CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 all’annuncio di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi, Benedetto XVI ha ripetutamente indicato la sua intenzione di fare del 2011 un anno internazionale della libertà religiosa. Un dettagliato inventario dei temi sul tappeto è stato offerto dall’annuale discorso al Corpo Diplomatico del 10 gennaio 2011.
Dal 5 gennaio 2011 ho assunto le funzioni di Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione e l’intolleranza contro i cristiani e i membri di altre religioni. In questa veste, sono molto grato al Papa per avere indicato anche alle organizzazioni internazionali – tra cui dunque l’OSCE, definita nel recente rapporto annuale dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa come l’organizzazione più importante al mondo dopo le Nazioni Unite nel campo dei diritti umani – un’agenda precisa. Nei limiti delle mie possibilità e capacità, sto cercando di fare mia questa agenda, che naturalmente non è rivolta ai soli cattolici e neppure ai soli cristiani ma – sulla base dei diritti universali della persona umana – si rivolge a tutte le persone di buona volontà.
Il Papa ha indicato nel suo discorso cinque rischi per la libertà religiosa. Il primo riguarda un possibile equivoco su che cosa la libertà religiosa esattamente sia. La libertà religiosa è stata spesso confusa con il relativismo, cioè con la tesi che non esista una verità religiosa e che la scelta di una religione o di un’altra sia più o meno indifferente. Mentre, come Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in veritate al n. 55, «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali».
Ma che cos’è la libertà religiosa? Conviene qui rileggere il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2011 di Benedetto XVI, che offre spunti molto importanti. Interpretando la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II, lo stesso Benedetto XVI ha spiegato più volte che dal punto di vista giuridico non si tratta di un diritto positivo – il quale dovrebbe comprendere anche un «diritto all’errore» che, come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2108, la Chiesa non ha mai riconosciuto – ma di un diritto negativo, che anche questo Messaggio chiama «immunità dalla coercizione». Questa immunità acquista certo un profilo specifico negli Stati moderni, per definizione incompetenti in materia di religione, ma corrisponde al principio antico secondo cui – come recita il Messaggio – «la professione di una religione non può essere […] imposta con la forza». Se si può parlare di «diritto», in senso giuridico, si tratta del diritto a non essere turbati da un’intromissione dello Stato moderno nella formazione delle proprie convinzioni in materia di religione.
Rispetto a interventi precedenti, vi è però nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 un secondo elemento, certamente non nuovo ma il cui collegamento inscindibile con il primo è ribadito con particolare forza. La libertà religiosa che la Chiesa proclama «va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Da un punto di vista filosofico, un’analisi di che cos’è la persona viene «prima» delle soluzioni giuridiche. La persona è ordinata alla verità ed è dotata di libertà per la verità. Il libero arbitrio consente certamente il cattivo uso della libertà, contro la verità e addirittura contro Dio. Ma in questo caso, spiega Benedetto XVI, la libertà erode il suo stesso fondamento. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani».
Un altro equivoco, indotto da una lettura secondo il Papa errata della nozione di libertà religiosa e della Dignitatis humanae, è quello che vorrebbe confinare la religione in una dimensione meramente privata, quasi che quando la Chiesa chiede leggi conformi alle verità naturali che fanno parte del suo insegnamento consueto – anzitutto nelle materie, specificamente richiamate nel Messaggio, della vita, della famiglia e della libertà dell’educazione (i famosi «valori non negoziabili» di Benedetto XVI) – stia negando la libertà religiosa dei non cattolici attraverso un’indebita ingerenza nella vita politica. Non solo i principi della morale naturale valgono per tutti, credenti e non credenti. Ma, sia pure «nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali», l’orientamento della libertà alla verità non può rinunciare a una dimensione politica.
«La dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto». «Non essendo questa [dimensione religiosa della persona] una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto». Tutto questo è riassunto in un’espressione molto forte sul ruolo della società per la salvezza delle anime, che ricorda analoghe e celebri espressioni del venerabile Pio XII: «Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».
