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Le minoranze pentecostali nelle comunità romaní. Lo stato della ricerca e i principali problemi sociologici

di Massimo Introvigne
Relazione presentata al convegno nazionale della Sezione “Sociologia della Religione” dell’AIS (Associazione Italiana di Sociologia) – Bologna, 28 novembre 2008

imgNel corso di questa sessione sono presentate relazioni relative a ricerche sul campo sulla Missione Evangelica Zigana e sulla Chiesa Evangelica Zigana in Italia, da parte di giovani studiosi che fanno parte della stessa famiglia pentecostale cui appartengono queste realtà presenti fra la popolazione romaní, che è il termine oggi preferito per indicare le popolazioni rom, sinti e altre un tempo etichettate con i termini di “zingari”, “zigani” – comunque adottato anche dai pentecostali italiani in quanto ritenuto preferibile al più dispregiativo “zingari” – o “gitani”. La mia relazione intende proporre invece una rapida ricognizione della letteratura in materia di minoranze religiose pentecostali fra le popolazioni romaní europee, e una rassegna dei principali problemi sociologici discussi in tale letteratura.

Tradizionalmente le comunità romaní adottano la religione maggioritaria nel Paese dove si stabiliscono: sono così musulmane in Bosnia, cattoliche in Italia o ortodosse in Bulgaria. L’adesione a queste religioni si mescola tuttavia con credenze popolari, e i rapporti con la religione istituzionale – spesso rappresentata da preti, pastori e altre figure di riferimento non romaní – non sono mai particolarmente facili (Simonelli 1996; Podolinská 2008a, 2008b). A partire dal 1950 in Europa hanno acquisito una notevole diffusione tra le comunità romaní presenze pentecostali. I pentecostali romaní europei indicano come fondativa un’esperienza che avviene nel 1950 a Lisieux, quando la famiglia di un bambino romanó che si trova in punto di morte, dopo essersi invano rivolta a guaritori tradizionali e a un sacerdote cattolico, manda a chiamare un pastore pentecostale delle Assemblee di Dio, Clément Le Cossec (1921-2001), il quale prega sul bambino e lo salva. Per i pentecostali romaní – i quali, peraltro, non usano il termine “pentecostali” ma preferiscono farsi chiamare “cristiani”, mentre gli altri Romaní li chiamano “vangelisti” in Italia e “alleluia” in quasi tutti i Paesi europei – si tratta di un evento miracoloso, il quale mostra come Dio s’interessa personalmente e direttamente alle loro comunità (Le Cossec 1964). Peraltro, il pastore Le Cossec si era appassionato alla missione presso quelli che in Francia sono chiamati gens du voyage già dal 1946.

Comunque sia, è difficile sopravvalutare l’importanza dell’esperienza di Lisieux del 1950 e del pastore Le Cossec. In effetti, in tutti i Paesi europei dove oggi esistono importanti comunità pentecostali romaní, queste sono state fondate da persone che erano state in Francia e avevano conosciuto Le Cossec, ancorché – particolarmente nell’Europa dell’Est – alle comunità pentecostali abbiano pure aderito persone che si erano già convertite ad altre forme di protestantesimo. I risultati della missione pentecostale sono stati spettacolari. Secondo alcune stime, in diversi campi nomadi e comunità sedentarizzate della penisola iberica, della Francia, dell’Italia e dell’Ungheria il movimento pentecostale conterebbe circa il 50% della popolazione. I nomi utilizzati dai gruppi pentecostali principali – tutti appunto legati o almeno ispirati alla predicazione di Le Cossec – sono Missione Evangelica Zigana in Francia e in Italia, Chiesa Evangelica Filadelfia in Spagna e Portogallo, Assemblee di Dio in Ungheria. I rapporti delle comunità che “procedono” dal pastore Le Cossec con le Assemblee di Dio sono complessi e non sempre facili o univoci. In Francia la Missione Evangelica Zigana si dichiara formalmente indipendente dalle Assemblee di Dio dal 1968, ma sono mantenute molteplici relazioni (Le Cossec 2000). In Ungheria sono mantenuti contatti anche con il pentecostalismo oneness o modalista (Lange 2003), che battezza nel nome esclusivo di Gesù Cristo e non del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e rifiuta la dottrina tradizionale della Trinità pur avendo una posizione diversa da quella “unitariana”. In Spagna si sono manifestati anche degli scismi (Medina Baena 1999). Secondo una stima dello stesso Le Cossec proposta nel 2000, un anno prima della sua morte già allora gli “zigani” pentecostali erano circa seicentomila, un terzo di tutti i pentecostali europei (Le Cossec 2000, 21). Secondo Garo (2005) negli anni 2000 i pentecostali hanno superato i cattolici all’interno delle comunità romaní in Francia.

