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Miti anti-israeliani sull’11 settembre: gli “israeliani danzanti” e gli “studenti d’arte israeliani”

di Massimo Introvigne

imgCome ho mostrato altrove la malattia morale dell’Occidente contemporaneo ha una delle sue più gravi manifestazioni in quella posizione sull’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che, per minare alle radici la determinazione di chi vorrebbe reagire all’aggressione ultra-fondamentalista islamica, non si limita a negare con argomenti pacifisti o “buonisti” la legittimità della reazione ma nega perfino il fatto. Gli argomenti secondo cui gli attentati dell’11 settembre non sarebbero opera di Al Qaida ma dell’amministrazione americana, di elementi deviati all’interno della stessa, di servizi di sicurezza statunitensi o di Israele cozzano – oltre che contro obiezioni tecniche che ne mostrano il carattere mitologico – contro la rivendicazione e l’esaltazione di quegli attentati da parte di decine se non centinaia di documenti che provengono dal mondo ultra-fondamentalista islamico, spesso pubblicati su siti che fanno riferimento a questo mondo e di cui è davvero molto difficile pensare che siano tutti venduti alla CIA o al Mossad. Gli argomenti dei “negazionisti” non presentano dunque un particolare interesse sul piano della ricostruzione dei fatti: appartengono al rejected knowledge, alle ipotesi che la scienza – anche sociale – accademica ha scartato, allo stesso titolo delle teorie sulla terra piatta, sul complotto di cattolici (o di gesuiti) che avrebbero organizzato l’assassinio di Abraham Lincoln (1809-1865) o sull’effettiva provenienza da ambienti ebraici di quel falso confezionato da ambienti antisemiti russi che sono i Protocolli dei Savi Anziani di Sion.

Questo non significa che lo studio del cosiddetto “movimento della verità” (Truth Movement), cioè di quel movimento che nega l’ovvia natura di attentato perpetrato dall’ultra-fondamentalismo islamico dell’11 settembre, non sia interessante, in quanto studio di un fenomeno patologico che è parte della rinascita contemporanea del “complottismo” cui ha dedicato importanti lavori Michael Barkun. All’interno del Truth Movement negazionista emerge con sempre maggiore frequenza il tema anti-israeliano quando non francamente antisemita. In questo clima sono nate, insieme ad altre, due leggende relative all’11 settembre che intendo ora esaminare brevemente: quella degli israeliani danzanti (di cui presentiamo vicino al titolo una versione “artistica” tratta da un sito antisemita) e quella degli studenti d’arte israeliani.

La prima leggenda è presentata normalmente in questi termini: “L’11 settembre 2001 la polizia di New York arresta cinque israeliani che danzano e si congratulano fra loro dopo il crollo delle Torri Gemelle. L’inchiesta dimostra che si erano preparati a filmare gli eventi, da una posizione da cui il World Trade Center si vedeva particolarmente bene, già prima che questi accadessero, dunque sapevano prima che sarebbero accaduti. Nonostante questo fatto gravissimo (e – si aggiunge talora – il fatto che a bordo del furgoncino in cui viaggiavano siano stati trovati esplosivi) la giustizia americana non approfondisce l’episodio ma li rimanda semplicemente in Israele. In più i cinque sono ex-militari (e/o agenti del Mossad) e lavorano per una società di traslochi chiamata Urban Moving Systems, il cui proprietario, l’israeliano Dominick Suter, si rende irreperibile pochi giorni dopo i fatti dell’11 settembre. Evidentemente la Urban Moving, finta società di traslochi che copriva un’operazione spionistica israeliana, aveva potuto penetrare senza destare sospetti nelle Torri Gemelle e preparare la loro esplosione dall’interno e il loro crollo, poi falsamente attribuito all’impatto di aerei. I cinque avevano ben ragione di danzare e di congratularsi per l’esito di un lavoro ben fatto”.

