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Una magia senza maghi. Recensione di Medioevo magico di Graziella Federici Vescovini

di Massimo Introvigne

imgDavvero il Medioevo è l’epoca per eccellenza della magia? Ma quale magia? Praticata da quali “maghi”? Forse nessuno è qualificato per rispondere a queste domande più di Graziella Federici Vescovini, ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università di Firenze e autrice di una lunga serie di opere fondamentali sulla magia e l’astrologia del Medioevo. Medioevo magico. La magia tra religione e scienza nei secoli XIII e XIV (UTET, Torino 2008) è l’opera di un vita: si costruisce sugli studi monografici precedenti dell’autrice, ma li ripresenta – insieme a materiale nuovo – in una visione di sintesi. Il percorso (a differenza di questa recensione) è solo parzialmente cronologico, dal momento che la Federici Vescovini organizza la sua materia secondo nuclei tematici che riguardano rispettivamente le fonti, i demoni e gli angeli, la nozione di “occulto”, i rapporti fra magia e religione e quelli fra magia e scienza. Il quadro d’insieme che ne emerge è tuttavia tendenzialmente completo.

Certamente il Medioevo ha conosciuto gli scritti ermetici, attribuiti al mitico Ermete Trismegisto, e i libri da questi derivati – in buona parte prodotti da musulmani – su cui si fonda la tradizione dell’occultismo propriamente detto: la Picatrix, la Tavola di smeraldo, il Secretum secretorum e via via fino al famigerato Liber vacce, opera di alchimia redatta in Persia nel IX secolo e che prende il titolo dal sangue di animali usato in rituali che dovrebbero arrivare fino a trasformare gli uomini in scimmie e perfino in demoni. Tuttavia questi testi conoscono un’eclissi quasi totale nel Medioevo cristiano: se ne parla solo in elenchi di libri condannati, e non esercitano alcuna influenza di rilievo sul pensiero medievale, mentre saranno decisivi per il Rinascimento. Anche i libri, nati in ambiente ebraico, della magia cosiddetta “salomonica” – come il Liber Raziel o la Clavicola di Salomone – hanno una circolazione molto limitata tra i cristiani, e sono citati principalmente per riprovarli, almeno fino al secolo XV. Emerge già qui la tesi dell’autrice secondo cui il mago nel senso moderno del termine non è un personaggio medievale, ma nasce con il Rinascimento. Il Medioevo conosce la magia ma solo occasionalmente – se li s’intende in questo senso – i maghi, che restano casi isolati ed eccezionali. Da una parte ne diffida. Dall’altra fino al XIV secolo non li teme, perché immagina che il contesto sociale e culturale consenta d’isolarli. Per questo la loro repressione è tutto sommato blanda, fino alla crisi del Trecento in cui i maghi saranno insieme più presenti e più temuti, creando il clima in cui maturano le condanne al rogo di Cecco d’Ascoli (ca. 1257-1327) a Firenze e di Jean de Bar (?-1398) a Parigi.

Il Medioevo cristiano si è certamente interessato dell’azione sulla natua degli angeli e dei demoni. Guglielmo d’Alvernia (1180-1249), vescovo di Parigi dal 1228 al 1249, esercita un’enorme influenza con la sua distinzione fra “magia naturale” – collegata a proprietà “occulte” delle realtà fisiche, che non si è in grado oggi di capire e spiegare con la ragione ma che potranno essere comprese in futuro – e “magia demoniaca”, in cui si cerca di profittare dell’azione di spiriti o demoni. In realtà Guglielmo cita la seconda magia allo scopo di condannarla. Tuttavia, nota la Federici Vescovini, la sua nozione di “magia naturale” è ambigua: perché sostiene, o almeno non esclude, che le proprietà “occulte” ci siano nelle cose perché in esse sono presenti o influenti demoni, rendendo così la distinzione meno chiara di quello che sembrerebbe a prima vista. Si spiega così la fortuna di un personaggio inquietante come Michele Scoto (ca. 1175 - ca. 1232), il quale, secondo Dante Alighieri (1265-1321) che lo ricorda nel canto XX dell’Inferno, “delle magiche frodi seppe il gioco”.

