CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Uno spettro si aggira per l’Europa: la nuova ideologia arrogante, intollerante e obbligatoria dell’immigrazionismo. La parola è stata coniata dal politologo francese Pierre-André Taguieff, ma la più appassionata requisitoria che ne denuncia i misfatti ci viene ora dal giornalista statunitense Christopher Caldwell: Reflections on the Revolution in Europe. Immigration, Islam, and the West (Penguin, Londra 2009). Benché Caldwell sia il genero del giornalista conservatore convertito al cattolicesimo Robert Novak, non tutte le sue idee sono accettabili per un cattolico fedele al Magistero, ancorché il libro riveli una dichiarata simpatia per il ruolo della Chiesa e per Papa Benedetto XVI, confermata dall’editoriale molto equilibrato che ha dedicato all’enciclica Caritas in veritate – con il titolo “Mixing Morals and Money” – sul Financial Times del 10 luglio scorso. L’opera, comunque, merita di essere letta: il genere letterario è dichiaratamente polemico e dunque si tratta di un pamphlet, non di un saggio accademico, ma la documentazione è di primissima mano, la comprensione della politica europea (compresa quella italiana) è rara in un giornalista americano, e il coraggio di affrontare temi non politicamente corretti è apprezzabile.
Che cos’è l’immigrazionismo? È la convinzione che l’immigrazione – più precisamente, l’afflusso di un numero d’immigrati extra-comunitari, in maggioranza musulmani, così alto da alterare in modo permanente la natura stessa della società e della cultura europea –, per quanto possa generare problemi contingenti, sia nel lungo periodo un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso per l’Europa. L’immigrazionismo non è patrimonio esclusivamente dei partiti di sinistra, che lo hanno abbracciato con entusiasmo sia per ragioni ideologiche sia perché si ripromettono – attraverso l’allargamento della cittadinanza a numeri significativi d’immigrati – di trarne vantaggi elettorali. Al contrario, alcuni dei suoi più convinti sostenitori si collocano a destra: Caldwell è forse il primo giornalista non italiano a spiegare chiaramente che “uno dei politici più immigrazionisti” vive in Italia e si chiama Gianfranco Fini. C’è peraltro una differenza fra immigrazionisti di sinistra e di destra. I primi pensano che – per fare ammenda del passato coloniale e del presente neo-colonialista e imperialista – l’Europa debba tollerare dagli immigrati comportamenti che non sopporterebbe mai dai suoi cittadini. La delinquenza e perfino il terrorismo degli immigrati sono visti dall’immigrazionista di sinistra con una certa indulgenza: dopo tutto, dirà, “li abbiamo sfruttati per anni”, e se protestano in modo non precisamente compito “non è poi tutta colpa loro”.
L’immigrazionista di destra invece raccoglie voti – il caso emblematico per Caldwell è quello di Nicolas Sarkozy – promettendo che, se viola la legge, l’immigrato sarà trattato con la dovuta severità dalla polizia. “Tutti devono rispettare la legge”, ripetono i Sarkozy e i Fini. D’accordo, replica Caldwell, questo è ovvio – solo l’ideologismo sfrenato dell’immigrazionista di sinistra suggerisce che qualcuno possa “non” rispettare la legge –: ma non è abbastanza. Un immigrato che non mette bombe nelle metropolitane, non brucia le automobili del quartiere e non picchia i poliziotti – ma nello stesso tempo vive e pensa secondo valori antitetici a quelli europei – è veramente una risorsa per l’Europa oppure rimane un problema?
La risposta, per Caldwell, è chiara. Il livello d’immigrazione extra-comunitaria che c’è oggi in Europa non è compatibile con la sopravvivenza della cultura e della società europea così come oggi le conosciamo. E più alta sul totale degl’immigrati è la percentuale di musulmani, più grave è il problema. Sono i ritmi di crescita a suggerirgli questa conclusione. La Gran Bretagna riceve mezzo milione di nuovi immigrati extra-comunitari ogni anno. Il nucleo storico dell’Unione Europea, l’Europa Occidentale, ne accoglie annualmente 1,7 milioni. Senza contare le nascite: Caldwell fornisce l’esempio di Torino, dove gli immigrati extra-comunitari contribuiscono ogni anno alle nascite dei residenti per il 25% e alle morti solo per lo 0,2%. Ci sono già Paesi profondamente cambiati. Su nove milioni di residenti in Svezia un milione e mezzo è composto da immigrati extra-comunitari e dai loro figli. In Olanda questi ultimi sono tre milioni su un totale di residenti di sedici milioni; se le proiezioni sono attendibili saranno un terzo dei residenti nel 2050.