Un fenomeno così rilevante non poteva sfuggire all’attenzione degli studiosi. Senza pretese di esaustività, si devono ricordare qui anzitutto i molteplici contributi pubblicati in un numero speciale del 2004 della rivista Études Tsiganes. Non sorprende – considerata la centralità dell’esperienza di Le Cossec – che molti dei primi studi vengano dalla Francia, grazie soprattutto a Richard Glize (1988, 1989) e Patrick Williams (1984, 1987, 1991, 1993, 1995), senza che sia mancato un interesse per le comunità pentecostali romaní anche in opere generali di sociologia del protestantesimo (come Baubérot 1998). In Spagna, dopo un articolo pionieristico di Kirsten Wang (1989) e un lavoro commissionato dal Secretariado Nacional Gitano nel 1990 (Jordán Pemán 1990), lo studio della Chiesa Evangelica Filadelfia è stato promosso soprattutto da Manuela Cantón Delgado (1999, 2004) cui si sono aggiunti l’antropologo messicano David Lagunas Arias (1996), Cristina Marcos Montiel (1999), Salvador Medina Baena (1999), Ignacio Mena Cabezas (1999) e altri. Sulla Chiesa Evangelica Filadelfia portoghese ha lavorato il sociologo Donizete Rodrigues (Rodrigues, Santos e Gomes 1996; Rodrigues e Santos 2000, 2004; Rodrigues 2006a), cui si deve pure la voce “Gypsies and Pentecostalism” nella Encyclopedia of New Religious Movements curata nel 2006 da Peter Clarke (Rodrigues 2006b). Parte pure dal Portogallo uno studio dell’etnomusicologo Ruy Llera Blanes pubblicato su Terrain nel 2008 (Llera Blanes 2008). Quest’ultimo articolo ha al suo centro la musica pentecostale, che è pure al cuore di una delle rare monografie sul tema, Holy Brotherhood, dedicata alle Assemblee di Dio ungheresi e pubblicata da Barbara Rose Lange nel 2003 (Lange 2003; cfr. pure Lange 2004). Le analisi di studiosi dell’Europa dell’Est si sostanziano per ora soprattutto in interventi a congressi e relazioni inedite (così Podolinská 2008a, 2008b).Trascurando in questa sede le numerose tesi di laurea, la letteratura non è comunque abbondantissima – in Italia è quasi inesistente, se si eccettua un denso articolo di Cristina Simonelli (1996) –, e non appare completamente adeguata alle dimensioni del fenomeno in Europa.

Venendo ai temi principali che possono interessare i sociologi, questi sono riassunti in una domanda formulata nel 2004 da Gaëlla Loiseau, nel suo contributo al citato numero speciale sulla religione di Études Tsiganes: “Questa nuova identità religiosa [pentecostale] viene a giustapporsi, a sovrapporsi o a sostituirsi alle identità etniche degli zigani?” (Loiseau 2004, 116). Per rispondere in modo adeguato a questa domanda, gli studi fino a oggi condotti approfondiscono anzitutto le ragioni della conversione di un numero sorprendentemente alto di famiglie romaní europee alla religione pentecostale. Naturalmente, le analisi sono influenzate dalle teorie sociologiche di riferimento, a seconda che si preferisca legare la conversione alla deprivazione, privilegiare il suo contenuto spirituale, o ancora utilizzare la teoria sviluppata da Bryan Wilson (1926-2004) e Roy Wallis (1945-1990) per cui la deprivazione apre sì la persona alla ricerca di compensatori, ma la scelta di un compensatore religioso rispetto a uno non religioso e di una specifica religione rispetto a un’altra dipende dalle inclinazioni del soggetto e dalla qualità della proposta che lo raggiunge. Per chi segue le teorie della religious economy il secondo elemento, legato all’offerta, è naturalmente privilegiato rispetto al primo, che attiene alla domanda.