Michele Scoto protesta sistematicamente la sua ortodossia, e dichiara di accettare la condanna ecclesiastica delle forme di magia proibite. Tuttavia, su una base neoplatonica, offre a chi lo sappia leggere un completo manuale per costringere i demoni – e anche gli angeli – a fare la volontà del mago. Appare quindi come un personaggio che per molti versi anticipa il Rinascimento. Contro Michele Scoto si manifesta la reazione di san Tommaso d’Aquino (ca. 1227 -1274) e del suo amico Vitellione (ca. 1230 - dopo il 1270) – il quale però affronta l’intera problematica in modo più decisamente razionalista. Se per Vitellione la maggior parte dei fenomeni attribuiti ai demoni possono essere ricondotti a illusioni ottiche o ad allucinazioni di malati, san Tommaso imposta rigorosamente la questione dei prodigi dei demoni in una chiave anti-platonica (o, più precisamente, anti-neoplatonica), salvaguardando con fermezza la dottrina cattolica sull’esistenza e l’azione del demonio ma nello stesso tempo sostenendo che i suoi poteri sono limitati e che è del tutto escluso che, con questa o quella tecnica, sia possibile a un operatore umano controllarlo e comandarlo.

Peraltro, anche dopo san Tommaso la teoria – questa sì “magica” – della possibilità attraverso tecniche o riti di controllare gli spiriti continua a ripresentarsi in ambienti neoplatonici, come dimostra l’opera a Malines di Enrico Bate (attivo fra il 1281 e il 1305), il quale pensa che – se pure non si possano comandare i demoni dell’Inferno – sia però possibile e non illecito cercare di evocare e mettere al proprio servizio le anime dei morti e altri spiriti non malvagi. Si afferma in questi anni la distinzione fra necromanzia (da necros, morto), evocazione dei morti, e negromanzia (da niger, nero), evocazione degli spiriti “neri”, cioè dei demoni. La corrente che considera la necromanzia, a differenza della negromanzia, possibile e anche lecita resta però minoritaria, come emerge dalla grande consultazione sulla magia promossa dal pontefice Giovanni XXII (1249-1334) nel 1320, nel corso della quale – in un periodo turbolento dal punto di vista politico e teologico – sono raccolte numerose opinioni. La consultazione è essa stessa un segno dei tempi: se l’opinione sulla magia in senso stretto continua a essere generalmente negativa, cominciano a emergere preoccupazioni sulla presenza anche fra i dotti (e non solo fra il popolino) di veri e propri negromanti, il che porta a prospettare la possibilità di condannare la magia non come mera superstizione ma come eresia, punita assai più severamente. Tuttavia un necromante – se non negromante – esplicito come Antonio da Montolmo (attivo fra il 1360 e il 1396) ancora nel Trecento potrà insegnare per anni a Bologna, Padova e Mantova, sfuggendo incredibilmente – il che è “veramente un problema storico da studiarsi meglio” (p. 220) – a ogni sanzione.

Le sanzioni verranno quando esploderà la questione dell’oroscopo delle religioni, che porterà la questione della magia a intrecciarsi con quella dell’astrologia. A quest’ultima – un tema di cui, con riferimento al Medioevo, la Federici Vescovini è forse la maggiore esperta contemporanea a livello internazionale – è dedicata quasi metà dell’opera. Il Medioevo pensava di avere risolto la questione della compatibilità fra astrologia e cristianesimo distinguendo fra astrologia giudiziaria o deterministica e astrologia meramente probabilistica. L’astrologia deterministica degli antichi – secondo cui l’influsso degli astri costringe gli uomini a fare o non fare qualcosa – è incompatibile con il cristianesimo e la sua nozione della libertà. Ma la fede cristiana dei medievali non esclude invece che gli astri esercitino un loro influsso come “inclinazione”, che la libertà dell’uomo può accettare o rifiutare: astra inclinant, non necessitant. Del resto – argomentano i maggiori esponenti del pensiero medievale, pur con differenze e sfumature fra loro – lo studio dell’influsso degli astri è essenziale non solo per l’astronomia e la meteorologia, ma anche per la medicina (in quanto l’oroscopo aiuta a conoscere la personalità e i problemi del malato). Agire tenendo conto dell’influsso degli astri è lecito – e fa parte, se si vuole, della “magia naturale” (ma il termine a partire da Guglielmo d’Alvernia è diventato, come si è visto, ambiguo) – purché non s’immagini che gli astri siano totalmente controllati da spiriti o demoni che possono essere evocati dal mago (in questo caso la magia “destinativa”, cioè “destinata” a influenzare queste entità, diventa negromanzia illecita).