Chi nega queste proiezioni afferma la sua fiducia dogmatica nel fatto che prima o poi anche gli immigrati si adatteranno ai secolarizzati costumi europei e cominceranno a fare meno figli. Che facciano meno figli è vero, e sta già succedendo: gli immigrati dai Paesi islamici in Italia hanno in media tre figli per coppia, meno di quanti ne hanno nei Paesi d’origine. Ma per gli italiani “originari” il tasso è di 1,3. Il tasso di natalità scende, certo. fra gli immigrati, ma la proporzione non cambia di molto perché scende anche tra i “nativi”. A meno d’imbrogliare le carte considerando “nativi”, come avviene in Francia, tutti i cittadini: fra cui ci sono anche gli immigrati che hanno appena ottenuto la cittadinanza. Inoltre ci sono gruppi etnici come quelli provenienti dal Pakistan, dal Bangladesh e dal Mali (di crescente importanza su scala europea) dove l’effetto secolarizzante del clima europeo sulle nascite non si è sostanzialmente ancora verificato.
Il libro di Caldwell – il quale, sia detto per inciso, in nessun modo nega che, una volta arrivato comunque in Europa (ma il problema è se è bene che ci arrivi), l’immigrato extra-comunitario abbia pieno diritto a essere trattato come una persona – smonta tutta una serie di miti diffusi. L’immigrazionismo è sostenuto da un triplice argomento: economico, etico e sociale. L’argomento economico è dato per scontato anche da molti critici dell’immigrazione: l’Europa, a causa della denatalità, ha bisogno d’immigrati – non importa provenienti da dove –: e in ogni caso ci sono “lavori che nessun europeo vuole più fare” e che possono essere svolti solo dagli immigrati. Caldwell non potrebbe essere più d’accordo sulla premessa: è vero, l’Europa ha un drammatico problema demografico e le cifre sono ormai quelle tipiche di civiltà moribonde. Ma non è d’accordo sulle conclusioni, per tre principali motivi. In primo luogo, gli immigrati extra-comunitari, con i loro bassi salari, spesso tengono in vita temporaneamente posti di lavoro comunque destinati a sparire. L’industria tessile del Nord della Francia e una buona parte della siderurgia in Germania avrebbero perso comunque la grande maggioranza dei loro posti di lavoro alla fine del XX secolo per ragioni indipendenti dal calo demografico – a causa del progresso tecnologico e della disponibilità di prodotti a costi minori provenienti dalla Cina. Questi posti di lavoro – che non avrebbero potuto essere conservati al salario normale di un operaio francese o tedesco – sono sopravvissuti per qualche anno grazie all’impiego d’immigrati sottopagati. Ma alla fine le officine hanno comunque chiuso.
In secondo luogo,i “lavori che nessun europeo vuole” sono spesso “lavori che nessun europeo vuole se il salario non è attraente”. Secondo Caldwell esistono pochissimi lavori che gli europei si rifiutano di fare “qualunque sia il salario”. La verità è un’altra: i datori di lavoro preferiscono impiegare per certi lavori gli immigrati, che costano meno. Ma non costano meno per sempre. Dopo un po’ gli immigrati irregolari diventano regolari e i precari diventano meno precari, o addirittura acquisiscono la cittadinanza. A questo punto sono diventati cittadini europei, e non vogliono più neppure loro i “lavori che nessun europeo vuole” – per lo meno, non li vogliono se il salario non è sufficientemente attraente. Citando un buon numero di economisti, Caldwell nota che ricorrere a immigrati sottopagati non è l’unico modo di risolvere i problemi tipici di alcuni settori. Il progresso della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro possono offrire soluzioni alternative. La Danimarca e l’Olanda, che negli ultimi anni hanno effettivamente ridotto il numero degli immigrati, non hanno sperimentato le conseguenze economiche drammatiche che qualcuno aveva previsto.
