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A che serve la storia? Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di Roberto de Mattei

di Massimo Introvigne

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Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta dello storico Roberto de Mattei (Lindau, Torino 2010) si presenta, già dal titolo e dalla mole (632 pagine), come un libro molto ambizioso, d’interesse anche per i sociologi della religione oltre che per gli storici e per chi s’interessa in genere alle vicende della Chiesa Cattolica. Si tratta però di vedere se mantiene quello che promette. Dopo una Introduzione che, nella sostanza, anticipa le conclusioni, il primo capitolo (pp. 31-106) presenta un ampio quadro della Chiesa nell’età del venerabile Pio XII (1939-1958).
La tesi è che le cose andassero male già all’epoca del venerabile Pio XII, e che un «neomodernismo» continuasse a esistere – anche perché l’associazione segreta dei modernisti denunciata da san Pio X non si era mai sciolta – attraverso il movimento biblico, il movimento liturgico, la nouvelle théologie e il movimento ecumenico. L’idea – sostenuta anche, nel libro, attraverso le testimonianze di chi denunciò il neomodernismo già sotto il pontificato del venerabile Pio XII, tra cui il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) – non è nuova. Del resto, i problemi emersi al Concilio Ecumenico Vaticano II dovevano esistere già da prima, ed è impensabile che siano tutti nati nel breve lasso di tempo intercorso fra la morte di Papa Pacelli (1958) e l’inizio dell’assise romana (1962). Nel libro di de Mattei c’è però qualcosa di nuovo. Si tratta dell’affermazione secondo cui qualcosa che non andava c’era non solo fra gli oppositori del venerabile Pio XII, ma nello stesso Magistero e negli atti di governo di Papa Pacelli. Due aspetti attirano particolarmente l’attenzione dell’autore: l’influenza del movimento biblico sull’enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, e quella del movimento liturgico sulla nuova traduzione dei Salmi e sulla riforma della liturgia della Settimana Santa, permeate «da un misto di razionalismo e archeologismo dai contorni a volte fantasiosi» (p. 62). Fu del resto lo stesso venerabile Pio XII a nominare segretario della sua Commissione per la riforma liturgica il sacerdote lazzarista Annibale Bugnini (1912-1982), in seguito principale artefice della riforma del servo di Dio Paolo VI.
La Divino afflante Spiritu è presentata da de Mattei, che la contrappone sfavorevolmente all’enciclica Providentissimus Deus (1893) di Leone XIII (1878-1903), di cui pure quel testo celebrava il cinquantenario, come «l’abbandono dell’esegesi patristica, teologica e spirituale, in nome di una esegesi storico-letteraria puramente scientifica e razionale» (p. 52). «Non a torto, i progressisti videro un successo nel documento di Pio XII» (p. 53), il quale fu presentato come «approvazione del metodo storico-critico» (ibid.), che per de Mattei è una componente centrale del modernismo e del neomodernismo. La questione è di non piccolo rilievo per tutto il libro, che si occupa spesso di esegesi biblica e della Costituzione dogmatica Dei Verbum (1965) del Concilio Ecumenico Vaticano II, che lo stesso Benedetto XVI ricollega all’enciclica Divino afflante Spiritu come al suo antecedente più immediato.
Nell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, del 2010, il regnante Pontefice rifiuta ogni contrapposizione fra la Providentissimus Deus e la Divino afflante Spiritu. Al contrario, afferma che se da una parte la Providentissimus Deus «ebbe il merito di proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi del razionalismo, senza però rifugiarsi in un senso spirituale staccato dalla storia» (Verbum Domini, n. 33), nella Divino afflante Spiritu il venerabile Pio XII «si trovava di fronte agli attacchi dei sostenitori di un’esegesi cosiddetta mistica che rifiutava qualsiasi approccio scientifico» (ibid.). Papa Pacelli, «con grande sensibilità, ha evitato d’ingenerare l’idea di una dicotomia fra l’“esegesi scientifica” per l’uso apologetico e l’“interpretazione spirituale riservata all’uso interno”» (ibid.). Secondo Benedetto XVI, «entrambi i documenti rifiutano “la rottura tra l’umano e il divino […]”» (ibid.), dunque – ultimamente – fra fede e ragione.