La Federici Vescovini illustra questa problematica con l’esempio dei Sigilli attribuiti ad Arnaldo di Villanova (ca. 1240-1311), medico personale del papa Bonifacio VIII (ca. 1230-1303). Arnaldo, il più famoso medico del Medioevo, è celebre per avere guarito il suo illustre paziente dal mal di reni tramite un amuleto o “sigillo” ispirato alla costellazione del Leone. Il pontefice, grato, lo protegge da una condanna che si riferisce però alle sue teorie millenaristiche, non alle sue idee sulla medicina. Anche se l’attribuzione dell’opera sui sigilli è controversa, le idee sembrano quelle di Arnaldo. I “sigilli” nel Medioevo sono sospetti perché – come altre immagini o talismani – sono oggetto d’incantamenti e fumigazioni in cui spesso effettivamente l’operatore cerca di entrare in contatto con gli spiriti che vi sono raffigurati (o, come alcuni credono, imprigionati). Ma – argomenta l’autrice – non è questo il caso dell’opera attribuita ad Arnaldo. È vero che questi sigilli si riferiscono allo zodiaco e devono essere preparati in tempi astrologici particolari nonché con materiali (tra cui l’oro) ritenuti dotati di proprietà “occulte”. Tuttavia – anziché incantamenti ai demoni – Arnaldo raccomanda la recitazione di preghiere inequivocabilmente cristiane e di salmi, così che la funzione dei sigilli sarebbe in fondo del tutto analoga a quella delle “medagliette” ancora in uso oggi nella pietà del popolo cattolico.

Ma rimane una certa ambiguità, tanto più quando ci si chiede se la validità degli oroscopi si estende a entità collettive: non solo gl’imperi, ma anche le religioni. Questa delicata tematica risale a un astrologo musulmano, Albumasar (786-886), il quale sulla base di una teoria delle grandi congiunzioni astrali propone un oroscopo delle diverse religioni, il cui scopo principale è prevedere l’avvento funesto di una “sesta setta” malvagia che abbatterà l’impero islamico. I cristiani, fra cui Ruggero Bacone (1214-1294), si servono di Albumasar per cercare di calcolare attraverso le congiunzioni di Giove la data dell’avvento dell’Anticristo. Sul punto dibatteranno ancora gli astrologi cristiani sul finire del Medioevo, tra cui il cardinale Pierre d’Ailly (1350-1420), il quale cercherà di confutare l’opera dell’ebreo Abramo Savosarda (Abraham bar Iya, attivo nel XII secolo, di cui si sa peraltro pochissimo) secondo il quale la teoria di Albumasar sulle congiunzioni di Giove, una volta corretti alcuni calcoli, consente di prevedere la prossima restaurazione del popolo d’Israele nella sua potenza visibile di popolo eletto. Senonché, nel percorso che va dal musulmano Albumasar all’ebreo Savosarda e oltre, si comincia a insistere sull’oroscopo di Gesù Cristo, il quale secondo questi non cristiani sarebbe nato – e con lui il cristianesimo – in coincidenza con la grande congiunzione di una “triplicità” tra i segni di terra (Toro, Vergine e Capricorno) la quale inizia nel segno della Vergine e indica sortilegio e incantazione (per Savosarda, anche l’oroscopo di Muhammad, ca. 570-632, manifesta del resto come il fondatore dell’islam sia nato sotto il segno dello Scorpione in una congiunzione che indica empietà e falsità). Di qui a sostenere che Cristo è controllato dagli astri (e non viceversa), rovesciando la visione cristiana in una propriamente magica che torna al determinismo astrologico, non c’è che un passo.

Ed è questo il passo che compie Cecco d’Ascoli, cui è dedicato un denso capitolo il quale mostra anzitutto il carattere anacronistico delle teorie che ne fanno un martire del “libero pensiero”, in gran parte fondate su “documenti” apocrifi che risalgono al Seicento, se non al Settecento o addirittura all’Ottocento. Sulle ragioni della condanna al rogo di Cecco d’Ascoli il dibattito continua, e non tutto è chiarito. Tuttavia l’autrice mette in luce da una parte come Cecco si avventuri sul terreno infido, che origina da Albumasar e Savosarda, dell’oroscopo di Gesù Cristo – qualche cosa che la Chiesa non poteva assolutamente accettare, sia per le origini anticristiane della tematica, sia perché si tornava così al determinismo astrologico –, dall’altra come sia sospettato, con buone ragioni, di praticare non solo la necromanzia e forme di evocazione che utilizzano le ossa e i cadaveri dei morti ma anche “dottrine che dovevano essere terribili” (p. 283) sull’evocazione di “spiriti immondi” – “magia nera” e negromanzia, dunque, e non solo necromanzia (ibid.) – non escludendo alla bisogna neppure i sacrifici umani. Con il che, si potrebbe aggiungere, Cecco anticipa il satanismo moderno che nascerà solo nel XVII secolo alla corte di Luigi XIV (1638-1715) in Francia. Ma alla Federici Vescovini interessa soprattutto mostrare come, quando gli astri sono collegati ai demoni, tornano in gioco insieme l’astrologia deterministica – che il cristianesimo medievale sembrava avere sconfitto – e la magia nera. Il Rinascimento criticherà il Medioevo per avere dato fiducia a una scienza del mero probabile come l’astrologia non deterministica – mentre per gli orgogliosi rinascimentali la scienza dovrebbe essere sempre scienza della certezza –, con due esiti opposti a seconda dei vari autori: o la liquidazione dell’astrologia, o il ritorno al determinismo astrologico.