Ci sono settori dove effettivamente senza gli immigrati i problemi almeno a breve termine sembrano di difficile soluzione (Caldwell non cita il caso delle badanti in Italia, che sembra invece pertinente). Ma qui viene in considerazione il terzo argomento del giornalista americano. Il suo libro nega la necessità di permettere l’arrivo nell’Unione Europea di milioni d’immigrati extra-comunitari, in particolare islamici. Non è ugualmente severo sugli immigrati intra-comunitari. Su cinquecento milioni di abitanti dell’Unione Europea, cinquanta milioni sono immigrati. Ma di questi circa venti milioni sono abitanti di un Paese dell’Unione che si sono spostati in un altro. Benché, come sanno gli italiani, questi spostamenti non siano privi di problemi, Caldwell precisa che il suo libro sostanzialmente non se ne occupa. S’interessa di quei trenta milioni d’immigrati che sono extra-comunitari, e in particolare di quella percentuale di più di metà di questi (chi dice quindici, chi dice diciassette milioni: i clandestini rendono poco sicure le statistiche) che è composta da musulmani. Problemi come quello delle badanti in Italia potrebbero essere risolti dall’immigrazione intra-comunitaria senza bisogno di ricorrere a quella extra-comunitaria. Dopo tutto, il numero di badanti romene è già molto superiore a quello delle loro colleghe marocchine o tunisine senza che in Italia siano state davvero perseguite politiche specifiche al riguardo.
All’argomento economico gli immigrazionisti ne affiancano uno sociale. Sempre a causa della natalità (e naturalmente del fatto che grazie ai progressi della medicina si vive più a lungo), il welfare europeo è in profonda crisi. Per dirla semplicemente, ci sono troppi pochi giovani e troppi vecchi, troppi pochi lavoratori che sostengono con i loro contributi gli enti previdenziali e troppi pensionati. In alcune zone d’Europa in cinquant’anni si è passati da una situazione dove una media di quattro lavoratori sosteneva un pensionato a una dove per ogni pensionato ci sono solo due lavoratori. Di qui la presunta idea geniale dei teorici immigrazionisti: niente paura, ci penseranno gli immigrati extra-comunitari. I due lavoratori che mancano all’appello perché ogni pensionato sia di nuovo sostenuto da quattro pagatori di contributi li importiamo dal Marocco o dal Pakistan. Ma le cose, spiega Caldwell, non funzionano così. Gli immigrati di solito hanno lavori poco remunerati, dunque pagano contributi relativamente bassi. Uno studio delle Nazioni Unite afferma che per mantenere il sistema previdenziale europeo ai livelli del XX secolo l’Unione Europea nel XXI dovrebbe importare settecento milioni d’immigrati, che forse sembreranno troppi anche ai più convinti immigrazionisti. Uno studio dettagliato sulla Spagna mostra che in cinquant’anni aumentando del 50% il numero degli immigrati extra-comunitari le entrate degli enti previdenziali crescono solo dell’8%.
Questo avviene perché gli immigrati, nota Caldwell, “non sono immortali” (p. 40). Anche loro invecchiano e diventano pensionati. Inoltre, fin da subito, hanno problemi di salute di cui la previdenza sociale si deve fare carico. E hanno più figli dei “vecchi” europei. La crisi economica ha dato il colpo di grazia all’argomento sociale in favore dell’immigrazionismo: in Germania e in Francia il settanta per cento degli immigrati extra-comunitari non lavora – o perché è troppo giovane o perché è disoccupato – dunque non paga contributi, mentre costituisce un costo per il sistema del welfare. Una soluzione, per la verità, ci sarebbe, e qualcuno l’ha anche seriamente sostenuta, senza neppure farsi dare del nazista: considerare gli immigrati “lavoratori ospiti” e rimandarli a casa quando hanno finito di lavorare. Gli immigrati cioè dovrebbero “offrire decenni della loro vita e decine di migliaia di euro in contributi per lavorare e mantenere in vita il sistema europeo del welfare per poi tornarsene gentilmente nel Terzo Mondo a vivere l’età della pensione in povertà, proprio nel momento in cui dovrebbero recuperare qualcosa dei loro contributi” (p. 40). La soluzione provocherebbe tensioni tali da non potere essere presa davvero in considerazione da nessuno. E manderebbe anche alla rovina qualunque argomento etico degli immigrazionisti.