Quanto al metodo storico-critico e in particolare alla teoria dei generi letterari, celebrando nel 2008 il cinquantenario della morte del venerabile Pio XII, Benedetto XVI ricordava fra i suoi insegnamenti più importanti e attuali proprio la Divino afflante Spiritu. «L’approfondimento dei “generi letterari”, che intendeva comprendere meglio quanto l’autore sacro aveva voluto dire – spiegava Benedetto XVI –, fino al 1943 era stato visto con qualche sospetto, anche per gli abusi che si erano verificati. L’Enciclica ne riconosceva la giusta applicazione, dichiarandone legittimo l’uso per lo studio non solo dell’Antico Testamento, ma anche del Nuovo» (Cappella Papale – Santa Messa in occasione del 50° della morte del Servo di Dio Papa Pio XII – Omelia, del 9-10-2008). Nella Verbum Domini Benedetto XVI afferma che «è necessario riconoscere il beneficio derivato nella vita della Chiesa dall’esegesi storico-critica e dagli altri metodi di analisi del testo sviluppati nei tempi recenti» (Verbum Domini, n. 32), e che oggi per l’esegeta «l’attenzione a questi metodi è imprescindibile» (ibid.). Peraltro, l’esortazione apostolica invita a coniugare ragione e fede cercando della sacra Scrittura sia il senso letterale, sia quello spirituale, evitando ogni riduzionismo di tipo sia razionalista sia pseudo-mistico. Questa posizione equilibrata è appunto, secondo il regnante Pontefice, quella della Divino afflante Spiritu (cfr. ibid., n. 33).
Più in generale, desta qualche perplessità nell’opera di de Mattei la liquidazione come sempre e solo neomodernisti dei movimenti biblico, teologico, liturgico ed ecumenico dell’epoca del venerabile Pio XII. Il lettore ha l’impressione di trovarsi di fronte a modernisti che hanno inventato maliziosamente problemi che non c’erano per sovvertire la Chiesa. Ma secondo Benedetto XVI non è così. Tra gli esponenti del movimento liturgico de Mattei cita, giustamente, don Romano Guardini (1885-1968). Della sua attività nel campo della liturgia afferma il regnante Pontefice – confermando che qualche problema al suo tempo esisteva – che Guardini cercava un «nuovo accesso alla liturgia. La riscoperta della liturgia era per lui una riscoperta dell’unità fra spirito e corpo nella totalità dell’unico essere umano, poiché l’atto liturgico è sempre allo stesso tempo un atto corporale e spirituale. Il pregare viene dilatato attraverso l’agire corporale e comunitario, e così si rivela l’unità di tutta la realtà. La liturgia è un agire simbolico. Il simbolo come quintessenza dell’unità tra lo spirituale e il materiale va perso dove ambedue si separano, dove il mondo viene spaccato in modo dualistico in spirito e corpo, in soggetto e oggetto. Guardini era profondamente convinto che l’uomo è spirito in corpo e corpo in spirito e che, pertanto, la liturgia e il simbolo lo conducono all’essenza di se stesso, in definitiva lo portano, tramite l’adorazione, alla verità» (Discorso ai partecipanti al convegno promosso dalla Fondazione «Romano Guardini» di Berlino sul tema «Eredità spirituale e intellettuale di Romano Guardini», del 29-10-2010).
Naturalmente, i movimenti di cui de Mattei fa l’inventario presentavano, accanto alle luci, ampie ombre. Ma non inventavano problemi: questi c’erano veramente, «là fuori», e la Chiesa non poteva esimersi dal dare risposte. Questo vale per la teologia, la liturgia, la Bibbia e anche per l’ecumenismo. Benedetto XVI ha ricordato più volte che l’impegno ecumenico – certo da intendere in modo corretto, così che si eviti ogni relativismo e si rispettino le ragioni della verità – è una linea fondamentale del suo pontificato. Il libro descrive la conferenza ecumenica di Edimburgo del 1910 come l’inizio di una sorta di manovra contro la Chiesa di Roma e la verità (cfr. p. 71), mentre il Papa, celebrandone il centenario nel 2010 in Scozia, ha reso « grazie al Signore per la promessa che rappresenta l’intesa e la cooperazione ecumenica» (Omelia, Santa Messa nel Bellahouston Park a Glasgow, del 16-9-2010).
Questo problema si ripresenta in tutto il volume. L’idea di fondo è che tutto quanto nella Chiesa si apre alle istanze della modernità sia ipso facto modernista. Sulla scia di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (cfr. la Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni. Sugarco, Milano 2010, di cui anche de Mattei si serve nel testo) di Corrêa de Oliveira, l’autore condanna ogni spunto che sembri nuovo e diverso rispetto al Magistero dell’età del beato Pio IX (1846-1878) come cedimento alla sequenza rivoluzionaria che va dalla rottura protestante al 1968 passando per la Rivoluzione francese e il comunismo. Anche condividendo – e personalmente la condivido – la descrizione del processo rivoluzionario che de Mattei mutua da Corrêa de Oliveira, per valutare le scelte del Magistero del XX secolo non va mai dimenticato il momento esigenziale che sta alla base di ogni passaggio della Rivoluzione.
