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La TFP e il Concilio «integrale»

di Massimo Introvigne

imgIl Concilio «integrale»

Quando finisce il postconcilio? Nel capitolo precedente di questa ricerca ho assunto convenzionalmente come data limite dell’epoca postconciliare la fine del pontificato di Paolo VI (1897-1978), cioè il 6 agosto 1978. Naturalmente, ogni data convenzionale non può essere soddisfacente. Se per postconcilio intendiamo, come abbiamo fatto finora, quegli anni – secondo l’espressione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger – «decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica» (Messori 1985, 27), in cui l’interpretazione del Concilio è stata dominata – e qui a parlare è lo stesso cardinale, divenuto però nel frattempo Papa Benedetto XVI – da una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» (Benedetto XVI 2005), che ha letto il Vaticano II non secondo ma contro tutta la tradizione precedente della Chiesa, il postconcilio finisce quando il magistero della Chiesa si accorge del ruolo rovinoso di questa ermeneutica, la denuncia pubblicamente e ne propone un’altra sostitutiva. Ma perché questa denuncia e questa proposta abbiano effetto, occorre pure che diventino sufficientemente note ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai laici.

La prima condizione – l’identificazione e la denuncia del problema della «ermeneutica della discontinuità e della rottura» da parte del magistero – inizia, a rigore, già con Paolo VI. Una delle espressioni più chiare della percezione della crisi da parte di Papa Montini si trova nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972, in cui si denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto» (Paolo VI 1972). L’interpretazione «falsa e abusiva» del Concilio non ha di mira nulla di meno, secondo Paolo VI, di una «dissoluzione del magistero ecclesiastico: sia equivocando sul pluralismo, concepito come libera interpretazione delle dottrine e coesistenza indisturbata di opposte concezioni; sulla sussidiarietà, intesa come autonomia; sulla Chiesa locale, voluta quasi staccata e libera, e autosufficiente; sia prescindendo dalla dottrina, sancita dalle definizioni pontificie e conciliari. Non si può non vedere che tale situazione produce effetti assai penosi e, purtroppo, pericolosi per la Chiesa» (ibidem). Nello stesso discorso il Pontefice cita come esempio di questa «rottura», con evidente anche se implicito riferimento all’America Latina, il caso di «alcuni, poi, [che] giungono a subire e a predicare il fascino della violenza, nuovo mito che si affaccia alla inquieta coscienza moderna: esso è l’apologia del fatto compiuto, della “liberazione” che non sempre è interpretazione della libertà evangelica, che nasce dalla verità e dalla carità [...], ma spesso è eufemismo che copre metodi eversivi; questo fascino inoltre avalla talora il mimetismo delle sociologie a-cristiane, reputate le sole efficaci, con cieca fiducia e senza antiveggenza delle conclusioni a cui conducono; esso non resiste alla seduzione del socialismo» (ibidem).

Tuttavia, né questo né altri simili interventi di Paolo VI segnano chiaramente il passaggio a una fase nuova, perché si tratta di appelli la cui eco nei media e nel mondo cattolico rimane sostanzialmente limitata. Per Papa Montini – nel lungo e cupo periodo del dissenso inaugurato dalla contestazione contro l’enciclica Humanae vitae del 1968 – questo diventa motivo di profonda sofferenza, in una stagione assai difficile per la Chiesa. La stessa influenza attribuita da molti storici al Papa bresciano sulle vicende italiane sembra conoscere – per usare un’espressione teologica – il momento di massima kenosis («abbassamento») nel 1978 quando, come ha ricordato in un acuto commento pubblicato nel trentesimo anniversario di quei fatti Giuliano Ferrara, in dieci giorni che cambiano per sempre l’Italia il 9 maggio le Brigate Rosse uccidono l’amico di sempre del Pontefice, Aldo Moro (1916-1978) – che invano Papa Montini ha cercato di salvare –, e – dopo le elezioni politiche del 14 maggio – il 18 maggio è approvata definitivamente dal Senato, nel primo atto ufficiale del nuovo Parlamento, la legge 194 che legalizza l’aborto (Ferrara 2008).

