antropologo, ove conosca la
differenza, si pone il problema – se si tratti del novus ordo in lingua latina o del vetus ordo precedente alla riforma del 1969.
A
questo punto il movimento ha circa trecento membri a tempo pieno, che vivono
insieme in case di proprietà del gruppo, e circa cinquecento seguaci che non
vivono comunitariamente. Dalle storie di vita raccolte da Vokes tra coloro che
sono sopravvissuti alla tragedia del 2000 emergono vicende che ricordano ancora
una volta il culto di Nyabingi: aderiscono soprattutto mogli giovani
maltrattate dalle mogli più anziane in una famiglia poligama, e donne sterili.
La vera e propria esplosione si ha però negli anni 1990: i membri a tempo pieno
diventano oltre duemila, con diverse migliaia di altri fedeli che non vivono
nelle sedi del movimento. In modo a mio avviso convincente, Vokes collega
questo successo alla terribile epidemia di AIDS, che in quegli anni coinvolge
in alcune delle zone dove la Restaurazione si diffonde il trenta per cento
della popolazione. L’idea che l’AIDS sia una delle «disgrazie» che può essere
curata con il ricorso alla Madonna Consolatrice – per Vokes, sempre in
quanto erede o trasformazione di Nyabingi – spinge molti malati, e
parenti di malati, a rivolgersi alla Restaurazione. Ed è sempre l’AIDS che
contribuisce a spiegare l’emergere di una visione del mondo fortemente
millenarista e apocalittica, che interpreta l’epidemia che sembra onnipervadente
e invincibile come il preannuncio certo dell’imminente fine del mondo,
annunciata per l’anno 2000.
Ma
non si tratta solo dell’AIDS. Rispetto a molto clero locale, i dirigenti della
Restaurazione sembrano a molti più credibili e prestigiosi perché, grazie ai
contatti internazionali di Kibweteere e don Kataribaabo, possono presentarsi
come parte di una vasta rete internazionali di veggenti, tra cui William Kamm
(«Little Pebble»), un laico tedesco residente in Australia più tardi condannato
dalla Chiesa Cattolica nel 2002 e incarcerato in seguito ad accuse di violenza
sessuale, e Veronica Lueken (1923-1995), la veggente di Bayside, presso New
York, che all’epoca è già stata condannata dall’autorità ecclesiastica, nel
1986.
Tra
i contatti internazionali vanno pure segnalati Seibo no Mikuni e la Knotted
Cord of Love Rosary Mission di Sunset, Louisiana. Vokes nota l’importanza
particolarmente del secondo riferimento, ma non fornisce alcuna notizia
ulteriore. Aggiungo allora io che Seibo no Mikuni è un gruppo apocalittico e
sedevacantista – che cioè ritiene la sede pontificia di Roma vacante
– fondato in Giappone dal laico Yukio Nemoto (1925-1988), e che la
Knotted Cord of Love Rosary Mission fu fondata dalla veggente Genevieve Huckaby
Breaux (1939-2009) che, dopo avere collaborato con Little Pebble, finirà per
aderire alla Chiesa Ortodossa Copta. Naturalmente, nessuno di questi gruppi può
essere ritenuto corresponsabile della tragedia del 2000, ancorché sia possibile
che esponenti almeno del movimento di Little Pebble abbiano visitato il
gruppo ugandese, rimasto con gli altri in contatto meramente epistolare.
Emerge
pure dal resoconto di Vokes come – mentre le autorità di polizia in
effetti ignorano per anni denuncie di parenti di membri relative al
comportamento dittatoriale e talora crudele di Ceredonia – la stessa
accusa non può essere mossa alla Chiesa Cattolica. Il nuovo vescovo contatta
uno per uno ogni cattolico anche soltanto sospettato di aiutare quella che definisce
una setta non cattolica, minacciando le più gravi sanzioni. Tuttavia il vescovo
certamente non sospetta come le cose andranno a finire. Ma come, esattamente,
sono andate a finire?