Come tutte le leggende dell’11 settembre, si tratta di un falso. Il 12 settembre la notizia secondo cui la polizia ha fermato un furgoncino carico di esplosivi dura esattamente sette minuti: è diffusa dalla CNN alle 16.27 e smentita alle 16.34 (è confermato il fermo di un furgoncino bianco, con arresti, ma è negata la presenza di esplosivi). La storia è stampata per la prima volta dal New York Times il 13 settembre 2001 con queste parole: “Ufficiali di polizia riferiscono che un gruppo di cinque uomini è sotto indagine a Union City [New Jersey] ed è sospettato di avere aiutato i dirottatori. Inoltre gli ufficiali riferiscono che apparentemente i cinque uomini avevano piazzato macchine fotografiche che inquadravano il World Trade Center vicino al fiume Hudson. Essi hanno fotografato gli attacchi ed è stato riferito che si congratulavano fra loro, dicono gli ufficiali” (David Johnston - James Risen, “After the Attacks. The Investigation. Bin Laden Ties Cited”, The New York Times, 13-9-2001). Questa storia è riassunta sul sito del canale televisivo Fox News il giorno successivo, il 14 settembre, come segue: “Il New York Times ha riferito giovedì che un gruppo di cinque persone aveva predisposto delle videocamere dirette verso le Twin Towers prima degli attacchi di martedì, e questi uomini sono stati visti in seguito congratularsi fra loro” (“One Arrested, Others Detained at NY Airports”, Fox News, 14 settembre 2001). Si ha qui un primo esempio di come le notizie, passando da una fonte all’altra, subiscono distorsioni. Fox News non ha svolto nessuna indagine indipendente: la notizia consiste nel fatto che “il New York Times ha riferito”. Ma paragonando il testo dell’articolo del New York Times e quello di Fox News emergono due discrepanze. Primo: il Times parla di apparecchi fotografici e Fox News di videocamere. Secondo: il New York Times non dice quando i cinque hanno piazzato le loro macchine fotografiche ed è Fox News a sciogliere l’ambiguità affermando senz’altro che quelle che sono diventate senza incertezze “videocamere” sono state predisposte “prima degli attacchi”, il che evidentemente dimostrerebbe che i cinque sapevano con anticipo che gli attacchi ci sarebbero stati.

L’incidente è pressoché dimenticato (salvo un articolo in novembre del supplemento di un quotidiano ebraico di New York, su cui tornerò e che comincia a interessare alcuni negazionisti dell’11 settembre) finché riemerge il 21 giugno 2002 in una puntata della trasmissione televisiva 20/20 della rete ABC, che gli dà una grande notorietà. Questa puntata – ma soprattutto l’articolo postato sul sito della ABC per promuoverla (oggi non più online sul sito della ABC ma reperibile tramite servizi come web.archive.org, e ripubblicato su diversi siti) – è la fonte della maggioranza dei negazionisti odierni. 20/20 è una trasmissione sensazionalistica che è stata coinvolta in diverse cause per diffamazione; in materia di sacerdoti cattolici accusati di pedofilia, per esempio, ha ripreso il famoso documentario della BBC Sex Crimes and the Vatican il cui carattere di “bufala” diffamatoria penso di avere ampiamente documentato.

Questo genere di trasmissioni ha un format noto e studiato, che chi scrive conosce anche per avere partecipato a un buon numero di serate televisive del genere, il quale in termini meno scientifici potrebbe essere definito come “tirare il sasso e nascondere la mano”. I trailer che annunciano l’evento promettono rivelazioni sensazionali, cui è in effetti consacrata la prima parte della trasmissione. Nella seconda – sia per dare un’impressione di equilibrio, sia per evitare (non sempre con successo) azioni legali – si dà la parola a persone che spiegano come quanto è stato affermato in precedenza sia una mera ipotesi o anche sia “probabilmente” falso. Così, sulla scia del romanzo Il Codice da Vinci, ho partecipato a una dozzina di trasmissioni dove nella prima parte si presentavano le più mirabolanti teorie su Gesù Cristo, la Maddalena e Leonardo da Vinci; nella seconda parte si dava la parola al sottoscritto o ad altri che finalmente potevano spiegare – ma quando il danno era ormai stato fatto – che si tratta di teorie infondate e ridicole.