Nel discorso del 2006 a Ratisbona (Discorso ai rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg [Ratisbona], del 12-9-2006) e nell’enciclica Spe salvi del 2007 Benedetto XVI propone un giudizio sui momenti centrali della modernità: Martin Lutero (1483-1546), l’Illuminismo, le ideologie del XX secolo. In ciascuno di questi momenti distingue un aspetto esigenziale, dove c’è qualche cosa di condivisibile – la reazione al razionalismo rinascimentale per Lutero, la critica del fideismo e la rivalutazione della ragione nell’Illuminismo, il desiderio di affrontare i problemi e le ingiustizie causate dalle trascrizioni sociali e politiche dell’Illuminismo per le ideologie novecentesche – e un esito finale catastrofico dove, ogni volta, si butta via il bambino con l’acqua sporca e si propongono rimedi peggiori dei mali che si dichiara di voler curare.
Così Lutero insieme al razionalismo butta via la ragione, smantellando la sintesi di fede e di ragione che aveva dato vita alla cristianità medievale. L’Illuminismo per rivalutare la ragione la separa radicalmente dalla fede, diventa laicismo e finisce per compromettere l’integrità stessa di quella ragione che voleva salvare. Le ideologie del Novecento criticando l’idea astratta di libertà dell’Illuminismo finiscono per mettere in discussione l’essenza stessa della libertà, trasformandosi in macchine sanguinarie di tirannia e di oppressione. Nella modernità, dunque, a esigenze o istanze dove non tutto è sbagliato corrispondono esiti o risposte che partono da gravi errori e si risolvono in drammatici orrori.
Nel viaggio in Portogallo del 2010 il Papa torna su questi temi partendo proprio dal Concilio Ecumenico Vaticano II, «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita» (Incontro con il mondo della cultura nel Centro Cultural de Belém a Lisbona, del 12-5-2010). Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze» (ibid.), di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma superandole –, e gli «errori e vicoli senza uscita» (ibid.) in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole. Questo implica – come si vede, con un preciso giudizio sul Concilio – che ignorare le domande, fingendo che non ci fossero, sarebbe stato non meno pericoloso che offrire risposte sbagliate.
Il capitolo iniziale sull’età del venerabile Pio XII dà il tono, per così dire, a tutto il volume. Seguono oltre quattrocento pagine (pp. 107-525), suddivise in cinque capitoli consacrati alla convocazione e alle quattro sessioni del Concilio Ecumenico Vaticano II. L’ampia indagine non è ovviamente riassumibile: ma vale la pena di riflettere sul metodo. L’autore dichiara di voler fare opera di storico, non di teologo: «distinguere accuratamente tra la dimensione teologica che emerge dai testi e quella più propriamente “fattuale” che si riferisce alle vicende storiche» (p. 22). E tuttavia, aggiunge, «“distinzione” non significa naturalmente “separazione”» (ibid.): «la ricostruzione storica dell’iter conciliare è indispensabile per comprendere il senso e il significato di quei documenti della Chiesa» (ibid.).
Anzi, dal momento che il Concilio è stato in senso sociologico un evento globale – l’autore cita al riguardo, fra i sociologi che hanno offerto osservazioni in questo senso, Melissa Wilde e il sottoscritto (p. 16) – la separazione fra la storia e i documenti sarebbe arbitraria. Proprio qui starebbe il pericolo dell’«ermeneutica della continuità» –  nozione su cui dovremo tornare – la quale si «assume il rischio di rimuovere non solo un’errata concezione teologica, ma anche il fatto stesso di cui si discute. La conseguenza di questa opera di rimozione dell’evento è che oggi non esiste alcuna seria alternativa alla scuola bolognese» (pp. 22-23), cioè a quella scuola che ha interpretato il Concilio in termini di discontinuità e di rottura rispetto alla Tradizione cattolica e al Magistero precedente.
Il testo propone dunque una minuziosa ricostruzione delle discussioni in aula e della preparazione prima al Concilio e poi a tali discussioni in privati conciliaboli dove si riunivano non una, ma almeno tre diverse lobby progressiste, rispetto alle quali i conservatori riuniti nel Coetus Internationalis Patrum idem in re teologica ac pastorali sentientium si organizzarono troppo tardi per potere controbilanciare l’influenza dei primi. Questi, pure originariamente minoritari, finirono per dominare e orientare il Concilio. A proposito del Coetus, de Mattei ha il merito – contro ricostruzioni «clericali» della sua storia – di rilevare il ruolo decisivo di Corrêa de Oliveira che, fin dall’inizio del Concilio, «aveva installato a Roma un segretariato, comprensivo di quattordici persone» (p. 228) che fu decisivo per l’organizzazione dei padri conciliari conservatori (cfr. p. 333), non solo dal punto di vista logistico. Già prima del Concilio, il testo dell’importante votum per l’assise ecumenica trasmesso a Roma dal vescovo di Diamantina, in Brasile, mons. Geraldo de Proença Sigaud S.V.D. (1909-1999), « rivela chiaramente l’ispirazione, e forse la mano stessa, di Plinio Corrêa de Oliveira» (p. 138).
