CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Il tempo breve. Nell’era della frenesia: la fine della memoria e la morte dell’attenzione (Garzanti, Milano 2010) del giornalista economico milanese, da anni residente a Londra, Marco Niada è un libro che merita una riflessione. Non è un testo di sociologia – anche se deve molto a Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero (trad. it., il Mulino, Bologna 2009) del sociologo polacco Zygmunt Bauman – e lo stile giornalistico comporta talora qualche imprecisione storica. Il problema su cui attira l’attenzione è tuttavia cruciale per la sociologia, per la cultura in genere e anche per la Chiesa. Attiene a quella che il filosofo cattolico belga Marcel de Corte (1905-1994) chiamava accelerazione della storia.
Mentre storici e sociologi dibattono sulla portata della grande rivoluzione culturale degli anni Sessanta e del 1968 – con il rapido mutamento dei costumi sessuali indotto dalla pillola e dalle leggi sull’aborto, la contestazione, la crisi nelle Chiese e comunità cristiane –, cui ha fatto cenno anche Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici dell’Irlanda indagando sulle cause profonde della tragica diffusione della pedofilia, ecco che gli anni 2000 e 2010 rischiano già di passare alla storia come quelli di una nuova rivoluzione.
Niada ricorda anzitutto la sua storia personale. Dopo ventisei anni di giornalismo economico al Sole 24 Ore, di cui sedici come corrispondente a Londra, e una riflessione sulla crisi economica del 2008 – una delle maggiori nella storia dell’economia –, nel febbraio del 2009 decide di “staccare la spina” e di prendersi un periodo di riflessione in un monastero benedettino inglese. Benché Niada dichiari di non avere il “fortissimo senso religioso” (p. 151) dei monaci, i figli di San Benedetto (480-547) lo hanno insieme affascinato e aiutato a riflettere sul deterioramento della risorsa fondamentale che permette agli uomini di vivere, di operare e anche di produrre beni e servizi: il tempo. Mentre è possibile gestire la crisi di altre materie prime – il petrolio, il gas, perfino lo stesso denaro – la crisi del tempo è sostanzialmente ingestibile e comporta una vera rivoluzione antropologica.
Niada parte dalla crisi economica del 2008, di cui identifica le radici in un rapporto distorto con il futuro. Attraverso prodotti finanziari che pretendono di vendere ai risparmiatori di tutto il mondo il debito di persone cui è stato concesso con grande facilità e senza garanzie un mutuo per l’acquisto di un’abitazione, promettendo interessi mirabolanti, presunti geni della finanza ritengono di avere trovato la formula magica per possedere il tempo, vendendo il futuro per arricchirsi nel presente. Ma il tempo si vendica, e l’intera costruzione frana addosso agli apprendisti stregoni della finanza. Se questa analisi della crisi non è completamente nuova, Niada va oltre e si chiede che tipo di persone può avere concepito piani così evidentemente fallaci.
Il giornalista milanese ne trae occasione per un’indagine storica sul tempo, ancora scandito secondo la divisione sessagesimale – l’ora di sessanta minuti, il minuto di sessanta secondi – inventata dai Sumeri, che neppure la Rivoluzione francese – un cui comitato per convincere il mondo a dividere le ore e i minuti in cento parti anziché in sessanta ha continuato a operare fino al 1905 prima di gettare la spugna – è riuscita a mettere in discussione. Il tempo rimane però qualche cosa di abbastanza vago e impreciso, fino a quando la Chiesa introduce insieme una profonda riflessione filosofica sulla sua natura, collegata anche alla scansione temporale delle ore della Passione di Cristo, e i progressi tecnici dei monaci, inizialmente intesi a fissare con precisione le ore della preghiera secondo la regola benedettina. In questo ambiente matura anche l’invenzione dell’orologio, già celebrato da Dante Alighieri (1265-1321), nell’Italia della fine del XIII secolo. Il tempo dei mercanti, inteso a scandire il lavoro e il commercio seguendo gli orologi delle torri comunali, entra in qualche modo in concorrenza con il tempo della Chiesa. Ma tra i due tipi di tempo non si manifesta mai una radicale incompatibilità.