La deprivazione delle popolazioni romaní è stata studiata nella sua dimensione etnica, come appartenenza a un popolo disprezzato e oggetto di discriminazioni, e sociale, sotto forma di povertà accresciuta dalle trasformazioni sociali e dall’urbanizzazione che hanno indotto soprattutto a partire dagli anni 1960 una condizione di anomia, testimoniata dalla particolare diffusione della microcriminalità, della droga e dell’alcolismo. Le condizioni specificamente religiose per il successo pentecostale sono state rintracciate nella penetrazione scarsa e superficiale del cristianesimo delle Chiese maggioritarie e in particolare del cattolicesimo fra le popolazioni romaní. Anche il recente forte impegno di sacerdoti e istituzioni cattoliche in campo sociale e per la difesa dei diritti non si sarebbe tradotto in una profonda e duratura evangelizzazione, se non in casi particolari e locali (Rodrigues 2006, 86). La beatificazione nel 1997 di un cattolico romanó, Ceferino Giménez Malla (1861-1936), ucciso dai repubblicani nel corso della guerra di Spagna, ha avuto secondo uno studio di Caterina Pasqualino (2004) risultati ambigui: le comunità romaní della sua regione, l’Aragona, sarebbero rimaste ampiamente indifferenti, se non timorose di essere coinvolte in nuove polemiche legate alla guerra civile, mentre “i Rom orientali […] sono all’origine, malgrado le distanze considerevoli che li separano da Barbastro [luogo del martirio del beato], del pellegrinaggio dedicato a Ceferino” (ibid., 72). Le ricerche di Patrick Williams (1991, 1995) e Cristina Simonelli (1996) mostrano pure un certo fastidio di ambienti romaní nei confronti delle associazioni di aiuto e di promozione che non sono gestite in prima persona da romaní e sono sospettate di atteggiamenti paternalisti o assimilazionisti, nelle quali sono spesso coinvolti volontari cattolici.

Il pentecostalismo del “modello Le Cossec” e delle Assemblee di Dio è invece riuscito a proporsi come un’esperienza religiosa di cui quasi tutti gli studi sottolineano la continuità con le esperienze culturali romaní. I principali elementi di questa continuità sono:

1) la spontaneità e la flessibilità di una religione che insiste sulle profezie, sui miracoli, sulla liberazione dagli spiriti demoniaci (ben presenti nelle tradizionali mitologie etniche)
 e su un’intensa esperienza emotiva d’incontro personale con Dio, così come sulla libertà, che è una caratteristica dell’auto-rappresentazione delle comunità romaní e della rivendicazione della propria identità rispetto ai “gagé”, come sono chiamati coloro che non fanno parte dei gruppi romaní;

2) una relazione non istituzionale ma contrattuale con Dio (chi entra in un rapporto con Dio riceve dei beni non simbolici ma molto concreti: dono della guarigione, delle lingue, della profezia), che sarebbe pure più vicina alle tradizionali culture romaní. In particolare l’insistenza pentecostale sulla guarigione corrisponde a radicate tradizioni romaní, secondo cui in caso di malattia ci si rivolge a professionisti del sacro e non tanto (o non solo) al medico, com’è confermato anche dal successo del pellegrinaggio cattolico a Medjugorje fra i Rom sloveni, che vi si recano però soprattutto alla ricerca di guarigioni (Simonelli 1996, 77-78);