L’autore va pure seguito quando rileva che mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), se fu «il volto più visibile» (p. 333) del Coetus, non ne fu però il leader intellettuale e operativo, così come anche dopo il Concilio «venne presentato come il “capo” dei tradizionalisti» (p. 580) ma «in realtà egli fu solo l’espressione più visibile e alimentata dai mass-media di un fenomeno che andava ben al di là della sua persona […]. L’arcivescovo francese fu il più noto, ma non l’unico, rappresentante di un movimento di resistenza vasto e ramificato, che talvolta sfociò purtroppo nello scisma o nella perdita della fede» (p. 580).
Le lobby progressiste e le loro riunioni influenzarono o addirittura decisero, secondo de Mattei, anche i conclavi che elessero il beato Giovanni XXIII e il servo di Dio Paolo VI. Certo, l’autore ammette che quando si elegge un nuovo Papa «Cristo ha promesso alla Chiesa di assisterla nella scelta, in modo particolare, con lo Spirito Santo, che illumina e santifica con la sua Grazia. Come ogni grazia, quella dovuta all’intervento straordinario dello Spirito Santo presuppone però una piena disponibilità e corrispondenza umana. A questa corrispondenza si possono opporre gli affetti e gli interessi umani degli uomini di Chiesa riuniti in conclave» (p. 109). Formalmente corretta, l’affermazione rischia di ridurre a ben poca cosa la garanzia offerta rispetto al conclave dall’assistenza dello Spirito Santo, dal momento che – a meno di far riunire nella Cappella Sistina degli angeli – è difficile immaginare la totale scomparsa degli «affetti e interessi umani», e di politica e di lobby si è parlato più o meno per tutti i conclavi della storia. Se l’assistenza dello Spirito Santo ha un senso, si deve ritenere che questa non venga meno nonostante l’andamento «politico» di una riunione elettiva che, entro certi limiti, è normale.
Oltre a ricostruire l’azione delle lobby, de Mattei propone per ogni sessione e per ognuno dei documenti più importanti una dettagliata cronaca del dibattito nell’aula conciliare, talora serrato e organizzato dalla parte progressista con manovre ai limiti del lecito. La mole della documentazione è notevole, ma non si tratta – come afferma il titolo dell’opera – di «una storia mai scritta». L’essenziale si trova nel piccolo libro di padre Ralph Wiltgen S.V.D. (1921-2007) The Rhine Flows into the Tiber. The Unknown Council (Hawthorn Books, New York 1967) – di cui de Mattei sottolinea giustamente l’importanza – e nella monumentale Storia del Concilio Vaticano II (Peeters - il Mulino, Bologna 1995-2001), diretta da Giuseppe Alberigo (1926-2007) e che esprime il punto di vista della «scuola di Bologna». Le conclusioni di de Mattei, alla fine, non sono troppo diverse da quelle di Alberigo: ci fu uno scontro fra conservatori e progressisti, i conservatori persero e i progressisti vinsero. Benché non fossero maggioritari, vinsero perché riuscirono a dominare i dubbiosi e gli incerti e perché furono appoggiati dai Papi: non solo dal beato Giovanni XXIII ma anche dal servo di Dio Paolo VI il quale, secondo de Mattei, giocò, da abile politico qual era, la carta dell’obbedienza al Papa e di una presunta moderazione per ottenere la quasi unanimità dei consensi.
Un aspetto problematico è il rapporto che de Mattei stabilisce con la madre di tutte le fonti, cioè i monumentali Acta Synodalia del Concilio. L’autore s’interessa principalmente agli interventi in aula dei singoli padri, trascurando ampiamente invece le relazioni sui testi previ e sui testi emendati che accompagnano i documenti e che pure – applicando i normali criteri giuridici di gerarchia delle fonti – costituiscono «lavori preparatori» più illuminanti e importanti dei singoli discorsi dei padri conciliari. Un esempio illustra i problemi di questo metodo, e non è scelto a caso perché riguarda uno dei testi conciliari che de Mattei considera più difficilmente compatibili con il Magistero precedente, la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae (1965). Sia il libro sia la Congregazione per la Dottrina della Fede nella sua lunga e importante lettera a mons. Lefebvre Liberté religieuse. Réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, del 9 marzo 1987 (che de Mattei non cita) ricostruiscono l’iter conciliare della Dignitatis humanae. Mentre però de Mattei si fonda sugli interventi in aula, la Congregazione cita ampiamente la Relatio de texto praevio, la Relatio de texto emendato e le risposte ai modi della Commissione conciliare competente.