Questa ricostruzione della vera nozione di libertà religiosa esclude dunque anzitutto «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso» – cose diverse, spiega il Papa, dal dialogo tra le religioni condotto nella chiarezza e nella verità – e consente di evitare i due errori opposti del fondamentalismo e del laicismo, anch’essi più volte richiamati nel Magistero di Benedetto XVI. «Non si può dimenticare – scrive ora il Papa – che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari» fra loro. Entrambe infatti negano il corretto rapporto fra fede e ragione. Nel fondamentalismo, la fede nega la ragione. Nel laicismo la ragione, o meglio il razionalismo, nega la fede. Entrambi sono nemici della libertà religiosa: il fondamentalismo vuole imporre la religione con la forza, il laicismo con la forza vuole imporre l’irreligione. Mentre solo l’equilibrio fra fede e ragione – senza confusione, ma anche senza separazione – garantisce la libertà religiosa che, ci assicura il Papa, «è all’origine della libertà morale» e dunque di ogni vera libertà.
Si tratta di una questione soltanto teorica? No di certo. In effetti, il timore che la libertà di religione porti con sé un relativismo e una sottovalutazione del ruolo delle religioni tipici dell’Occidente moderno è la prima ragione per cui Paesi con una forte identità religiosa islamica, indù o buddhista resistono all’applicazione delle convenzioni internazionali in materia di libertà religiosa. Essi temono che accettare la libertà religiosa significhi necessariamente cedere al relativismo e all’indifferentismo tipici di una certa cultura occidentale moderna. Vanno convinti che non è così, e che libertà religiosa e denuncia di quella che il Papa chiama dittatura del relativismo possono e devono coesistere, come illustra appunto il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011.
Il secondo rischio richiamato nel discorso del 10 gennaio 2011, cui ora torno come «indice» dei temi all’ordine del giorno in materia di libertà religiosa, è quello del tentativo dell’islam ultra-fondamentalista, che certo non va confuso con l’islam in genere, di porre fine all’esistenza bimillenaria di comunità cristiane nel Vicino Oriente, ricorrendo anche al terrorismo. In alcuni Paesi il tentativo di una pulizia etnica che elimini definitivamente i cristiani è ormai del tutto evidente. I governi, è vero, prendono le distanze dagli ultra-fondamentalisti. Ma il tempo delle parole non seguite dai fatti è scaduto. Occorrono, afferma, il Papa, «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».
Né si tratta solo di un problema di polizia, la cui azione in Paesi come l’Egitto è peraltro molto importante e deve compiere un salto di qualità, nonostante le recenti difficoltà, se vuole raggiungere risultati non fittizi. Si tratta anche delle leggi, che in molti Paesi a maggioranza islamica riducono la libertà religiosa alla sola libertà di culto. I cristiani – non ovunque – possono liberamente celebrare i loro riti chiusi in chiesa, ma dalle chiese e dalle sacrestie non possono uscire per annunciare il Vangelo. Se poi qualcuno si converte dall’islam al cristianesimo, è punito dalle leggi contro l’apostasia e – dove queste leggi sono state abrogate su pressione occidentale – da norme contro la blasfemia, che spesso sono solo leggi contro le conversioni mascherate. Il Papa ricorda «che la libertà religiosa non è pienamente applicata là dove è garantita solamente la libertà di culto, per di più con delle limitazioni». In modo molto esplicito, afferma pure che «tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le Autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose».
Il terzo rischio – spesso poco conosciuto o sottovalutato – è costituito dalle aggressioni nei confronti dei cristiani da parte di «fondamentalisti» indù o buddhisti, che identificano l’identità nazionale dei loro Paesi con un’identità religiosa, difesa in modi talora violenti contro il cristianesimo. Sono quelle che il Papa chiama «situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, [che] possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi».
Il quarto rischio è costituito dal fatto che, anche se molti vorrebbero dimenticarlo, ci sono ancora regimi comunisti nel senso più stretto e duro del termini. «In diversi Paesi – afferma il Papa con evidenti allusioni a questi regimi – la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria (cfr Conc. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, 15), perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società». Il pensiero del Papa, così, «si volge di nuovo verso la comunità cattolica della Cina continentale e i suoi Pastori, che vivono un momento di difficoltà e di prova». Né si tratta dell’unico caso, se solo pensiamo per esempio al dramma ampiamente dimenticato dei cristiani nella Corea del Nord, un Paese che vince ogni anno la «medaglia d'oro» della organizzazione protestante Porte Aperte come il luogo dove in assoluto è più pericoloso essere un cristiani.