Vokes
racconta nel dettaglio come, immediatamente dopo la scoperta dei cadaveri
– più di quattrocento, ma nessuno li ha mai veramente contati – a Kanungu,
il principale centro del movimento, il 17 marzo 2000, la tragedia è stata
ricondotta al modello del suicidio collettivo. Come è avvenuto in altri casi,
ritenendo prossima la fine del mondo – la letteratura del movimento
annuncia ripetutamente che dopo il 2000 non ci sarà un anno 2001 – gli
adepti si sono suicidati nel rogo della loro principale sede ritenendo che la
Madonna avrebbe trasportato i loro spiriti in Cielo sottraendoli alle
sofferenze dei tempi finali. Nel frattempo la polizia scopre pozzi dove sono
stati gettati cadaveri in altro quattro centri del movimento: 153 a Buhunga,
155 a Rugazi, 81 a Rushojwa e 55 nella stessa capitale dell’Uganda, Kampala. A
partire dal 20 marzo la presenza di molti giornalisti internazionali, che non
credono che così tante persone possano scegliere un suicidio apocalittico,
porta la polizia a emettere un’altra ipotesi: che i capi della «setta» siano
fuggiti con il denaro del movimento dopo avere ucciso i loro ingenui seguaci. Da
allora si moltiplicano gli avvistamenti di Ceredonia Mwerinde, don Kataribaabo
e Kibwetere in tutta l’Africa, e anche in Europa. I tre sono attivamente
ricercati ancora oggi, ma non sono mai stati trovati. L’unico elemento che
permetterebbe di sostenere la fuga è il cellulare di don Kataribaabo, che
risulterebbe essere stato usato per alcuni giorni dopo la tragedia. Ma anni
d’indagini non hanno portato a nulla, ed è semplicemente possibile che il
sacerdote abbia regalato il suo cellulare a qualcun altro il quale, spaventato
dalle notizie, lo abbia poi gettato via.
Le
indagini di polizia, sostiene Vokes, sono state molto sommarie. Un tabù della
cultura locale contrario alle esumazioni e alle autopsie ha fatto sì che ne
siano state eseguite relativamente poche, fra la generale ostilità della
popolazione, e i corpi siano stati immediatamente riseppelliti. Il principale
indizio che confermerebbe la tesi dell’omicidio è che alcune vittime estratte
dai pozzi mostrano segni di strangolamento. Ma Vokes documenta, riproducendo
fotografie, che il non piacevole lavoro di recupero di questi cadaveri fu
affidato a detenuti condannati ai lavori forzati. Questi si servirono di corde
legate al collo dei cadaveri per tirarli su dai pozzi. In un’autopsia sommaria
non è stato certo possibile determinare se i segni derivino da una morte per
strangolamento o, com’è più probabile, da questa tecnica di recupero dei corpi.
Si è sospettata la presenza di veleno a causa di flaconi trovati a Rugazi. Ma
non è stato eseguito nessun esame tossicologico.
Vokes
propone uno scenario alternativo. Ritiene che diverse centinaia di seguaci
siano stati radunati a Kanungu per «partire» o essere portati dalla Madonna in
Cielo. È possibile che alcuni sapessero che la modalità di «andare in Cielo»
sarebbe consistita in un suicidio collettivo e altri no: ma tutti pensavano che
fosse imminente la fine del mondo. A Kanungu sarebbe stato loro somministrato
del veleno e i membri rimasti in vita avrebbero appiccato il fuoco alla
residenza. L’esame delle fotografie documenta come sia assente il tentativo
disperato di fuga tipico degli incendi. Sembra al contrario che chi era dentro
la residenza o al momento dell’incendio fosse già morto – avvelenato
– o, se era vivo, «abbia fatto uno sforzo consapevole per non sopravvivere all’inferno di fuoco»
(p. 209) uscendo dall’immobile. Il fatto che le finestre, secondo testimonianze
peraltro non confermate, apparissero inchiodate dall’esterno non sarebbe
decisivo. È un peccato che Vokes citi solo, rapidamente, il suicidio collettivo
di Jonestown in Guyana, del 1978. Un esame comparativo esteso ad altri casi gli
avrebbe confermato che lo schema della convocazione per la «partenza», con
membri sia consapevoli sia non consapevoli che partire implica morire, si è
ripetuto altre volte in questo genere di tragedie.