È interessante notare che, scavando con pale diverse nel ricchissimo giacimento degli Acta Synodalia, si arriva a risultati opposti. Mentre de Mattei da interventi di padri sia ultra-progressisti sia conservatori ricava la conclusione che la Dignitatis humanae proclama, in contrasto con tutto il Magistero precedente, un diritto all’errore, la Congregazione per la Dottrina della Fede insiste sulla risposta della Commissione ai secondi modi generali, dove si legge che nella dichiarazione «da nessuna parte si afferma né è lecito affermare (si tratta di cosa evidente) che c’è un diritto di diffondere l’errore. Se poi le persone diffondono l’errore, non è l’esercizio di un diritto, ma il suo abuso» (lettera Liberté religieuse del 9-3-1987, p. 9). Lo stesso vale per la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, dove l’analisi di de Mattei riprende i temi cui abbiamo fatto cenno a proposito dell’enciclica del venerabile Pio XII Divino afflante Spiritu. Una lettura della Dei Verbum che ne rivendica la piena continuità con il Magistero precedente è contenuta ora nella citata esortazione apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI, che la definisce «pietra miliare nel cammino ecclesiale» (Verbum Domini, n. 3), insistendo sui «grandi benefici apportati da questo documento» (ibid.).
Rispetto all’enorme lavoro di documentazione sulle discussioni nell’aula conciliare, il capitolo finale, sul pontificato del servo di Dio Paolo VI dopo il Concilio (pp. 527-590), appare più scarno. Si spinge – descrivendo quegli anni d’indubbia crisi – anche oltre la data della morte di Papa Montini, segnalando alcuni documenti interpretativi di testi conciliari, peraltro con qualche curiosa omissione. Così, a proposito dell’affermazione della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 8, secondo cui l’unica Chiesa di Cristo «sussiste nella [subsistit in] Chiesa Cattolica», de Mattei menziona la dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede Dominus Iesus, del 6 agosto 2000 (cfr. p. 445), ma omette ogni riferimento alla Risposta a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa, della stessa Congregazione, del 29 giugno 2007, che pure tratta approfonditamente la questione del subsistit. È possibile che de Mattei sia influenzato qui dalle critiche a tale Risposta contenute in un testo che loda ripetutamente (cfr. per es. p. 14), del teologo mons. Brunero Gherardini Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana, Frigento [Avellino] 2009), di cui condivide le tesi di fondo.
Non si tratta peraltro del rimando bibliografico più problematico nel volume di de Mattei, il quale cita in nota – senza riserve, o con modeste riserve – testi di autori sedeprivazionisti per cui l’attuale Papa e i suoi predecessori non sono «formalmente» Papi anche se lo sono «materialmente», come don Francesco Ricossa (cfr. p. 55, p. 81, e p. 109: solo nell’ultimo caso si avverte che l’autore è «non sempre condivisibile»), o oggettivamente vicini al sedevacantismo, ancorché rifiutino questa etichetta, come Atila Sinke Guimãraes (p. 14, dove quasi lo si raccomanda «per una critica serrata dell’ambiguità dei testi conciliari», e p. 575). Lo storico potrebbe rispondere che la storiografia accademica cerca le informazioni dove ci sono, a prescindere dalle posizioni soggettive degli autori. È certamente così, ma a Guimãraes – i cui testi citati sono di una virulenza davvero eccessiva – si rimanda per la sua critica dei testi conciliari, non per le informazioni storiche che offre, e in ogni caso le intenzioni di de Mattei non sono quelle di uno storico «neutrale», prescindendo dalla complessa questione se la neutralità storiografica sia possibile o desiderabile.
Le conclusioni dello studio sono offerte principalmente nell’Introduzione: qualcosa – ma l’osservazione non è decisiva – che i vecchi professori raccomandavano di non fare, per non dare – magari a torto – l’impressione che tutta la ricerca sia stata compiuta sulla base di una tesi preconcetta. Tutta l’opera di de Mattei mira a provare una tesi fondamentale, di natura non solo storica ma anche sociologica: che l’evento conciliare, proprio in quanto evento globale, è un tutto che comprende – senza che sia possibile separarli – le discussioni in aula, l’azione delle lobby, la presentazione ai media durante e dopo il Concilio, le conseguenze e i documenti. Se è così, separare i documenti dall’evento e dalle conseguenze del Concilio – cioè da quel postconcilio dove ha prevalso l’ermeneutica della discontinuità e della rottura – è insieme illegittimo e impossibile. I documenti fanno parte dell’evento e fuori dell’evento perdono il loro significato.