Paolo VI muore meno di tre mesi dopo, il 6 agosto. Secondo la stessa analisi di Giuliano Ferrara si chiude il quindicennio conciliare e postconciliare, e (dopo la breve parentesi di Giovanni Paolo I, 1912-1978, Papa per soli trentatré giorni) si apre con Giovanni Paolo II (1920-2005) «un altro capitolo mondiale del cattolicesimo» (Ferrara 2008). Ma anche questo non avviene certo in un giorno. Da una parte Giovanni Paolo II inizia dai suoi primi discorsi, e dal primo dei suoi innumerevoli viaggi apostolici – che lo porta dal 25 gennaio al 1° febbraio 1979 nelle Bahamas, nella Repubblica Dominicana e in Messico, dove partecipa alla III Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano a Puebla –, a intervenire sul tema dell’interpretazione del Concilio. Dall’altra, è necessario leggere nel suo insieme l’immenso corpus di documenti e discorsi del lungo pontificato di Giovanni Paolo II per ricavarne una visione globale in tema di Concilio e postconcilio. Né si tratta di un semplice tema tra i molti di cui il Papa polacco si è occupato. Al contrario, fin dal primo radiomessaggio urbi et orbi, nel giorno successivo all’elezione al soglio pontificio, Giovanni Paolo II si assume il «formale impegno» di dare «la più esatta esecuzione delle norme e degli orientamenti del medesimo Concilio»; e a proposito della Costituzione dogmatica Lumen Gentium dà subito un’indicazione di come intenda procedere, invitando a una rigorosa «adesione al testo conciliare, visto nella luce della Tradizione ed in rapporto d’integrazione con le formulazioni dogmatiche anticipate, un secolo fa, dal Concilio Vaticano I» (Giovanni Paolo II 1978).

Nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 6 novembre 1979, Giovanni Paolo II afferma che «una coerente realizzazione dell’insegnamento e delle direttive del Concilio Vaticano II è e continua ad essere il principale compito del pontificato». «[...] L’obbedienza all’insegnamento del Concilio Vaticano II è obbedienza allo Spirito Santo che è dato alla Chiesa, per ricordare ad ogni tappa della storia tutto ciò che Cristo stesso ha detto, per “insegnare alla Chiesa ogni cosa” (cf. Gv 14, 26). L’obbedienza allo Spirito Santo si esprime nell’autentica realizzazione dei compiti indicati dal Concilio, in pieno accordo con l’insegnamento in esso proposto. Non si possono trattare questi compiti come se non esistessero. Non si può pretendere di far retrocedere, per così dire, la Chiesa lungo il corso della storia dell’umanità. Ma non si può neanche correre presuntuosamente in avanti, verso forme di vivere, di intendere e di predicare la verità cristiana e infine verso modi di essere cristiano, sacerdote, religioso e religiosa, che non hanno copertura nell’insegnamento integrale del Concilio, “integrale”, cioè inteso alla luce di tutta la Santa Tradizione e sulla base del costante Magistero della Chiesa stessa» (Giovanni Paolo II 1979b). Da questo discorso, o meglio dal commento che ne proponeva nel dicembre 1979 Giovanni Cantoni, traggo l’espressione «Concilio “integrale”», per indicare appunto un’interpretazione del Concilio «inteso alla luce di tutta la Santa Tradizione e sulla base del costante Magistero della Chiesa» che, ove socialmente diffusa nell’universo cattolico, segnerebbe a tutti gli effetti la fine dei torbidi postconciliari (Cantoni 1979): torbidi di cui fanno parte, come si è illustrato nel capitolo precedente, sia le fughe in avanti progressiste sia le fughe «all’indietro» della branca che Richard John Neuhaus chiama «di destra» dello stesso «partito della discontinuità» (Neuhaus 2007, 177).

Tra i numerosissimi spunti che caratterizzano il magistero di Giovanni Paolo II sull’interpretazione autentica del Concilio, merita di essere particolarmente ricordato anzitutto il tentativo di collegare lo sforzo del Vaticano II di situare la Chiesa nel contesto moderno – o tardo-moderno – a un’interpretazione della storia dell’Europa e dell’Occidente, per la verità non assente nell’insegnamento conciliare ma sparsa in diversi documenti, così che solo un’analisi particolarmente sofisticata (e non alla portata del fedele ordinario) permetterebbe di farla emergere come disegno comune. Il pontificato di Giovanni Paolo II è indissolubilmente legato alla fine dell’Impero sovietico, di cui l’azione del Papa venuto dalla Polonia è stata, per dire il meno, una concausa. Gli avvenimenti del 1989 sono l’occasione per Giovanni Paolo II per riproporre un chiaro giudizio sul comunismo, cui nel 1990 si riferisce come al frutto di «tragiche utopie che hanno provocato un regresso senza precedenti nella storia tormentata dell’umanità» (Giovanni Paolo II 1990). Considerando che la «storia tormentata dell’umanità» ha davvero conosciuto – dalle epidemie di peste alle invasioni dei Mongoli – molte pagine oscure, il giudizio relativo a un regresso «senza precedenti» si traduce in un’espressione fortissima, quasi a compensare – se fosse possibile – quel riferimento al comunismo che molti padri conciliari chiedevano al Vaticano II e che, come abbiamo visto, nei testi del Concilio alla fine non ci fu. E le espressioni forti di Giovanni Paolo II riprendono quelle della Istruzione su alcuni aspetti della «teologia della liberazione» «Libertatis nuntius» pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1984: «Milioni di nostri contemporanei aspirano legittimamente a ritrovare le libertà fondamentali di cui sono privati da parte dei regimi totalitari e atei che si sono impadroniti del potere per vie rivoluzionarie e violente, proprio in nome della liberazione del popolo. Non si può ignorare questa vergogna del nostro tempo: proprio con la pretesa di portare loro la libertà, si mantengono intere nazioni in condizioni di schiavitù indegne dell’uomo. Coloro che, forse per incoscienza, si rendono complici di simili asservimenti tradiscono i poveri che intendono servire» (Congregazione per la Dottrina della Fede 1984, XI, 10).