Quid, però, dei corpi gettati nei pozzi nelle altre sedi del
movimento? Qui Vokes accusa la polizia e i giornalisti di non avere svolto il
loro lavoro con la diligenza con cui lui stesso ha condotto la sua indagine
antropologica. Se avessero interrogato gli ex-membri del movimento che lo
avevano lasciato o si erano salvati – alcuni semplicemente non
rispondendo all’appello a venire a Kanungu il 16 marzo 2000 – si
sarebbero sentiti dire, com’è accaduto a Vokes, che nei pozzi erano stati
gettati i cadaveri di morti per malattia durante la devastante epidemia di
malaria del 1998. Questo contributo è originale di Vokes, e i dati confermano
che in particolare nella culla del movimento, l’Uganda del Sud-Ovest,
l’epidemia di malaria fu disastrosa e coinvolse il quaranta per cento della
popolazione. Le autopsie sommarie non permettono di dire a quando risalgono i
decessi delle vittime ritrovate nei pozzi, se a giorni o ad anni prima. È
invece verosimile secondo Vokes che i flaconi ritrovati a Rugazi contenessero
veleno. In questo caso, l’ipotesi è che i suoi effetti siano stati sperimentati
a Rugazi prima dell’uso su vasta scala a Kanungu.
Le
ipotesi di Vokes sono piuttosto convincenti, soprattutto quando afferma che non
ha molto senso la versione della stampa internazionale – fondata sul
parallelo con altri incidenti relativi a «sette» – secondo cui gli
omicidi sarebbero diventati necessari perché la mancata realizzazione della
profezia sulla fine del mondo nel 2000 avrebbe indotto i membri a chiedere
indietro ai dirigenti i loro contributi in denaro. Secondo l’antropologo, non
solo molti membri erano poveri ma l’idea che mogli, molte delle quali sterili,
che avevano abbandonato i loro mariti – le quali formavano la maggioranza
degli aderenti al movimento – potessero tranquillamente «tornare a casa»
non è coerente con gli usi ugandesi. Resta inoltre il fatto che nei giorni
precedenti al rogo i dirigenti del movimento regalarono molte loro proprietà ai
vicini e si recarono anche a pagare i propri debiti. Questo comportamento è più
conseguente con l’idea che si apprestassero a morire, anche se le angherie di Ceredonia
nei confronti dei suoi seguaci ne fanno un soggetto moralmente molto
discutibile – non così, secondo l’antropologo, don Kataribaabo,
completamente soggiogato dalla veggente –, e Vokes non si sente di
escludere completamente che possa essere sopravvissuta, anche se afferma che
neppure questo darebbe credibilità alla tesi della strage freddamente
organizzata a scopo di lucro.
Quello
del «suicidio collettivo», per così dire, «classico» rimane così lo scenario
più probabile, anche se che cosa è successo veramente a Kanungu è destinato a
rimanere ampiamente sconosciuto, a meno che effettivamente Ceredonia Mwerinde
non sia arrestata in qualche parte del mondo e racconti dettagli che solo lei
conosce – ma, tutto sommato, Vokes ritiene più probabile che sia morta
– o che s’investa molto denaro in una esumazione dei cadaveri e in un
loro esame con modalità tecnicamente avanzate, cosa allo stato molto
improbabile in Uganda. Nel frattempo – conclude Vokes – lo Stato
ugandese ha reagito alla tragedia limitando la libertà religiosa dei piccoli
gruppi, e la Chiesa Cattolica – lodevolmente – non reprimendo la
religiosità popolare, che troverebbe facile sfogo nelle AIC, ma cercando di
limitarne solo le forme più discutibili e d’incanalare le altre, favorendo in
particolare la presenza nelle zone rurali del Rinnovamento nello Spirito.
Sarebbe infatti sbagliato sostenere che tutte le AIC o tutti i gruppi che annunciano date precise per la fine del mondo
sono pericolosi al punto da finire in suicidi collettivi. Ma Kanungu è un
ricordo permanente che alcuni lo
sono.