Questo, come accennato, per l’autore è il limite del programma di un’ermeneutica della continuità attribuito a Benedetto XVI. Per chi sostiene questa ermeneutica, scrive de Mattei, «la rimozione storica dell’“evento” conciliare è necessaria per separare il Concilio dal post-Concilio e isolare quest’ultimo come una patologia sviluppatasi su di un corpo sano» (p. 23). Ma questa operazione non è legittima se «il Concilio Vaticano II fu, infatti, un evento che non si concluse con la sua solenne sessione finale, ma si saldò con la sua applicazione e ricezione storica. Qualcosa accadde dopo il Concilio come conseguenza coerente di esso. In questo senso non si può dar torto ad Alberigo» (ibid.). Tutto il libro combatte quella che l’autore chiama «un’artificiale dicotomia tra i testi e l’evento» (ibid.) e cerca di «mostrare l’impossibilità di separare la dottrina dai fatti che la generano» (ibid.). In questa pagina, peraltro, sorprende il riferimento in nota a Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, dove Corrêa de Oliveira sostiene al contrario che non sono i fatti a generare le idee ma la «trasformazione delle idee si estende, a sua volta, al terreno dei fatti» (op. cit., p. 60).
In realtà, i documenti possono sempre essere separati dalle discussioni che li hanno preceduti. Nessun giurista penserebbe di opporre a una legge gli interventi nell’aula del Parlamento che l’ha votata di chi si è espresso a favore o contro il suo testo. I lavori preparatori possono essere un punto di riferimento interpretativo, ma non prevalgono mai sul testo della legge. La sociologia non è l’unica scienza di cui servirsi per leggere il Concilio, e comunque non afferma affatto che sia impossibile la distinzione logica fra un testo e il suo contesto. Se il testo fosse assorbito e fagocitato dal contesto, il che applicando il metodo del libro potrebbe essere affermato di qualunque documento, perderebbe il suo specifico significato e ci troveremmo in una sorta di strutturalismo dove ogni affermazione è smontata e decostruita in un gioco di riferimenti perpetuo dove nulla ha più autorità. La storia serve a spiegare i documenti. Non serve più se li fa a pezzi.
Se posso permettermi, senza malizia, un argomento ad hominem, de Mattei – che dà molto rilievo alla questione dell’esegesi biblica – attacca come modernista l’intero metodo storico-critico, affermando ripetutamente che ultimamente non è decisivo sapere come e da chi è stato redatto il testo sacro, ma interessa il nucleo teologico e spirituale del suo insegnamento. Neanche il più «ultramontano» – un’espressione che de Mattei utilizza peraltro in senso positivo (cfr. per es. p. 229) – sostenitore del Magistero pontificio penserebbe di mettere sullo stesso piano gli insegnamenti dei Pontefici o di un Concilio e la sacra Scrittura. Tuttavia l’espressione, proprio della costituzione conciliare Dei Verbum (n. 10), secondo cui «la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre», permette forse una prudente analogia. Afferma Benedetto XVI nell’esortazione apostolica Verbum Domini che «approcci al testo sacro che prescindano dalla fede» (Verbum Domini,n. 30), per quanto approfondiscano gli elementi storici, «possono suggerire elementi interessanti […]; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto» (ibid.).
Analogamente, e sempre senza esagerare la portata dell’analogia, possiamo dire che le ricostruzioni storiche delle discussioni che precedettero l’approvazione dei documenti del Concilio «possono suggerire elementi interessanti» ma che un accostamento fondato su queste discussioni è solo «preliminare» e, se ci si ferma solo agli elementi storici, rimane «incompiuto». Una volta che il testo conciliare è stato approvato, e promulgato dal Pontefice, diventa Magistero da leggere – come soleva dire il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), non a caso criticato dal testo per la sua acquiescenza ai Papi del Concilio – in ginocchio. Cercare di squalificare il testo magisteriale riferendosi alle discussioni precedenti alla sua approvazione significa cadere nello stesso errore metodologico che si rimprovera a quegli esegeti per cui gli elementi storici e il contesto prevalgono sul senso teologico del testo.