Ma il crollo del comunismo coinvolge tutto un processo che ha progressivamente allontanato l’Europa da quella sintesi di ragione e fede che faticosamente si era costruita. Secondo la dichiarazione Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato dell’Assemblea Straordinaria per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del 1991 (Assemblea Straordinaria per l’Europa del Sinodo dei Vescovi 1991), «il crollo del comunismo mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista, e mostra coi fatti, oltre che in linea di principio, che non è possibile disgiungere la causa di Dio dalla causa dell’uomo» (per un commento cfr. Cantoni 2008, 25-43).

In secondo luogo, il Concilio Vaticano II – dei cui documenti il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, la cui pubblicazione costituisce un passaggio fondamentale nel pontificato di Papa Wojtyla, offre, secondo l’espressione di Giovanni Cantoni, una completa «organizzazione catechistica» (Cantoni 2008, 57) –, nell’interpretazione autentica di Giovanni Paolo II, «non è stato – secondo lo stesso autore – un inginocchiarsi della Chiesa davanti al mondo moderno, ma il piegarsi, persino l’inginocchiarsi della Chiesa – questo sì – al capezzale di un mondo morente per accompagnarne l’agonia, a esso però sopravvivendo per continuare la propria missione» (ibidem, 58). La formula di Papa Paolo VI nell’allocuzione di chiusura del Vaticano II – «l’antica storia del Samaritano è stato il paradigma della spiritualità del Concilio» (Paolo VI 1965) – diventa, con Giovanni Paolo II, la nuova evangelizzazione. In nessun modo, pure a fronte delle deviazioni del postconcilio, quella di Papa Wojtyla è un’interpretazione «difensiva» del Concilio. Al contrario, l’«apertura» del Concilio è interpretata come missione verso un mondo che, anche nei Paesi di antica civiltà cristiana, si è ampiamente allontanato dalla fede e ha bisogno di una nuova evangelizzazione.

Un testo importante per comprendere l’atteggiamento di Karol Wojtyla a proposito del Vaticano II è il volume da lui pubblicato, quando era cardinale arcivescovo di Cracovia, nel decimo anniversario dell’apertura del Concilio, nel 1972: Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II, la cui traduzione italiana nel 1981 (Wojtyla 1981) costituì un autentico avvenimento culturale. L’allora cardinale Wojtyla riassumeva il messaggio del Concilio nel «postulato dell’arricchimento della fede» (ibidem, 17), una «partecipazione sempre più piena alla verità divina» (ibidem) richiesta, nella temperie culturale della modernità, non solo ai vescovi o ai sacerdoti ma a tutti i fedeli. «L’arricchimento della fede si esprime nelle singole persone e comunità mediante la coscienza e l’atteggiamento» (ibidem, 187): e questo atteggiamento configura per la Chiesa e per ogni fedele uno «stato di missione» (ibidem). L’«apertura» rispetto a una situazione pregressa in cui – certo anche per la pressione del secolarismo – vi era il rischio che il fedele cattolico si ripiegasse su sé stesso proprio mentre la scristianizzazione avrebbe richiesto un forte impegno di testimonianza missionaria è così descritta da Karol Wojtyla: «Forse la tradizionale formulazione: “Accettare come verità tutto ciò che Dio ha rivelato e la Chiesa c’insegna a credere” ha accentuato in modo piuttosto passivo, e prevalentemente recettivo, quell’“accettare”, che nella realtà dei fatti è stato in un certo senso equiparato al termine “professare” e ne ha costituito quasi l’essenza. Il Vaticano II sottolinea esplicitamente che la testimonianza consiste nel credere e nel professare la fede, cioè nell’accogliere la testimonianza di Dio stesso e in pari tempo nel rispondere ad esso con la propria testimonianza» (ibidem, 187-188).