Questo schema deve essere assolutamente tenuto presente per comprendere il funzionamento della puntata del 21 giugno 2002 di 20/20, nonché le differenze fra l’articolo pubblicato come trailer per attirare telespettatori e la trascrizione della puntata, che può essere facilmente ottenuta dalla rete ABC. L’articolo-trailer insiste sui “possibili collegamenti con l’intelligence israeliana” dei cinque arrestati e fa spesso riferimento a “fonti dell’FBI”, il Federal Bureau of Investigation, che non sono mai meglio identificate, secondo cui “alcuni di quegli uomini erano in missione per l’intelligence israeliana”. L’unica frase che inizia con “l’FBI ci ha detto” (che, naturalmente, è cosa diversa da “abbiamo saputo da nostri contatti all’interno dell’FBI di cui non possiamo rivelare nulla”) è quella il cui contenuto, virgolettato e attribuito all’agenzia investigativa federale, è: “A oggi, questa indagine non ha identificato alcuna persona che in questo paese sapesse degli eventi dell’11 settembre prima che accadessero”. Questa frase, naturalmente, non è citata dai negazionisti. Ma certamente l’articolo sul sito della ABC ha lo scopo di attirare il maggior numero possibile di telespettatori verso la puntata di 20/20, lasciando loro intendere che lì sarà svelato qualche cosa di grosso. A questo servono i trailer.

Senonché, nonostante il tono sensazionalistico della trasmissione, la sostanza è scarsa. La puntata si apre con una teste che l’11 settembre chiama la polizia, nascosta sotto lo pseudonimo di “Maria”. Si tratta di una signora che, allertata da una condomina, va alla finestra del suo appartamento nel New Jersey e vede prima fumo provenire dalle Torri Gemelle e dopo (“dovevano essere passati pochi minuti”) l’arrivo in un parcheggio sottostante di un furgoncino, con “alcuni che salgono sul tetto del furgoncino e sembrano girare un film”. Quello che colpisce “Maria” è che “sembrano contenti” mentre si fotografano a vicenda con le Torri Gemelle sullo sfondo. A questo punto “Maria” prende il numero di targa del veicolo e chiama la polizia, che intorno alle quattro del pomeriggio ferma il furgoncino nei pressi dello stadio di football americano dei Giants e arresta cinque cittadini israeliani fra i 22 e i 27 anni di età: Sivan Kurzberg, Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari. La polizia – un agente della quale è intervistato da 20/20 – ritiene di trovare una conferma del fatto che si tratta di persone sospette nel fatto che uno degli arrestati “ha 4.700 dollari nascosti in un calzino” e un altro “ha due passaporti stranieri”. Nel furgoncino non ci sono esplosivi ma c’è “un coltello per tagliare scatole”, il che non è sorprendente visto che si tratta del furgone di una ditta di traslochi.

Nel clima particolare dell’11 settembre la polizia chiama l’FBI che prende molto sul serio la cosa: preso atto che i cinque lavorano per la Urban Moving Systems, a tempo di record – sempre secondo 20/20 – “ottiene un mandato e perquisisce la sede” della società di traslochi. 20/20 intervista una vicina, Pauline Stepkovich, la quale riferisce che “l’FBI si è fermata per ore, ore” e ha portato via tutto: documenti, computer, scatoloni. Interroga a lungo il titolare, Dominick Suter, ma non lo arresta né lo incrimina. “Qualche giorno dopo, quando l’FBI cerca d’intervistare nuovamente il signor Suter, scopre che ha lasciato il Paese”. I cinque, invece, rimangono in prigione perché i loro visti turistici sono scaduti e sono quindi tecnicamente clandestini, che inoltre lavorano in nero (sulla base di un visto turistico, infatti, non potrebbero lavorare). “Dopo due settimane un giudice li condanna, secondo la routine [dell’immigrazione clandestina] all’espulsione”, ma a questo punto, sempre secondo la trasmissione televisiva, intervengono “la CIA e l’FBI” che, anziché espellerli, li trattengono per altri 71 giorni, “ne tengono alcuni in isolamento, li sottopongono a interrogatori continui e a sette test con la macchina della verità”. A questo punto si entra nel regno della speculazione: “fonti confidenziali dell’FBI” avrebbero detto ai giornalisti che il materiale fotografico (o cinematografico, perché nella stessa trasmissione ci sono contraddizioni sul punto), sviluppato, mostra in effetti i cinque che “sorridono e fanno i buffoni” con le Torri Gemelle o le loro rovine sullo sfondo, che l’FBI ha due dei cinque fra i nomi della sua banca dati di possibili agenti stranieri e sospetta che lavorino per il Mossad il quale notoriamente cerca d’infiltrarsi tra i sostenitori di Hamas negli Stati Uniti, e che uno dei cinque, Paul Kurzberg, secondo “uno dei suoi avvocati” avrebbe avuto problemi con la macchina della verità perché in passato “aveva lavorato per l’intelligence israeliana in un altro Paese”. Inoltre un “rispettato giornale ebraico di New York”, The Forward, avrebbe anche lui saputo dalle solite fonti confidenziali dell’FBI che due degli arrestati lavoravano in effetti per il Mossad.

