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La tragedia di Mumbai: Al Qaida, il Kashmir e il silenzio dell’islam

di Massimo Introvigne

imgLa tragedia di Mumbai mi colpisce due volte: perché sono stato diverse volte in India per studiare i gruppi estremisti presenti nella zona e perché ogni volta ho soggiornato proprio all’Hotel Taj Mahal, evidentemente considerato dai terroristi fin dalla sua architettura un simbolo della vecchia India coloniale, e ora colpito per la seconda volta in cinque anni. Mi si consiglierà di cambiare albergo: ma sarebbe darla vinta ai terroristi. Sulla matrice degli attentati ci sono pochi dubbi: la sigla che ha rivendicato l’attentato, i Mujahiddin del Deccan, è pressoché sconosciuta ma l’uso continuo di sigle nuove è tipica del network di Al Qaida in India, che è nato in Kashmir e a Mumbai conta su centrali mai davvero smantellate Lo schema si ripete: ogni volta che i governi indiano e pakistano sembrano avvicinarsi a una soluzione pacifica della disputa sul Kashmir, come sta avvenendo negli ultimi mesi, il terrorismo colpisce. Le organizzazioni terroristiche dell’ultra-fondamentalismo islamico nel Kashmir sono fra le più feroci: dal 1989 a oggi hanno fatto sessantamila morti, un record secondo solo a quello algerino. Ma questa ferocia non è cieca, e quasi sempre ha scelto i momenti giusti per colpire, ottenendo finora lo scopo di far puntualmente deragliare il treno della pace ogni volta che esso sembra vicino alla destinazione. Anche il Kashmir conferma così la tesi secondo cui il terrorismo non è affatto “irrazionale”: persegue scopi politici precisi, e non di rado li ottiene.

Il problema del Kashmir è antico. La “partizione” della penisola indiana fra un’India indù e un Pakistan musulmano inventata dagli inglesi nel 1947 lascia irrisolto il problema dei regni formalmente indipendenti delle zone di frontiera, i cui rajah dovrebbero decidere con quale dei due paesi federarsi. Nel Kashmir gli abitanti sono in maggioranza musulmani sunniti, mentre la famiglia reale è induista. Il rajah fa prevalere la sua religione su quella dei sudditi, e nel 1947 dichiara di volersi unire all’India. Ne nasce una guerra fra India e Pakistan, conclusa da un cessate il fuoco negoziato nel 1949 dalle Nazioni Unite, le quali fermano le truppe su una “linea di controllo provvisoria”, che lascia un terzo del Kashmir al Pakistan e due terzi all’India, e chiedono che il futuro del Kashmir sia deciso da un referendum che non si terrà mai.

Seguono invece altre due guerre nel 1965 e nel 1971, e una tregua firmata a Simla nel 1972. La tregua tiene per quasi vent’anni, anche perché nel frattempo su una parte del Kashmir avanza minacciose rivendicazioni territoriali la Cina, e India e Pakistan sanno che nuovi conflitti darebbero occasioni a Pechino di intervenire. Alla fine degli anni 1980, tuttavia, Osama bin Laden decide personalmente di aprire un nuovo fronte in Kashmir dopo i successi in Afghanistan. Negli anni 1990 comincia una vasta campagna terroristica al cui servizio si pongono migliaia di volontari che Bin Laden infiltra nel paese dall’estero.

Bin Laden, inoltre, mette in opera un’altra strategia: sviluppa legami strettissimi con la malavita organizzata indiana. Nel 1993 a Mumbai un attentato fa 250 morti ed è interpretato come un avvertimento alla polizia, che si interessa un po’ troppo ai suoi affari, di uno dei grandi padrini della mafia indiana, Abu Salem, marito di una nota attrice di Bollywood – la Hollywood di Bombay –, Monica Bedi. Non si trovano prove, ma qualche anno dopo Abu Salem e signora scappano prima in Kenya e poi a Lisbona dove saranno catturati solo nel 2005. Hanno con sé documenti secondo cui uno dei principali dirigenti di Al Qaida, Abu Hufeza, aveva fornito esplosivo e uomini ad Abu Salem per il sanguinoso attacco del 1993, approvato personalmente da Osama bin Laden. Come in altri Paesi, Al Qaida conta sul crimine organizzato – con cui è disposta a collaborare in molti modi – per un appoggio logistico prezioso.

La radice immediata del terrorismo in India è dunque il problema del Kashmir. Si tratta di un problema senza soluzioni facili, ma il rapporto del 1950 della commissione ONU guidata dal giurista australiano Sir Owen Dixon metteva già in luce un fatto innegabile: ogni soluzione applicata a tutto il Kashmir, referendum compreso, non condurrà alla pace, perché il Kashmir è diviso fra una zona musulmana, una indù e una buddhista, senza contare le divisioni linguistiche. La “terza via” di chi sogna un Kashmir indipendente è politicamente e socialmente irrealizzabile – terrebbe insieme in uno stesso Stato musulmani e indù che si sono scannati per decenni –  ma una razionalizzazione su base linguistica e religiosa della “linea di controllo” può portare l’India, il Pakistan e la maggioranza dei kashmiri stanchi di guerre e di morti ad accettare la frontiera “provvisoria” del 1949 come definitiva. È proprio perché questa soluzione, che appare oggi possibile e che anche la futura amministrazione Obama ha messo fra le priorità della politica estera statunitense, non si realizzi che Al Qaida fa strage di civili in India e minaccia attentati negli Stati Uniti. 

Un’ultima considerazione, forse poco “politicamente corretta”, è obbligatoria. Benedetto XVI ha ricordato ripetutamente di recente che il dialogo interreligioso sul piano strettamente teologico rischia di lasciare il tempo che trova, mentre è urgente che le grandi religioni s’incontrino sul terreno culturale e morale dei diritti umani e della condanna senza riserve della violenza e del terrorismo. Troppo spesso le autorità islamiche hanno condannato il terrorismo in via di principio, dichiarando però legittimi gli attentati quando si tratta di “resistenza” contro “occupanti”: gli israeliani in Palestina, gli americani in Iraq, gli indiani in Kashmir. A prescindere da ogni considerazione sui singoli scenari locali, il Papa ha ricordato ai musulmani che nessuna causa, anche eventualmente comprensibile, giustifica il terrorismo e le stragi. Solo da una condanna senza se e senza ma di ogni attentato terroristico potrà ripartire la strada di un vero dialogo.