Prima che questo avvenga – e dopo che Taddeo da Parma (attivo a Bologna tra il 1318 e il 1321, poi per qualche anno a Siena) ha offerto l’ultimo grande attacco medievale, fondato su Aristotele letto tenendo ampio conto di Averroè (1126-1198), alla magia presentata come “falsa matematica” e denunciata raccogliendo nel contempo prezioso materiale sulla sua diffusione all’epoca – la ricchezza del dibattito sull’astrologia è documentata dalla Federici Vescovini attraverso due autori di cui, nella sua carriera di studiosa, si è ampiamente occupata: Pietro d’Abano (ca. 1248-1250 - dopo il 1315) e Biagio Pelacani da Parma (1357-1416). L’autrice non nasconde la sua simpatia per Pietro d’Abano, oggetto a suo avviso dopo la morte d’interpretazioni totalmente fuorvianti come mago o stregone, e della cui condanna in vita da parte della Chiesa sappiamo molto poco. Pietro in realtà sarebbe stato soprattutto un grande medico e un sostanziale difensore della tradizionale dottrina medievale dell’astrologia, ai suoi tempi ormai attaccata da più parti, contro il ritorno del determinismo. Se pure si serve di amuleti e formule astrologiche, Pietro ritiene che queste agiscano sull’immaginazione del malato – non sui demoni o sugli spiriti che governano gli astri – ponendosi così alle origini della medicina psicosomatica. Alle origini pure del ciclo di affreschi astrologici del Palazzo della Ragione a Padova, le teorie di Pietro d’Abano rischiano semmai di spingersi troppo in là in senso razionalista, come quando nega che la malinconia sia causata dai demoni (una teoria alla sua epoca maggioritaria) o cerca spiegazioni naturalistiche di alcuni miracoli del Vangelo: di qui, probabilmente, le condanne.

Ben al di là di Pietro d’Abano si spinge Biagio Pelacani, detto dai contemporanei il doctor diabolicus. Prima di comparire nel 1396 di fronte al vescovo di Pavia – che si limita peraltro a chiedergli di ritrattare alcune tesi – Biagio propone un’astrologia materialistica, che vede il mondo dominato dagli astri che sono però semplici manifestazioni della natura, in un quadro che nega l’immortalità dell’anima e tende all’ateismo. Dopo il 1396 Biagio non solo si fa più prudente, ma sostiene anche che il suo sistema permette di pervenire all’unico argomento solido – da lui definito “argomento colorato” – per provare l’esistenza di Dio, inteso come volontà suprema che deve trovarsi all’origine dell’azione degli astri. Ma Dio, se c’è, si limita a un impulso iniziale nei confronti di un mondo da cui poi si ritira, così che Biagio anticipa propriamente i libertini del Seicento e i deisti del Settecento.

Con autori come Biagio ci troviamo dunque ormai nell’autunno del Medioevo, anche se ancora del tutto medievale è la blanda repressione della Chiesa, che in fondo si accontenta di una ritrattazione piuttosto formale. Non andrà così dopo la fine del Medioevo. Ma la repressione della stregoneria è l’altra faccia della medaglia rispetto all’esaltazione rinascimentale della magia: un’esaltazione già tutta moderna, e che con il Medioevo ha ben poco a che fare. I medievali, nella loro grande maggioranza e con eccezioni come Michele Scoto che confermano la regola, se parlano – talora ambiguamente – di una “magia naturale” che incita a scoprire le meraviglie e i portenti sconosciuti della natura, se credono nella possibilità di un’astrologia non deterministica, se usano (ma rivestendoli di un significato cristiano) sigilli e medaglie, se dedicano grande attenzione ai segni e ai simboli, tuttavia – o almeno questo vale per la linea principale della cultura del Medioevo – non perdono mai di vista la bussola della fede cristiana, incompatibile con l’opera e la mentalità di quelli che dal Rinascimento in poi saranno chiamati, nel senso moderno del termine, maghi.

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