Luigi Manconi, sociologo, già portavoce nazionale dei Verdi e sottosegretario alla Giustizia nell’ultimo governo Prodi, ci offe con Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale, 1970-2008 (Mondadori, Milano 2008) un numero veramente ampio di utili informazioni sulla genesi e il quarantennale divenire del terrorismo italiano, principalmente di estrema sinistra, ma con riferimenti anche all’estrema destra, all’anarco-insurrezionalismo e alla radicalizzazione di alcune frange del tifo calcistico. Il volume sarebbe da raccomandare a chiunque, se non fosse condito con un tono di giustificazione – e di auto-giustificazione per l’appartenenza giovanile dell’autore a un’area extraparlamentare per dire il meno indulgente con il terrorismo – che in altri settori della sociologia farebbe qualificare l’opera come non scientifica. Per definizione, la sociologia dovrebbe essere value-free, libera dai giudizi di valore, e Manconi dovrebbe limitarsi a dire che molti intellettuali della sinistra trovarono giustificazioni per il terrorismo rosso, lasciando al lettore ogni forma di giudizio di merito.
Se poi dal piano scientifico ci si vuole davvero spostare su quello morale e politico, occorre dire che alcuni aspetti del giustificazionismo di Manconi sono inaccettabili: per esempio, una certa confusione fra prescrizione e amnistia (la prescrizione, come sa qualunque studente di giurisprudenza, opera prima della sentenza e “punisce” lo Stato che non sia riuscito ad arrivare a sentenza in tempi ragionevoli; dopo la sentenza non c’è più spazio per la prescrizione), e il solito senso di superiorità morale della sinistra per cui l’ex-amico di terroristi rossi Joschka Fischer sarebbe in una posizione eticamente più accettabile rispetto all’ex-amico di terroristi neri Francesco Storace.
Mi piacerebbe poi sottoporre tutti quelli che distinguono fra comunismo “buono” e comunismo “cattivo”, come fa Manconi nel suo libro, a un test che in qualche modo mi coinvolge personalmente ma che, pur senza pretese di assoluta scientificità, mi sembra comunque piuttosto indicativo. La letteratura accademica internazionale sulla rivoluzione culturale in Cina ha chiarito in via definitiva che durante la rivoluzione culturale i comunisti nei “banchetti di carne umana” organizzati in diverse regioni mangiavano i bambini (e gli adulti), non per fame ma per ideologia. Lo ha stabilito sulla base di indagini svolte non da Berlusconi, ma dalla polizia della Repubblica Popolare Cinese e di processi celebrati di fronte a giudici della stessa Repubblica Popolare Cinese (in una breve stagione, perché poi le autorità si resero conto delle implicazioni e si fermarono). Dopo che ho scritto qualcosa di questo in Italia, in particolare sul Domenicale, si è scomodato – accanto a qualche minores – financo Umberto Eco per giudicare incredibile che ci sia ancora qualcuno che prende sul serio le fanfaluche propagandistiche di Berlusconi sul fatto che i comunisti mangiavano i bambini. Spiegare che non si tratta di Berlusconi ma di giudici comunisti cinesi non serve, perché gli Umberto Eco di questo mondo pensano di avere in mano abbastanza potere culturale per censurare notizie come queste. Solo il giorno in cui Manconi, Eco e tanti altri ammetteranno che sì, i comunisti mangiavano i bambini, li mangiavano perché erano comunisti, quindi c’è qualche cosa di intrinsecamente perverso nel comunismo che porta a mangiare i bambini, allora potranno parlare seriamente di riconciliazione nazionale, perdono e altri temi evocati nel volume che ci occupa. Da questo punto di vista, esattamente al contrario di quanto sostiene Manconi, la destra italiana (compresa nella sua stragrande maggioranza La Destra, con le iniziali maiuscole) è più avanti della sinistra perché ha isolato i negazionisti dell’Olocausto e ammette che i nazisti gasavano i bambini, li gasavano perché erano nazisti e c’era dunque qualcosa di diabolico nel nazismo che portava a gasare i bambini.