In effetti, anche se l’immigrazione extra-comunitaria massiccia non è un buon affare né per l’economia né per il welfare, si dice che è un imperativo morale. Lo affermano politici di sinistra e (talora) di destra, e anche autorità ecclesiastiche. Gli argomenti immigrazionisti per sostenere questa necessità etica sono, nota Caldwell, piuttosto confusi e spesso contraddittori. Si afferma che questo è il contributo moralmente obbligatorio dell’Unione Europea – anche come penitenza per i peccati veri o presunti del colonialismo – per risolvere i problemi della fame del mondo e del sottosviluppo. Ma non c’è nessuna prova convincente che sia meno costoso per l’Europa accogliere milioni d’immigrati extra-comunitari piuttosto che destinare le stesse risorse ad aiutarli nei loro Paesi d’origine. Ci sono anzi fondati indizi del contrario. Chi afferma che molti immigrati sono ottimi candidati alla cittadinanza ci racconta spesso quanti geni dell’informatica e bravi medici vengono dai Paesi del Terzo Mondo. Ma non riflette sul costo etico costituito dal fatto che così facendo si sottraggono ai Paesi d’origine proprio quelle élite che sarebbero loro indispensabili per uscire dal sottosviluppo.
Un argomento molto usato anche in Italia si riferisce al diritto d’asilo. Tuttavia questo diritto è di rado definito in modo rigoroso, e talora è ridotto a una semplice farsa. Chiunque non si trovi bene in un Paese non democratico o sia vittima di gravi sperequazioni economiche avrebbe diritto a chiedere asilo politico – in una parola, la stragrande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo avrebbe questo diritto. Chi parla di multiculturalismo come elemento essenziale della democrazia europea dovrebbe, nota Caldwell, riflettere su questo fatto: la maggioranza dei cittadini dell’Unione Europea nei sondaggi e anche nelle elezioni si dichiara contraria a quello che normalmente s’intende per multiculturalismo, e disapprova le dimensioni dell’immigrazione extra-comunitaria (quando non ne disapprova il principio in genere). Nonostante questa opinione maggioritaria dei cittadini europei l’immigrazione extra-comunitaria massiccia continua. Il fatto che il parere della maggioranza degli elettori europei sia ignorato non sarà per caso il vero problema della democrazia?
Una parte quantitativamente importante – ma meno originale, così che mi ci soffermo di meno – del volume di Caldwell riguarda il problema specifico posto dall’immigrazione islamica. Si tratta di pagine molto equilibrate. Caldwell non condivide in integro le opinioni di Oriana Fallaci (1929-2006) e di altri critici accesi dell’immigrazione islamica. Né propone di ridurre il numero d’immigrati musulmani in Europa a zero con discriminazioni che negherebbero i caratteri specifici dell’ethos europeo e risulterebbero oggettivamente odiose. Ma meno ancora si fida delle rassicurazioni dei vari Tariq Ramadan (un personaggio di cui, e non è il primo né il solo, sottolinea le ambiguità) o della famosa affermazione del presidente George W. Bush secondo cui “l’islam è una religione di pace” e i fondamentalisti sono pochi eretici, come sarebbe provato dal fatto che gli immigrati musulmani negli Stati Uniti, a differenza di molti loro omologhi in Europa, sono nella loro stragrande maggioranza ostili alla violenza e al terrorismo. Certamente la via statunitense all’assimilazione degli immigrati per ragioni storiche e culturali funziona molto meglio di quella europea, ma per quanto riguarda i musulmani americani di origine straniera (escludendo i “musulmani neri” che sono un fenomeno nato negli Stati Uniti e che non c’entra con l’immigrazione) questi sono circa due milioni dispersi in tutto il vasto territorio dell’Unione. Bisognerebbe testare di nuovo l’affermazione del presidente Bush – che, beninteso, rispondeva a una necessità retorica comprensibile dopo l’11 settembre 2001 –, afferma Caldwell, in un’America che avesse proporzionalmente alla sua popolazione una percentuale di musulmani simile a quella della Francia: quaranta milioni, concentrati in gran parte in alcune zone di alcune città principali. Forse gli esiti sarebbero diversi.