Dopo l’eccitazione viene però la doccia fredda. L’unico avvocato degli arrestati di cui si fa il nome e che partecipa alla trasmissione, Steve Gordon, dichiara che i suoi clienti “negano qualunque celebrazione e manifestazione di gioia”, e l’avvocato israeliano dei cinque, Ram Horvitz, definisce la storia del loro collegamento con servizi di intelligence “la storia più assurda e ridicola che abbia mai sentito”. Lo stesso fa il portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, il quale afferma che “le autorità americane non hanno mai sollevato il problema con noi. La storia è semplicemente falsa”. In un talk show israeliano tre dei cinque (che hanno fatto tutti il servizio militare, obbligatorio in Israele, ma negano qualunque contatto con i servizi segreti) si protestano vittime di un errore giudiziario. Alla fine non c’è uno straccio di prova che i giovani abbiano mai avuto a che fare con lo spionaggio israeliano, ma ci sono certamente molti elementi secondo cui il comportamento “sospetto” dei cinque risale a dopo l’attacco terroristico e dunque nulla permette di concludere che il quintetto sapesse da prima che l’attacco ci sarebbe stato. Il duetto finale fra i giornalisti responsabili del programma, Barbara Walters e John Miller, è perfino virtuoso: “WALTERS: ‘Ma il punto centrale è che non c’è nessuna prova che questi uomini sapessero dell’attacco prima che avvenisse’. MILLER: ‘No. E penso che l’FBI e la CIA abbiano dedicato molto tempo a scavare intorno a questa risposta e non abbiano trovato nulla’. WALTERS: ‘Bene. Dunque noi abbiamo seppellito questa diceria (rumor) una volta per tutte’. MILLER: ‘Di sicuro ci abbiamo provato’”. Si vede qui il meccanismo tipico della trasmissione sensazionalistica: nella prima parte si eccita il rumor, nella seconda lo si sgonfia e ci si può perfino vantare di avere svolto opera meritoria avendo “seppellito la diceria”.

C’è una frase nel programma 20/20 dell’avvocato Steve Gordon che rimane incomprensibile senza conoscere un altro antefatto. Gordon, infatti, a un certo punto dichiara che quando l’11 settembre qualcuno vede “cinque stranieri che scattano fotografie in cima a un tetto (roof)” è normale che questo qualcuno si allarmi e chiami la polizia. Ma la storia di 20/20, che parte da “Maria”, è relativa a immagini scattate dal tetto di un furgoncino in un parcheggio, mentre roof è la parte superiore di un edificio. In effetti la trasmissione della ABC non cita un altro testimone il quale nell’inchiesta avrebbe riferito di avere visto i cinque giovani prima che li vedesse “Maria” e di averli visti sul tetto dell’edificio dove aveva sede la Urban Moving Systems. Di questo testimone si parla in un articolo del 2 novembre 2001 di Yediot America, supplemento settimanale all’edizione pubblicata negli Stati Uniti del più diffuso quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth, e tradotto sul sito del quotidiano online di New York Gotham Gazette, dove oggi appare una messa in guardia sull’uso dello stesso articolo – spesso tagliando alcuni passaggi decisivi – da parte di “siti antisemiti e complottisti” per fargli dire il contrario di quello che dice. In effetti – paradossalmente – un articolo di un giornale israeliano che intendeva protestare contro la detenzione, che considerava abusiva e ingiustificata, dei cinque è usato dai negazionisti come prova delle loro asserzioni.

