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“Recenti” mutazioni antropologiche

di Massimo Introvigne
Sintesi della relazione al convegno teologico internazionale Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote organizzato dalla Congregazione per il Clero presso la Pontificia Università Lateranense – Roma, 11 marzo 2010

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L’analisi di alcuni mutazioni antropologiche che sembrano di particolare rilievo per il sacerdozio cattolico è condotta in questo contributo secondo i principi della teoria sociologica detta dell’economia religiosa. Il punto di partenza della teoria è l’idea che alla sociologia delle religioni sia possibile applicare con frutto modelli, usati beninteso come semplici metafore, che derivano dagli studi sull’economia. Il “campo religioso” è studiato anche come una forma di “mercato” in cui organizzazioni in concorrenza fra loro si contendono la fedeltà di “consumatori religiosi”.

Le teorie dell’economia religiosa si sono occupate anche del sacerdozio e della vita consacrata cattolica. Corre quest’anno il decennale di uno studio famoso pubblicato nel 2000 da due dei padri dell’economia religiosa, Rodney Stark e Roger Finke: “La vocazione religiosa cattolica: declino e risveglio”. I due sociologi vi prendono in esame la caduta libera delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile cattolica in sei Paesi – Stati Uniti d’America, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda – nei trent’anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II. Dal punto di vista quantitativo, la caduta è stata spettacolare soprattutto fra i candidati al sacerdozio – da -81% in Olanda a -54% in Gran Bretagna –, quindi fra le vocazioni religiose maschili, da -82% in Gran Bretagna a -68% in Francia, nonché, in misura minore, fra quelle femminili: da -51% in Olanda a -43% in Gran Bretagna.

Tra l’altro, la caduta davvero impressionante negli Stati Uniti delle vocazioni maschili inizia alla fine degli anni 1960 e ha i suoi tassi più significativi in un’epoca precedente agli episodi di pedofilia attribuiti a sacerdoti, i quali dunque – per quanto possano avere contribuito alla crisi vocazionale – non ne sono la causa principale.
Per Stark e Finke la caduta del numero delle vocazioni è repentina e discontinua, e avviene principalmente nel quadriennio 1966-1969, con successiva stabilizzazione verso il basso fino almeno alla fine del XX secolo. Finke e Stark ne concludono che si deve cercare come causa principale del declino delle vocazioni una serie di avvenimenti, che si è verificata nella seconda metà degli anni 1960 in modo improvviso. Secondo i due sociologi americani, può trattarsi solo dell’insieme di fattori che derivano dalla crisi successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II, come è noto particolarmente grave negli Stati Uniti. Applicando il modello dell’economia religiosa, Stark e Finke affermano che, con questi avvenimenti, i costi della scelta sacerdotale e religiosa cattolica sono diminuiti in modo marginale – forse la disciplina si è rilassata, ma la struttura fondamentale improntata a rinuncia al matrimonio, povertà e obbedienza è rimasta ben presente – mentre i benefici sono diminuiti in modo repentino e drammatico. La crisi postconciliare ha reso meno viva sia la communitas all’interno dei presbiteri e dei conventi, sia la stima unica di cui le figure sacerdotali e religiose godevano all’interno del mondo cattolico.

È possibile una controprova empirica. Se si paragona la situazione dei sei Paesi studiati da Stark e Finke con quella del Portogallo, della Spagna e dell’Italia ci si accorge che dopo il 1965 in questi Paesi il numero di vocazioni, se diminuisce, non lo fa con lo stesso ritmo drammatico. Qui le figure sacerdotali e religiose continuano a godere di autorevolezza e stima confermata da numerose indagini statistiche e anche dalla cultura popolare. Pensiamo a come nei film e negli sceneggiati televisivi in Italia i sacerdoti e le suore siano rappresentati in modo in genere più favorevole rispetto ai prodotti di Hollywood. Ma è anche vero che in Italia o nella penisola iberica la crisi e il dissenso postconciliari, pure non assenti, non hanno raggiunto il grado di virulenza degli Stati Uniti.

Non si deve naturalmente esagerare la tenuta dei dati quantitativi relativi al clero e alle comunità cattoliche in Paesi come l’Italia. Tra l’altro i dati sulla partecipazione alla Messa devono tenere conto del cosiddetto over-reporting, cioè della discrepanza fra quanti affermano di andare a Messa tutte le domeniche nelle survey condotte per telefono o via questionari e quanti di fatto sono contati alle porte delle chiese in un week-end tipo. Sono in grado di anticipare i risultati di una ricerca, non ancora pubblicata, da me diretta nel 2009 nella diocesi siciliana di Piazza Armerina, che comprende oltre al capoluogo alcuni grossi centri come Enna e Gela. Nell’area della ricerca dichiara di andare a Messa almeno una volta la settimana il 30,1% della popolazione mentre la rilevazione alle porte delle chiese ha attestato una frequenza del 18,3%. Senza far dire al dato statistico più di quello che effettivamente dice, i numeri meritano qualche riflessione.

Un’altra controprova delle tesi di Stark e Finke, sulla cui pista metteva già la loro ricerca del 2000, consiste nel fatto che dove è promossa negli ultimi anni una vita religiosa e sacerdotale più immune dalla contestazione, più vivace e calorosa e più fedele alle indicazioni del Magistero della Chiesa, lì le vocazioni risalgono. In base a certi parametri, già Stark e Finke costruivano due elenchi, uno delle diocesi statunitensi considerate – almeno dalla stampa – più “ortodosse” e l’altro di quelle più toccate dal dissenso e dalla contestazione del Magistero. Il numero di ordinazioni e di seminaristi in percentuale sul numero dei cattolici diocesani risultava tre volte superiore nelle diocesi “ortodosse” rispetto a quelle dove più forte era il dissenso.

Tutta la discussione va inquadrata in un contesto sociologico più generale, applicando alle organizzazioni religiose la teoria del free rider: il soggetto “che non paga il biglietto”, che partecipa a un’organizzazione sociale cercando di ottenerne i benefici senza pagare i costi. Anche tra chi frequenta i sacerdoti e va a Messa molti vogliono solo “assistere”, non “partecipare” o contribuire. Le organizzazioni, le congregazioni e le parrocchie più rigorose e “ortodosse” chiedono di più, e quindi diminuiscono il numero di free rider. Si potrebbe ritenere che “chiedendo di più” sia i fedeli sia le vocazioni diminuiscano. In realtà spesso avviene il contrario. I “consumatori religiosi” sono disposti a pagare di più – entro certi limiti – se pensano di ottenere di più.

Naturalmente perché una congregazione cattolica non sia composta in maggioranza di free rider, abbia un buon rapporto con i suoi sacerdoti e generi anche vocazioni non basta una sociologia dell’efficienza. Occorre che ciascuno si senta partecipe e non solo spettatore, e prima di dare il suo contributo si senta “preso in cura” personalmente dal sacerdote. Se si vuole ridurre il numero di free rider occorre assicurarsi che il contatto personale e autorevole fra sacerdote – particolarmente, parroco – e fedeli sia sempre garantito. E ci si può chiedere se sia proprio così quando si passa dalle parrocchie alle unità pastorali, con la conseguenza di “allungare” le relazioni mentre sono proprio quelle che la sociologia chiama “relazioni corte”, più personali e dirette, a garantire contro la proliferazione dei free rider.

Naturalmente, la sociologia di per sé non risolve nessun problema pastorale e può dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà metodologica. Ultimamente, vale anche per i sociologi il richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009, dedicata all’Anno Sacerdotale: “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”.