En passant, perde di significato anche una questione che – se non al grande pubblico – interessa ai cultori, fra cui si annoverano de Mattei e chi scrive, del pensiero di Corrêa de Oliveira. Questi in una parte aggiunta nel 1977 a Rivoluzione e Contro-Rivoluzione scriveva, con particolare riferimento all’omissione di una esplicita condanna del comunismo nei testi conciliari, che «l’evidenza dei fatti indica, in questo senso, il Concilio Vaticano II come una delle maggiori calamità, se non la maggiore, della storia della Chiesa» (ibid., pp. 168-169). De Mattei insiste sul fatto che «Corrêa de Oliveira ha ribadito questo giudizio nell’Autoritratto filosofico del 1976» (p. 588), il che è in effetti rilevante perché questo testo – ma de Mattei omette di precisarlo – fu rivisto dall’autore nel 1994 e pubblicato postumo nel 1996, dopo la morte del pensatore brasiliano nel 1995. Quello che de Mattei vuole dire è che Corrêa de Oliveira non cambiò idea dopo il 1977, anzi semmai «espresse in maniera più esplicita la sua valutazione sul piano teorico, affermando che in alcuni documenti conciliari egli registrava una dissonanza con l’insegnamento tradizionale (cfr. A-IPCO, Incontro del 22 giugno 1984) e persino una certa ambiguità sistematica, incompatibile con la piena ortodossia (cfr. A-IPCO, Riunione del 20 agosto 1980)» (p. 587, dove A-IPCO fa riferimento agli archivi dell’Instituto Plinio Corrêa de Oliveira di San Paolo, in Brasile).
Prescindendo da questi ultimi riferimenti a riunioni inedite – il materiale di questo genere relativo a Corrêa de Oliveira è immenso, e non può che valere il principio della prevalenza di quanto egli decise di affidare alla stampa –, qui de Mattei intende esprimere un’opinione diversa da quella del mio testo, peraltro più volte citato, Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi del secolo XX nella Chiesa (Sugarco, Milano 2008), ampiamente consacrato alla questione sulla scia del prezioso opuscolo di Giovanni Cantoni Plinio Corrêa de Oliveira e il giudizio sul Concilio Ecumenico Vaticano II (Alleanza Cattolica, Roma 2003). Ora, nel mio libro anch’io noto a proposito del giudizio sul Concilio che si tratta di un’opinione che Corrêa de Oliveira « non ha mai rinnegato, anzi ha ribadito nell’Autoritratto filosofico del 1976 rivisto nel 1994» (Una battaglia nella notte, p. 124), ma mi pongo il problema se il giudizio « si riferisca semplicemente all’omessa condanna del comunismo da parte del Concilio, o al Concilio-evento in quanto fatto sociale e mediatico oppure ancora ai testi del Concilio» (ibid.). Per de Mattei la domanda diventa perfino priva di senso, in quanto l’evento sociale comprende i testi – e le omissioni nei testi –, e non è possibile in nessun modo separare i diversi elementi.
Comunque sia – pure a fronte d’inediti o trascrizioni di riunioni che continuano a emergere, anche in conseguenza delle polemiche e divisioni che hanno separato tra loro i discepoli di Corrêa de Oliveira dopo la sua morte – non posso che ribadire qui quanto affermavo in Una battaglia nella notte: «Si può forse sgomberare il campo da qualche polemica inutile, dichiarando subito e senza riserve che, se la pagina di Corrêa de Oliveira che abbiamo citato [sul Concilio] implicasse un incitamento ai fedeli cattolici perché rifiutino globalmente l’insegnamento del Concilio quale si esprime nei suoi testi e documenti – in quanto appunto “non realmente pastorale” e “calamità” storica per la Chiesa –, allora questa pagina non potrebbe essere accettata e fatta propria in coscienza da nessun cattolico cui sia cara la sua fede. Il cattolico che cavillasse e iniziasse a distinguere fra Concilio dogmatico e pastorale, fra magistero infallibile e magistero non infallibile si porrebbe nella stessa posizione dei dissidenti “progressisti” le cui posizioni abbiamo discusso a partire dal rifiuto dell’enciclica Humanae vitae» (ibid., pp. 122-123). Credo, in coscienza, che il pensiero di Corrêa de Oliveira sul Concilio sia caratterizzato da maggiori sfumature rispetto alla presentazione di de Mattei. Ma in ogni caso nessun autore, per quanto grande e caro, può costituire il metro per giudicare il Magistero della Chiesa: al contrario, è sulla base del Magistero che il suo pensiero va giudicato e se del caso corretto.
Qui sta, ultimamente, il punto. De Mattei ritiene che i documenti del Concilio – cui dedica, per la verità, uno spazio minore, che rimane al di sotto di una vera e propria analisi, proprio perché a suo avviso stanno tutti dentro l’evento da cui non sono separabili – siano «incompatibil[i] con la piena ortodossia». Durante il Concilio, i padri del Coetus sbagliarono perché alla fine si arresero sempre agli interventi – nel caso del servo di Dio Paolo VI, secondo de Mattei, consapevolmente e sottilmente manipolatori – dei Pontefici. Sbagliarono perché rifiutarono di prendere seriamente in esame «l’ipotesi di un Papa che sul piano dottrinale potesse errare e cadere nell’ambiguità, e persino nell’eresia» (p. 517), su cui l’autore rimanda a studi del brasiliano Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira. C’è da chiedersi, però, se si sia riflettuto appieno sulle conseguenze ecclesiologiche: a quasi cinquant’anni dal Concilio, non ci troviamo più di fronte a un episodio isolato di un ipotetico singolo errore pontificio di cui storici e teologi discutono per casi del passato, ma a cinque Pontefici – dal beato Giovanni XXIII a Benedetto XVI – che si sono presentati come «Papi del Concilio» e ne hanno propagandato, diffuso e difeso i documenti.