Secondo questo articolo l’avvocato Gordon avrebbe dichiarato che poco dopo gli attentati dell’11 settembre tre dei cinque salgono sul tetto dell’immobile dove ha sede la Urban Moving Systems per scattare fotografie. Un vicino – che secondo Gordon aveva in corso una tipica bega fra vicini di casa con la società di traslochi – afferma che i tre stanno “danzando e ridendo” (ecco finalmente il riferimento alle danze) e chiama la polizia (dunque già prima di “Maria”). Ma questa chiamata (a differenza di quella di “Maria”), in cui peraltro il vicino afferma che i tre “parlano in lingua araba”, non ha seguito perché i tre, più due loro compagni, concludono che dal tetto il World Trade Center non si vede bene, salgono sul furgoncino e vanno in un vicino parcheggio da cui possono scattare fotografie migliori. Qui – aggiunge Gordon – li vede una vicina (quella che 20/20 chiamerà “Maria”) la quale riferirà più tardi che i cinque ridono, “ballano” e “si danno il cinque” (si noti, però, che parlando di fronte alle telecamere di 20/20 “Maria” non parla di danze o di “darsi il cinque” ma solo di “risate” e di uno “che ha messo la mano sulla spalla” di un altro: è possibile che l’avvocato o il giornalista che lo intervista abbiano confuso la seconda testimone, “Maria”, con il primo, il vicino). Il che, precisa, i cinque “negano assolutamente”, mentre le immagini sviluppate mostrano al massimo dei sorrisi al momento di essere fotografati. Gordon nell’articolo di Yediot America definisce la detenzione “ingiustificata”: per la questione dell’immigrazione clandestina avrebbero dovuto essere trattenuti “120 minuti, non 120 giorni”.

Sul fatto che i cinque ballassero, “facessero i buffoni” o si “dessero il cinque” probabilmente non si arriverà mai a una certezza: è una tipica storia di “lui dice, lei dice”, e non ci sono prove al di là di testimonianze contraddittorie. Ma è poi così importante? Evidentemente la questione che potrebbe avere qualche interesse non è se cinque ventenni israeliani si siano comportati in modo cretino l’11 settembre 2001 a New York, ma se sapessero prima che l’attentato avrebbe avuto luogo, e lo sapessero in quanto “agenti del Mossad” o addirittura persone direttamente coinvolte nell’attentato medesimo. Di tutto questo la stessa trasmissione 20/20, che dà notorietà mondiale al caso, conclude che non si è trovata “nessuna prova” nonostante accuratissime ricerche, così che la “diceria” dovrebbe essere finalmente “seppellita”. Non c’è nessuna prova che i cinque abbiano lavorato al World Trade Center (se ci fosse, non sarebbe molto significativa, perché al World Trade Center erano passate per svolgere qualche lavoro, migliaia di persone: ma non c’è), e neppure che fossero agenti israeliani, al di là di “fonti confidenziali” che valgono quello che valgono, cioè nulla. Sul punto, l’onere della prova incombe a chi allega i fatti: come si fa del resto a dimostrare di non essere un agente segreto? Tuttavia qualche indizio si può ricavare dal semplice buon senso. Davvero il Mossad recluterebbe cinque immigrati clandestini ventenni che – non potendo, in quanto clandestini, aprire conti in banca – si tengono 4.700 dollari (secondo 20/20; solo 4.000 secondo l’avvocato Gordon intervistato da Yediot America: ma la sostanza non cambia) nei calzini? Certo, un arrestato aveva due passaporti, uno israeliano e uno tedesco: molti israeliani hanno la doppia cittadinanza e quindi due passaporti. Ma il Mossad non dovrebbe avere difficoltà a procurare ai propri agenti visti e conti in banca che dispensino dall’uso come cassaforte dei calzini. Se poi si fosse trattato di astutissimi agenti del Mossad impegnati in un’operazione segretissima, davvero – contro tutte le regole dello spionaggio – avrebbero attirato l’attenzione su di sé mettendosi a danzare e “dandosi il cinque” in pubblico? Ai negazionisti appare sinistra l’affermazione di uno dei cinque secondo cui intendevano “documentare gli eventi”: ma da quando “documentare gli eventi” equivale ad ammettere di averli causati? Quanto al titolare della Urban Moving Systems, nel clima dei giorni dopo l’11 settembre in cui chiunque fosse straniero, tanto più medio-orientale, doveva affrontare un ambiente piuttosto pesante, c’è da stupirsi se dopo che l’FBI ha passato “ore” nel suo ufficio e gli ha sequestrato tutto, e i suoi dipendenti sono tenuti in isolamento in un carcere di massima sicurezza, pensa bene di levare le tende e tornarsene in Israele?