3) una valorizzazione dell’eredità musicale romaní su cui insistono in particolare gli studi più recenti, secondo i quali non solo i pentecostali assumerebbero pienamente le tradizionali musiche etniche nelle loro cerimonie, accettando di rimettere la musica al centro, e non alla periferia, dell’esperienza culturale (Lange 2003; Llera Blanes 2008), ma lo stesso parlare in lingue sarebbe in continuità con forme musicali che presentano – esattamente come la glossolalia – “sequenze di suoni senza significato”, tanto nel flamenco propriamente “gitano” come nella loki djili dei Rom Kalderaš (Williams 1994, 27);

4) la scelta di pastori romaní, mentre nelle religioni maggioritarie spesso (anche se non sempre) i pastori o sacerdoti sono gagé. A questo proposito assume particolare interesse la testimonianza di Cristina Simonelli, che ha studiato una comunità di Sinti con gli strumenti dell’etnolinguistica, ma a partire da una posizione personale non precisamente neutrale. Al momento della ricerca la studiosa infatti fa parte di un gruppo di volontari cattolici che vivono in carovana e condividono interamente la vita dei Sinti nomadi. L’autrice resta colpita dalle affermazioni dei Sinti italiani secondo cui i “vangelisti” pentecostali annunciano qualcosa di radicalmente nuovo. Lo strumento etnolinguistico non conferma quest’affermazione degl’intervistati. Al contrario, registrando e mettendo in colonna due sermoni pronunciati in occasione di funerali rispettivamente da un sacerdote cattolico e da un pastore pentecostale questi appaiono molto simili. La differenza non sta dunque nel contenuto ma nella persona stessa del pastore: il sacerdote cattolico – per quanto viva da anni con i Sinti – rimane uno “straniero”, qualcuno che viene dal mondo dei gagé, mentre il pastore pentecostale è nato e cresciuto nella comunità. Sia l’uno sia l’altro annunciano la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, ma solo ascoltando il pastore pentecostale i testimoni affermano di avere compreso che Gesù Cristo è morto “per noi”, cioè per i Sinti, mentre dalle parole del sacerdote gli ascoltatori continuano nonostante tutto a ricavare l’impressione che il Signore è morto “sì, per i Gagé, ma non per i Sinti”. In questo senso i Sinti rimproverano i cattolici: “Sono tanti anni che siete in mezzo a noi, ma che Gesù è morto per noi non l’avevo mai sentito dire” – un’affermazione che non trova riscontro nella lettera della predicazione dei sacerdoti e volontari cattolici, ma lo trova evidentemente nel modo in cui questa predicazione è compresa dagli ascoltatori (Simonelli 1996, 83);

5) una narrativa che valorizza le comunità romaní come popolo che Dio ama in modo speciale per le sue caratteristiche di popolo errante e perseguitato, a partire sia dall’esperienza della guarigione del 1950 a Lisieux sia da un’identificazione delle popolazioni romaní con il popolo ebraico, e della loro storia con la storia biblica dell’Antico Testamento. In verità le comunità romaní non appaiono molto interessate alle speculazioni o teorie storiche secondo cui discenderebbero dalle tribù perdute d’Israele (Le Cossec 1964). Tuttavia sul piano simbolico l’identificazione con il popolo ebraico, che per i non ebrei, i gentili, è un popolo disprezzato ma che per Dio è un popolo eletto appare invece molto significativa (Simonelli 1996, 85);

6) la possibilità di una “riorganizzazione sociale e culturale in periodo di anomia” (Rodrigues 2006, 90) attraverso un forte impulso a rinunciare alla droga, all’alcool, alle attività microcriminali e anche ad alcune tradizionali attività romaní come la chiromanzia o la magia, che secondo Rodrigues avverrebbe “senza traumatismo, non fosse altro che perché quanto i pentecostali rifiutano avrebbe dovuto necessariamente essere modificato per assicurare la sopravvivenza stessa del gruppo” (ibid.).