A questa obiezione de Mattei risponde, in modo per la verità non nuovo e citando il volume di mons. Gherardini, che il Concilio si volle pastorale e non dogmatico, non è infallibile ed «è lecito riconoscergli un’indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di fede dogmi definiti in precedenti concili» (p. 15). Lo stesso servo di Dio Paolo VI ebbe a definire il Concilio come non dogmatico, e queste dichiarazioni secondo de Mattei «mettono fine a tutti i dubbi che potessero sussistere a questo proposito» (p. 16) perché è stato Papa Montini a promulgare i documenti conciliari e «un Concilio ha solo l’autorità che il Papa gli vuole attribuire» (ibid.).
Ora, la critica di Benedetto XVI all’ermeneutica della discontinuità e al rifiuto del Concilio si applica, come lo stesso Benedetto XVI ha dichiarato, sia al «progressismo sbagliato» (Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, Auronzo di Cadore, del 24-7-2007) sia all’«anticonciliarismo» (ibid.). Entrambi infatti di fronte al Magistero autentico si trincerano dietro al carattere non dogmatico e non infallibile dei documenti sgraditi affermando che, se non sono infallibili, sono «fallibili» e dunque possono essere rifiutati.
De Mattei afferma che questa sarebbe la posizione dello stesso servo di Dio Paolo VI, e così sarebbe chiusa ogni discussione. Ma in verità Papa Montini non solo non ha insegnato, ma ha esplicitamente condannato la posizione secondo cui, non essendo dogmatico né avendo proposto definizioni infallibili, il Concilio potrebbe essere rifiutato. «Vi è chi si domanda – spiegava il servo di Dio Paolo VI – quale sia l’autorità, la qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre 1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti» (Udienza generale del mercoledì, del 12-1-1966).
De Mattei conclude il suo libro rivolgendosi «con venerazione a Sua Santità Benedetto XVI, nel quale riconosco quel successore di Pietro a cui mi sento indissolubilmente vincolato, esprimendogli un profondo ringraziamento per aver aperto le porte a un serio dibattito sul Concilio Vaticano II. A questo dibattito ribadisco di aver voluto offrire il contributo non del teologo, ma dello storico, unendomi però alle suppliche di quei teologi che chiedono rispettosamente e filialmente al Vicario di Cristo in terra di promuovere un approfondito esame del Concilio Vaticano II, in tutta la sua complessità ed estensione, per verificare la sua continuità con i venti Concili precedenti» (p. 591).
La seconda parte della frase allude alla supplica finale contenuta nel citato volume di mons. Gherardini. La prima parte è molto lodevole: ma se ne dovrebbero trarre le conseguenze. Chi si dice «indissolubilmente vincolato» a Benedetto XVI dovrebbe seguire filialmente il suo insegnamento, quando piace e quando non piace. Quando condanna l’ermeneutica della discontinuità ma anche quando le contrappone nel citato discorso del 22 dicembre 2005 non una semplice «ermeneutica della continuità» – questa espressione nel discorso del 2005 in realtà non c’è – ma una «“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità», insegnando che il Concilio va sì interpretato senza discontinuità, ma accogliendone lealmente gli elementi di riforma e di rinnovamento. Quando insiste – nello stesso discorso – sul fatto che la «discontinuità» fra la Dignitatis humanae e il Magistero precedente è solo «apparente», o quando afferma che non c’è discontinuità fra tale precedente Magistero e la Dei Verbum nell’esortazione apostolica Verbum Domini.
Quando insegna che della modernità vanno rifiutati gli errori, ma accolte le istanze, e che il Concilio ha giustamente preso in considerazione queste istanze. Quando, soprattutto, alla Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Lefebvre ricorda che per esercitare un ministero nella Chiesa «in modo legittimo» e in piena comunione con il Romano Pontefice occorre «l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi» (Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall'Arcivescovo Lefebvre, del 10-3-2009). Continuare a chiedere al Papa «un approfondito esame del Concilio Vaticano II», e rifiutare poi le sue conclusioni ogni volta che parti di questo esame sono compiute, significa non prendere sul serio Benedetto XVI, per quanto gli si moltiplichino le manifestazioni di un ossequio che rischia di rimanere puramente formale.