Se la storia si riduce al fatto che cinque immigrati clandestini israeliani sono stati arrestati e detenuti più a lungo del dovuto nel clima dell’11 settembre e che forse si sono comportati da sciocchi ridendo e agitandosi per qualche fotografia venuta bene, l’unico suo interesse – ancora una volta – sta nel mostrare come certi media, e – in modo patologico – i negazionisti amplifichino e distorcano notizie di non particolare rilevanza. Il suo unico rilievo è per approfondire la psicologia del negazionismo.

Una seconda leggenda, che ogni tanto riappare, è quella degli “studenti d’arte israeliani” che l’agenzia federale anti-droga DEA (Drug Enforcement Administration) comincia a notare nel gennaio 2001 come persone che si presentano in edifici federali o in case private di agenti della DEA per promuovere o vendere – a prezzi esagerati – quadri e altre opere d’arte di cui vantano le qualità ma che sembrano “confezionate” in Cina e di nessun reale valore. Di alcuni si sospetta che raccolgano informazioni sulle attività e gli edifici della DEA. Il rapporto della DEA che è all’origine di questa storia è integralmente pubblicato su cryptome.org, un sito assai controverso per la sua pubblicazione non autorizzata di documenti riservati, ma che non è mai stato accusato – per quanto ne so – di postare documenti falsi.

La frase del rapporto della DEA che più ha attirato l’attenzione dei negazionisti dell’11 settembre è quella secondo cui gli “studenti d’arte”, interrogati, “nella maggior parte dei casi ammettono di avere fatto parte delle forze armate israeliane. Questo non è sorprendente, dal momento che il servizio militare in Israele è obbligatorio. Tuttavia molti degli interrogati hanno riferito di avere fatto parte dell’intelligence militare, del genio elettronico e di unità specializzate in esplosivi. Alcuni avevano collegamenti con ufficiali di grado alto nell’esercito israeliano. Uno era il figlio di un generale a due stelle, uno era stato guardia del corpo del capo dell’esercito israeliano, uno aveva fatto parte di un’unità che operava missili Patriot. Che queste persone vengano negli Stati Uniti a vendere opere d’arte non corrisponde al loro retroterra”. Secondo i negazionisti tutto è chiaro: si tratta di una rete di agenti israeliani che preparano l’11 settembre, tanto più che molti di loro si trovano, vedi caso, nelle stesse città dove si trovano i terroristi (per molti negazionisti, beninteso, “presunti” terroristi) di Al Qaida. In particolare uno degli “studenti d’arte”, Hanan Serfaty, usa a un certo punto per i suoi traffici un appartamento all’indirizzo 4220 Sheridan Street, Hollywood, Florida, a qualche isolato dall’appartamento di 3389 Sheridan Street dove vivono Mohammed Atta (1968-2001) e Marwan al-Shehi (1978-2001), cioè i piloti dei due voti che l’11 settembre colpiranno le Torri Gemelle. Ecco, si dice, la prova definitiva.

Senonché il rapporto della DEA (a parte alcuni dubbi sulla sua natura, di cui faremo cenno) non permette questa conclusione. Hanan Serfaty è arrestato dalla DEA in Sheridan Street a Hollywood, Florida il 1° marzo 2001 mentre Mohammed Atta prenderà in affitto un appartamento nella stessa strada nel maggio dello stesso anno. Anche altri terroristi di Al Qaida hanno abitato a Hollywood in Florida, ma sono tutti arrivati dopo l’arresto di Serfaty e dunque non possono avere avuto contatti con lui per il buon motivo che era in prigione. Quando si tratta di città più grandi di Hollywood il fatto che ci si siano trovati contemporaneamente “studenti d’arte” e terroristi non è statisticamente significativo. Infatti secondo il rapporto della DEA almeno 124 persone hanno fatto parte della banda degli “studenti d’arte” le cui offerte in vendita di quadri sono state segnalate in 57 diverse località degli Stati Uniti. In pratica, giravano tutto il Paese, e siccome anche i terroristi si spostavano spesso non è strano che finissero prima o poi per trovarsi nelle stesse città. Il rapporto, inoltre, non cita prove che si tratti di spie del Mossad e offre piuttosto elementi per concludere che il loro particolare interesse per la DEA (ancorché abbiano visitato uffici e case private di membri anche di altre agenzie federali) deriva probabilmente dal fatto che, oltre che di vendite truffaldine di quadri, la banda si occupa di traffico di ecstasy: uno “studente d’arte” arrestato a Orlando, in Florida, fornisce infatti numerosi “numeri di telefono [della banda] che risultano collegati a inchieste sul traffico di ecstasy in corso negli Stati della Florida, California, Texas e New York”. Del resto il reclutamento di ex membri dei corpi speciali dell’esercito israeliano non è tipico solo dei servizi segreti ma anche di un’altra entità che proviene da Israele ed è ben nota alla DEA: la criminalità organizzata di matrice israeliana.