Al di là delle valutazioni morali, mi sembra invece meritevole di riflessione il discorso di Manconi secondo cui il terrorismo delle Brigate Rosse sarebbe politico, operaistico e nella sua ultima fase maniacalmente concentrato sui giuslavoristi e sui problemi del precariato, così che i pericoli oggi si troverebbero in frange dei movimenti dei precari e non (più) nelle fabbriche, mentre il terrorismo “anarco-insurrezionalista” (che nella sostanza, contro i detrattori dell’ex-ministro Pisanu, che spesso lo evocava, per Manconi esiste) cercherebbe i suoi adepti in movimenti localisti ed ecologisti come i no-Tav in Piemonte o gli anti-Enel in Sardegna. Ancora più interessante è la tesi secondo cui, diventando meno rilevante e più minuscolo, il terrorismo brigatista diventerebbe “più terrorista”, nel senso che come altri terrorismi sarebbe più disposto a sparare nel mucchio e a colpire non un Moro o un Biagi ma un qualunque passante.
Più discutibile è il capitolo finale sulle differenze fra le Brigate Rosse e Al Qaida. La letteratura citata è davvero molto esile, con un uso smoderato del libro su Al Qaida di John Gray, che non è esattamente un capolavoro ed è molto discusso. Non c’è dubbio che il terrorismo di Al Qaida sia (veramente) religioso e quello delle BR sia (veramente) marxista-leninista, e che quindi i due in teoria non siano compatibili: qui Manconi sfonda una porta aperta, anche se tra i suoi sodali politici naturalmente si trova ancora qualcuno disposto a negare sia l’una sia l’altra premessa.
Tuttavia, dove Manconi a mio avviso sbaglia – o meglio, propone con toni di certezza affermazioni molto problematiche – è quando afferma che non c’è nessuna linea di comunicazione vera fra terrorismo marxista-leninista e terrorismo islamico, e che il super-terrorista venezuelano Carlos si è convertito all’islam solo in carcere “quando non era più in condizioni di nuocere”. Le obiezioni di solito sollevate nei confronti della cosiddetta “dottrina Carlos”, esposta nelle opere del terrorista e che postula una collaborazione fra terroristi di estrema sinistra e musulmani, sono altre, e cioè che Carlos è ormai una figura irrilevante nel panorama terroristico internazionale. Non credo che sia così, ma non è questa la tesi di Manconi. Sostenere che dal carcere uno “non è in condizioni di nuocere” è un po’ ingenuo, dal momento che dal carcere Carlos scrive libri, ispira un sito Web e ha perfino fatto un figlio. Forse uno è messo in “condizioni di non nuocere” a Guantanamo, ma non nelle accoglienti carceri francesi. Resta poi il fatto che Carlos aveva contatto con filière terroristiche musulmane già quando era a piede libero e prima della conversione formale all’islam.
Certo, le affermazioni dei (nuovi) brigatisti che sentono l’11 settembre come una loro vittoria sono ingenue, come scrive Manconi. Ed è anche vero che non c’è nulla che le piccole Brigate Rosse del 2008 possano fare per trovare Al Qaida e farsi prendere sul serio da Al Qaida. Tuttavia questa affermazione va completata da un “ma” che Manconi non considera e che può essere enunciato così: a meno che non sia Al Qaida o qualche intermediario che lavora di concerto con Al Qaida a decidere di prendere contatto con le Brigate Rosse.
La lettura dell’ultimo libro (duramente anti-americano, così che non si tratta dell’opera di un fan della “guerra al terrorismo”, piuttosto del suo contrario) del sociologo Olivier Roy, Le Croissant et le chaos, sul punto potrebbe fare venire dei dubbi a Manconi. In particolare Roy sottolinea due aspetti. Il primo è il ruolo dei servizi iraniani nel pescare nel torbido anche delle più sgangherate cellule “fai da te” che operano in Occidente, e il fatto che i servizi venezuelani siano ormai legati a filo doppio ai servizi iraniani. La questione (su cui Manconi ha opinioni radicate e sostanzialmente negative) se servizi stranieri abbiano avuto un ruolo importante o meno nella storia delle Brigate Rosse degli anni 1970 è totalmente separata da quella se i servizi del Venezuela, tramite associazioni di difesa o anti-imperialiste che inneggiano a Chavez, ovvero i servizi iraniani, direttamente o tramite Hezbollah, siano in grado oggi di entrare in contatto con aree insurrezionaliste marxiste in Italia o altrove. Anche se uno crede che le Brigate Rosse del 1978 non avessero niente a che fare con il KGB, non ha con questo risolto la questione di che cosa farebbero le Brigate Rosse del 2008 qualora arrivassero loro delle offerte di collaborazione da parte dei servizi venezuelani o di Hezbollah, nel quadro di un gioco le cui fila sono mosse da Teheran.