O, almeno, non si manifesta fino agli anni 2000. La nuova rivoluzione non è tanto, secondo Niada, quella di Internet, ma quella dei telefoni cellulari di nuova generazione, i cosiddetti smartphone, che diventano sempre di più computer portatili in costante collegamento con il Web e la posta elettronica. Non senza umorismo, Niada descrive i manager che fissano costantemente il loro Blackberry, qualche volta – è successo davvero – facendosi travolgere dalle auto mentre attraversano la strada senza smettere di rispondere alle mail, e i politici che durante le conversazioni osservano i loro interlocutori con un occhio solo perché l’altro è rivolto al “telefono intelligente”. La vita è radicalmente cambiata non con l’avvento del Web ma con quello prima del Blackberry – un attrezzo per manager e professionisti – e poi dell’iPhone, che è per tutti e specialmente per i giovani. La divisione del tempo fra lavoro, famiglia, studio, vacanza è finita. Tutti si aspettano che un giornalista o un imprenditore sia collegato alla posta elettronica e alle notizie diciotto ore al giorno – ma qualcuno è disposto ormai a farsi interrompere anche le ore di sonno – , e sarebbe inconcepibile che una persona che voglia farsi considerare affidabile non risponda a un messaggio entro qualche minuto o al massimo qualche ora, o che un giovane non sia più o meno sempre reperibile su Facebook o sullo smartphone. L’uomo – e il giovane – del 2010 che porta con sé il Blackberry o l’iPhone come una protesi è diverso in un modo fondamentale dall’uomo di dieci o vent’anni prima. E Niada scrive senza tenere conto dell’avvento dell’iPad, che complica ulteriormente il quadro.
Il giornalista italiano non è un nemico della tecnologia. Ammette che gli smartphone, i social network, le reti sempre più veloci hanno risolto molti problemi e perfino salvato delle vite. Impegnato in un progetto di costruzione di scuole nelle aree più remote e difficili dell’Afghanistan, Niada spiega che i risultati sono cominciati ad arrivare solo quando gli Stati Uniti hanno garantito la copertura dei cellulari e di Internet in gran parte dell’Afghanistan, così permettendo ai testi e alle lezioni di arrivare immediatamente online o via telefono nei villaggi, senza dovere passare per lunghi viaggi a piedi e attraversare valichi infestati dai talebani.
Nessun attacco indiscriminato alle nuove tecnologie, dunque, ma un richiamo a problemi reali. Il primo è stato studiato da psicologi e psichiatri già da molti anni: il rischio di una dipendenza da Internet e dai cellulari che ricorda la dipendenza dalla droga e che isola chi ne è vittima, bambini compresi, dal mondo reale. Il secondo problema è al centro dello studio sociologico di Internet da molti anni: si tratta del cosiddetto “information overload” (sovraccarico d’informazioni). Grazie a, o per colpa di, Internet riceviamo più informazioni di quante siamo capaci di assorbire, vagliare e organizzare e alla fine entriamo in crisi. Niada aggiunge, citando dati di diversi studi, due ulteriori elementi: la crisi della memoria – chi vive di Google ha sempre meno memoria, perché è abituato a cercare le informazioni sul Web e non tra i propri ricordi –, e la “morte dell’attenzione”. Il nostro tempo di attenzione si assottiglia sempre di più, e senza attenzione – come insegnavano appunto i monaci del Medioevo – non può nascere la riflessione e neppure la preghiera.
Le riflessioni laiche – ma non troppo, se si considera l’attenzione riservata alla Chiesa e ai monaci – di Niada ricordano quanto scriveva profeticamente nel 2002 il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) nel suo Messaggio per la XXXVI Giornata delle comunicazioni sociali: «La caratteristica essenziale di Internet consiste nel fornire un flusso quasi infinito di informazioni, molte delle quali durano solo un attimo (…). Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l'attenzione ciò che è tangibile, utile, subito disponibile. Può venire a mancare lo stimolo a un pensiero e a una riflessione più profondi, mentre gli esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquisire gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda ».
Anche Giovanni Paolo II, come Niada, non esortava a fuggire da Internet. Chiedeva piuttosto di evangelizzarlo: «Internet permette a miliardi di immagini di apparire su milioni di schermi in tutto il mondo. Da questa galassia di immagini e suoni, emergerà il volto di Cristo? Si udirà la sua voce? Perché solo quando si vedrà il Suo Volto e si udirà la Sua voce, il mondo conoscerà la “buona notizia” della nostra redenzione. Questo è il fine dell'evangelizzazione e questo farà di Internet uno spazio umano autentico, perché se non c'è spazio per Cristo, non c'è spazio per l'uomo».