C’è inoltre un dato che si spiegherebbe difficilmente se si trattasse di agenti del Mossad. È un ex-agente del Mossad da poco in pensione, Shay Ashkenazi, che, secondo il rapporto della DEA, volontariamente denuncia nel 2000 agli agenti dell’Immigrazione americana l’esistenza di una complessa frode per la vendita di opere d’arte di nessun valore a prezzi esagerati negli Stati Uniti da parte di cittadini israeliani, fornendo informazioni che si rivelano del tutto esatte.

Dopo che la rete è sgominata negli Stati Uniti, riappare in Canada, dove alcune delle persone già coinvolte nell’indagine americana sono arrestate nel 2002 e processate nel 2004. Il quotidiano ebraico di New York The Forward – d’ispirazione socialista, frequente fonte di notizie sui servizi segreti israeliani utilizzate da media più diffusi, e lo stesso definito “autorevole” dalla puntata di 20/20 ripresa da tutti i complottisti quando tratta di “israeliani danzanti” – in un articolo del 2004 confessa di avere per un attimo preso sul serio nel 2001 non tanto i collegamenti con l’11 settembre quanto la possibilità che alcuni degli “studenti d’arte” svolgessero in effetti attività di spionaggio. Ma sulla scia del caso canadese riconosce di avere preso – seguito da Fox News, Le Monde e altri media internazionali – un abbaglio. Gli stessi riferimenti a figli di generali e membri di corpi speciali nel rapporto della DEA sembrano ora esagerati, e il rapporto opera di “un funzionario arrabbiato perché i suoi superiori non lo prendevano abbastanza sul serio”, così che le notizie secondo cui gli “studenti d’arte” prendevano particolarmente di mira edifici ed agenti federali sarebbero a loro volta da verificare e forse frutto di esagerazioni. Altre notizie delle solite “fonti confidenziali” secondo cui almeno due degli “studenti d’arte” erano agenti del Mossad si sono pure rivelate false.

È vero che all’epoca diversi gruppi della criminalità organizzata israeliana lottavano fra loro per il controllo del mercato dell’ecstasy, ma il collegamento fra questa lotta e gli “studenti d’arte” rimane ampiamente ipotetico e va esaminato con cautela. L’operazione di vendita di quadri fatti in Cina a cento volte il loro valore, secondo l’indagine canadese, ha garantito profitti notevoli e giustifica da sola l’interesse della criminalità organizzata. Lo stesso esperto di intelligence, Chip Berlet, che nel 2001 affermava che poteva esserci “un granello di verità” nel collegamento fra gli “studenti d’arte” e operazioni di intelligence, nel 2004 dichiara a The Forward che il caso canadese smentisce l’ipotesi. Nessun ente d’intelligence avrebbe infatti continuato l’operazione dopo che del rapporto della DEA si era parlato su molti giornali, né “avrebbe fatto risorgere immediatamente l’operazione in Canada o in qualunque altro Paese. Non si è mai sentito dire che quando un’operazione fallisce la si ricicla immediatamente. Non si fa. Si esporrebbero gli agenti a un rischio troppo alto”. Non si trattava dunque di arte dello spionaggio, ma di vendita truffaldina di cattiva arte.

Il fatto che menzogne e dicerie smentite nel 2002 e nel 2004 continuino a circolare nel 2008 conferma il carattere patologico del Truth Movement. Questi episodi, ancora una volta, non ci dicono nulla di significativo sull’11 settembre. Ma ci dicono molto sui compagni di merende di estrema destra o di estrema sinistra che anche in Italia – talora con l’avallo di qualche vecchio accademico o giornalista un po’ suonato – continuano a spacciare merce che non vale più delle croste cinesi vendute come opere d’arte dai famosi “studenti”, spinti da un furibondo odio contro l’America e l’Occidente che è il vero fenomeno su cui vale la pena d’indagare.