Il secondo aspetto sollevato da Olivier Roy è lo scontro interno avvenuto qualche anno fa in Al Qaida fra i “puristi” di Zarqawi che non volevano collaborare se non con puri sunniti di scuola hanbalita (e tagliare la gola o la testa a tutti gli altri) e i “pragmatici” guidati dallo stesso Osama bin Laden, disposto invece a collaborare sia con gli sciiti (e con i servizi iraniani) sia con la criminalità comune internazionale e i terroristi non islamici quando gli servivano. Chi ha vinto è chiaro: Zarqawi è stato impacchettato e consegnato, sostanzialmente, agli americani da Bin Laden con il risultato che nel 2006 è morto ammazzato e non c’è più una leadership della “seconda generazione di Al Qaida” evocata da Zarqawi in un suo libro-intervista. Semmai c’è oggi una “terza generazione di Al Qaida” che è quella delle cellule fai-da-te europee, che danno occasionali problemi alla cupola dell’organizzazione di Bin Laden: ma questo è un altro discorso.
La domanda da porsi è: quali organizzazioni terroristiche o criminali non sunnite o anche non islamiche Al Qaida utilizza oggi per perseguire i suoi scopi? La risposta è: quelle che esistono, e quelle che gli servono. Se le Brigate Rosse dopo gli arresti del 2007 sono ridotte quasi a nulla e non esistono più, Al Qaida non andrà a cercare le Brigate Rosse (in tal caso, se avesse bisogno di appoggi logistici in Italia. contatterebbe magari la camorra o la criminalità organizzata cinese, secondo modelli che ha già brillantemente usato altrove). Se invece, come in Jurassic Park, “qualcosa sopravvive” delle Brigate Rosse qualora Al Qaida avesse bisogno di favori in Italia prenderà – direttamente o tramite qualche organizzazione anti-imperialista ben infiltrata dai servizi del Venezuela o dell’Iran – i contatti che le servono, quando servono e dove servono: perché la liquidazione di Zarqawi del 2006 indica precisamente che la cupola di Al Qaida intende avere le mani libere e trattare con chiunque prescindendo da ogni considerazione ideologica o religiosa. Se Al Qaida non si servirà delle Brigate Rosse, qualora volesse agire in modo più incisivo di quanto ha fatto finora in Italia, questo non avverrà come pensa Manconi perché le Brigate Rosse sono composte da infedeli atei e marxisti ma perché avrà concluso che le attuali Brigate Rosse sono troppo minuscole e sgangherate per interessare a un’organizzazione (come Manconi riconosce) ben altrimenti efficace com’è quella di Bin Laden. Se invece le Brigate Rosse, pure ridotte nel numero dei militanti, dovessero raggiungere un livello di efficacia operativa tale da poter essere un partner interessante per Al Qaida, il loro marxismo non sarà un problema.
Al di là delle formule, la “dottrina Carlos” non è nient’altro che questo. E la “dottrina Carlos” riposa sulla premessa che le decisioni sulle collaborazioni le prende l’organizzazione più grande e potente, cioè Al Qaida, e non i soci di minoranza con cui Al Qaida di volta in volta collabora. Manconi ha ragione quando scrive che, inneggiando ad Al Qaida nei suoi proclami, la brigatista Nadia Desdemona Lioce non si fa prendere sul serio da Bin Laden. La signora Lioce non ha nessun modo per arrivare a Bin Laden. Ma non è vero il reciproco. Se Bin Laden (o chi per lui) decidesse che gli amici della signora Lioce gli servono, e che sono abbastanza organizzati, ancorché pochi di numero, per potergli rendere qualche servigio, sarà lui a contattarli, infischiandosi allegramente della loro ideologia, dal momento che utilizza regolarmente trafficanti di droga internazionali e mafiosi uzbeki, che dal punto di vista ideologico-morale forse gli piacciono ancora meno dei marxisti-leninisti italiani.