Il quinto rischio è rappresentato da quella che il Papa nel discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010, facendo sua un’espressione coniata dall’illustre giurista ebreo statunitense di origine sudafricana Joseph Weiler, aveva chiamato la «cristianofobia» dell’Occidente. «Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente», ha detto il Papa, «ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale».
Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto», particolarmente in tema di «aborto».
«Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo – ha aggiunto il Papa – consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. Agendo così, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni». Anche qui il Papa non si è limitato ai principi generali, ma ha fatto un preciso riferimento alla sentenza Lautsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vorrebbe vietare l’esposizione del crocefisso nelle scuole italiane, lodando chi si batte perché siano rimossi gli infausti e ingiusti effetti di quella sentenza. «L’anno scorso – ha detto Benedetto XVI – alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del Governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Desidero esprimere la mia gratitudine alle Autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso».
La «cristianofobia» si manifesta anche nelle minacce alla libertà di educazione e nell’avversione amministrativa alle scuole cristiane. Né si può, ha detto il Papa, «passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».
Il fatto che l’OSCE abbia istituito l’ufficio di un Rappresentante per la lotta alla discriminazione contro i cristiani rappresenta un successo della diplomazia della Santa Sede e di quei governi che l’hanno intelligentemente affiancata. Le difficoltà e le opposizioni, naturalmente, non mancano, e in tempi di crisi economica le risorse delle organizzazioni internazionali sono severamente limitate.
Sul versante dell’azione concreta per la libertà dei cristiani, l’azione del mio ufficio all’OSCE si svolge attraverso un’azione diplomatica presso gli Stati partecipanti e country visits, talora condotte insieme agli altri due Rappresentanti, rispettivamente per la lotta all’antisemitismo e all’islamofobia. Quest’azione è peraltro istituzionalmente limitata agli Stati partecipanti all’OSCE.
Sul piano della consapevolezza delle discriminazioni contro i cristiani possiamo fare di più. Stiamo organizzando una roundtable dell’OSCE a Roma per il 4 maggio sul tema «Intolleranza e Discriminazione contro i Cristiani». Ho proposto anche agli Stati che vorranno aderirvi la celebrazione di una Giornata dei Martiri Cristiani del nostro tempo, da celebrarsi non – o non solo – nelle chiese, dove ci sono già iniziative analoghe, ma nelle scuole, nelle città, nelle istituzioni pubbliche perché la persecuzione dei cristiani non riguarda solo i cristiani, ma tutti. Ho proposto la data del 7 maggio ricordando il grande evento ecumenico che il venerabile Giovanni Paolo II organizzò al Colosseo il 7 maggio 2000, con otto «stazioni» che ricordavano i principali gruppi di martiri cristiani del nostro tempo: le vittime del totalitarismo sovietico, del comunismo in altri Paesi, del nazismo, dei conflitti tra religioni, dei nazionalismi religiosi violenti in Asia, dell’odio tribale e anti-missionario, del laicismo aggressivo e della criminalità organizzata. Questa giornata potrebbe essere occasione ogni anno per un esame di coscienza collettivo e per un accostamento esigente dell’Europa al problema della tutela delle minoranze cristiane in diversi Paesi. Vale sempre la pena di rileggere l’appello che Giovanni Paolo II lanciò al Colosseo il 7 maggio 2000 al nuovo secolo XXI che allora iniziava: «Resti viva, nel secolo e nel millennio appena avviati, la memoria di questi nostri fratelli e sorelle. Anzi, cresca! Sia trasmessa di generazione in generazione, perché da essa germini un profondo rinnovamento». L’istituzione di una Giornata dei Martiri Cristiani del nostro tempo sarebbe una bella risposta a questo appello oggi più che mai attuale.