Certamente – Caldwell è d’accordo – ci sono molti islam, e alcuni sono meno lontani dai valori prevalenti in Europa di altri. Ma se da questa premessa – corretta – si arriva alla conclusione che non esistono caratteristiche specifiche dell’islam si cade nel più completo relativismo, forse di moda in un contesto culturale postmoderno ma privo di senso. Esistono gli islam ma esiste anche l’islam. Che è difficile assimilare alla cultura europea su punti fondamentali che riguardano i rapporti fra fede e ragione, fra religione e violenza, fra maggioranze e minoranze religiose, fra uomini e donne. Il catalogo ricorda gli interventi sul tema di Benedetto XVI: e Caldwell li cita esplicitamente. L’autore non esclude che nel lunghissimo periodo l’assimilazione (termine che l’autore preferisce a “integrazione”, espressione oggi ambigua perché per molti immigrazionisti significa accogliere i musulmani senza chiedere loro nessuna concessione o chiarimento sui punti citati, “purché rispettino le leggi”) di milioni di musulmani in Europa possa avere qualche successo. Ma considera questo esito allo stato improbabile, per due ragioni.
La prima ragione è che nessuna civiltà nella storia è riuscita a fronteggiare senza esserne distrutta l’arrivo in così poco tempo di così tante persone portatrici di una cultura e di una religione sia radicalmente diverse sia forti. Diverso era il caso dei barbari, che portavano in Europa una cultura debole; o degli irlandesi emigrati nel XIX secolo negli Stati Uniti il cui cattolicesimo era diverso dal protestantesimo maggioritario in America ma non così radicalmente diverso come è l’islam rispetto all’ethos europeo contemporaneo. La seconda ragione è che per difendere la propria cultura e assimilare gli immigrati bisogna, almeno, volerlo. L’Europa oggi, nota Caldwell, è talmente immersa nel relativismo da non avere affatto le idee chiare su quale cultura voglia difendere e proporre agli immigrati.
Sembra che le reazioni si producano solo in un campo, che comprende il femminismo e i diritti degli omosessuali. È a partire da questi temi che ogni tanto ci sono degli immigrazionisti che cambiano idea. In Olanda ex-immigrazionisti pentiti hanno deciso di proporre ai nuovi immigrati i “valori olandesi” riassunti in un video che devono obbligatoriamente vedere. Vi si vedono, tra l’altro, due omosessuali che si scambiano effusioni in pubblico e una bagnante in topless. Non è certo che la maggioranza degli olandesi si riconosca in questi valori. Per contro, è certissimo che il video confermerà gl’immigrati musulmani nel loro sentimento di superiorità rispetto all’Occidente decadente. In altri Paesi i corsi sulla cittadinanza proposti agl’immigrati esaltano il diritto all’aborto. Qualunque cosa si pensi del topless, dell’aborto e del riconoscimento delle unioni gay – e può darsi che le idee di Caldwell qui non coincidano esattamente con quelle del Papa – è evidente che non si tratta di temi intorno a cui una persona sensata può pensare di costruire un’immagine “forte” dell’Europa o delle sue radici, o di rabbonire immigrati musulmani – già di per sé convinti dell’assoluta superiorità dell’islam. È questa debolezza intrinseca dell’Europa che giustifica il pessimismo che pervade l’opera di Caldwell e che spinge il carrozzone immigrazionista.
Le reazioni anche recentissime di elettori un po’ in tutta Europa – che il giornalista americano non demonizza (per una volta, tra l’altro, un illustre rappresentante della stampa estera non considera né fascisti né razzisti il governo italiano o la Lega, anzi ne comprende molte ragioni) – mostrano che ci sono soprassalti di buon senso. Ma per trasformare questi soprassalti in politica occorre un progetto culturale capace di convincere gli europei che l’immigrazionismo ha torto sul piano storico, economico e sociale. E non ha neppure molte buone ragioni per presentarsi come superiore a critici come Caldwell dal punto di vista morale.