Su quest’ultimo punto naturalmente il dibattito è molto vivace. Denunciando la magia, la chiromanzia e molte tradizioni e mitologie come “sataniche” i pentecostali non stanno forse chiedendo alle comunità romaní di rinunciare alla loro identità? A un estremo si situa chi ritiene, come Rodrigues con riferimento al Portogallo, che un processo di abbandono di forme e tradizioni superate fosse già in corso e che la transizione al pentecostalismo sia stata quindi in un certo modo “naturale” e non traumatica. All’altro estremo si pone chi, come Tatiana Podolinská (2008a, 2008b) per il caso della Slovacchia, mette in luce come queste rinunce isolano le famiglie romaní pentecostali da quelle non pentecostali, dividono la comunità e, in un Paese con un’identità cattolica ancora molto vigorosa, rischiano di rendere questi gruppi romaní doppiamente minoritari: come non etnicamente slovacchi e come non cattolici. In alcune ricerche emerge in effetti la divisione netta, soprattutto in comunità romaní nomadi, fra i “vangelisti” o gli “alleluia” e i cattolici. Gaëlla Loiseau riferisce che quando ha deciso di passare dallo studio di gruppi romaní cattolici a quello di gruppi pentecostali, i membri dei primi hanno concluso che “era passata con gli alleluia” e che non potevano più accoglierla in casa loro, e questo nonostante relazioni precedenti davvero molto cordiali (Loiseau 2004, 109).

La stessa Podolinská nota pure, tuttavia, come i pentecostali propongano nello stesso tempo un rafforzamento delle identità romaní (“depurate” però degli elementi “superstiziosi”), e come importanti protagonisti dei cosiddetti movimenti nazionalisti romaní nell’Europa dell’Est siano pentecostali. Non è raro, anzi, che – colpiti dai successi dei pentecostali nella lotta contro la criminalità, l’alcolismo e la droga – le stesse autorità pubbliche, dopo un periodo iniziale di diffidenza, considerino i pastori come interlocutori politici e ne favoriscano l’ascesa a cariche pubbliche. È il caso, studiato da Barbara Rose Lange, del pastore delle Assemblee di Dio ungheresi József Gál (Lange 2004), benché sia pure vero che, quando la sua visibilità politica è divenuta troppo evidente, le stesse Assemblee di Dio gli hanno chiesto di rinunciare alla sua affiliazione alla denominazione fino a quando avesse occupato cariche pubbliche (Lange 2003, 170). Sembra indubbio che la visibilità di personaggi come Gál (e altri, fra cui non mancano oggi diversi parlamentari nell’Europa dell’Est) abbia contribuito a far superare all’opinione pubblica antichi pregiudizi contro gli “zingari”. Ma chi sostiene una posizione diversa si chiede se questo non avvenga svalutando le tradizioni romaní anziché valorizzandole.

Molti studiosi adottano oggi una posizione mediana: il passaggio al pentecostalismo crea un’identità che è certamente radicata nelle tradizioni romaní quanto alla musica (che – ricordiamolo – qui non è mai un elemento meramente periferico), all’accostamento stesso alla religione, all’orgoglio di essere parte di un popolo “diverso”, un “nuovo Israele”, la cui peculiarità, descritta in termini di libertà e d’intensità di esperienza, è rivendicata come positiva. Ma nello stesso tempo la nuova identità non è uguale a quella tradizionale, perché interpreta la tradizione in modo selettivo, denunciando gli elementi ritenuti incompatibili con la nuova fede e creando nuovi miti e nuovi riti. Se questa nuova identità possa essere fattore di divisione nelle comunità romaní o al contrario fermento di una nuova auto-consapevolezza, sulla via di un’integrazione corale e collettiva che non rinuncia alle tradizioni ma si apre a un dialogo più serrato con i gagé, è questione che richiede studi più sistematici e transnazionali di quelli finora compiuti, e cui darà ulteriormente risposta l’evoluzione di un gruppo di comunità in cui le minoranze pentecostali giocano un ruolo sempre più rilevante. Quello che gli studi finora condotti sembrano dimostrare è, in ogni caso, che ogni discorso sull’integrazione – o, per riprendere il tema generale di questo convegno, la dis/intergazione sociale – delle comunità romaní che ignori la religione rischia di trascurare un aspetto essenziale della vita e del futuro di questi gruppi.

 

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