Queste parole, scritte nel 1972 dal cardinale Wojtyla, sono in singolare consonanza con un altro testo fondamentale per la fine del postconcilio, l’intervista dell’allora cardinale Joseph Ratzinger al giornalista italiano Vittorio Messori pubblicata nel 1985 con il titolo Rapporto sulla fede, che ha enorme risonanza in tutto il mondo. «[...] Il Vaticano II – spiega il cardinale Ratzinger – non voleva di certo “cambiare” la fede ma ripresentarla in modo efficace. Voglio dire inoltre che il dialogo con il mondo è possibile solo sulla base di una identità chiara: che ci si può, ci si deve “aprire”, ma solo quando si è acquisita la propria identità e si ha quindi qualcosa da dire. L’identità ferma è condizione dell’apertura. Così intendevano i Papi e i Padri conciliari, alcuni dei quali certamente indulsero a un ottimismo che noi, a partire dalla nostra prospettiva attuale, giudicheremmo come poco critico e poco realistico» (Messori 1985, 34). Dunque una lettura non «difensiva» del Concilio Vaticano II ne coglie il nucleo nella necessità di passare, anche nei Paesi un tempo cristiani – ma ora scristianizzati – da un atteggiamento «piuttosto passivo» a uno di testimonianza missionaria. Ma questa testimonianza è possibile solo sulla base di un’adesione piena e di una proclamazione integrale della verità cattolica.

Qui rispetto agli anni del Vaticano II, spiega nel 1985 il cardinale Ratzinger, «la situazione è cambiata, il clima è molto peggiorato rispetto a quello che sorreggeva una euforia i cui frutti stanno davanti a noi ammonendoci» (Messori 1985, 37). «Non sono i cristiani che si oppongono al mondo. È il mondo che si oppone a loro quando è proclamata la verità su Dio, su Cristo e sull’uomo. Il mondo si rivolta quando il peccato e la grazia sono chiamati con il loro nome. Dopo la fase delle “aperture” indiscriminate è tempo che il cristiano ritrovi la consapevolezza di appartenere a una minoranza e di essere spesso in contrasto con ciò che è ovvio, logico, naturale per quello che il Nuovo Testamento chiama – e non certo in senso positivo – “lo spirito mondano”. È tempo di ritrovare il coraggio dell’anticonformismo, la capacità di opporsi, di denunciare molte delle tendenze della cultura circostante, rinunciando a certa euforica solidarietà post-conciliare» (ibidem, 35). Nei termini della sociologia del «nuovo paradigma» si potrebbe dire che la Chiesa torna a cercare i suoi fedeli in una nicchia caratterizzata da un maggiore livello di strictness, cioè di opposizione ai valori della società dominante. Si tratta di quello che la stessa sociologia chiama un retrenchment, un «ritrinceramento», e che in altro linguaggio a giusto titolo può essere chiamato «restaurazione»? «Se per “restaurazione” – risponde nella stessa lunga intervista il cardinale Ratzinger – si intende un tornare indietro, allora nessuna restaurazione è possibile. [...] Ma se per “restaurazione” intendiamo la ricerca di un nuovo equilibrio, dopo le esagerazioni di un’apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo, ebbene, allora una “restaurazione” intesa in questo senso (un rinnovato equilibrio, cioè, degli orientamenti e dei valori all’interno della teologia cattolica) è del tutto auspicabile ed è del resto già in atto nella Chiesa. In questo senso si può dire che è chiusa la prima fase dopo il Vaticano II» (ibidem, 36).

Come si vede, la gerarchia della Chiesa cattolica – ai suoi massimi livelli – si pone negli anni 1980 il problema di come chiudere «la prima fase dopo il Vaticano II», la stagione di una «certa euforica solidarietà post-conciliare». Di questo passaggio, individua anche alcuni strumenti, fra cui mi limito a ricordarne due. Il primo è il riequilibrio tra le nozioni di Chiesa intesa rispettivamente come «popolo di Dio» e come «Corpo di Cristo». Il Concilio, è vero, aveva avuto una sua «insistenza» sulla nozione di «popolo di Dio», «la quale, però, nei testi conciliari – così il cardinale Ratzinger – è in equilibrio con altre che la completano; un equilibrio che è andato perduto presso molti teologi. Eppure, a differenza di quanto pensano costoro, in questo modo si rischia di tornare indietro piuttosto che andare avanti. Qui c’è addirittura il pericolo di abbandonare il Nuovo Testamento per ritornare nell’Antico. [...] Infatti “popolo di Dio” rinvia sempre all’elemento vetero-testamentario della Chiesa, alla sua continuità con Israele. Mentre la Chiesa riceve la sua connotazione neo-testamentaria più evidente nel concetto di “Corpo di Cristo”. Si è Chiesa e si entra in essa non attraverso appartenenze sociologiche, bensì attraverso l’inserzione nel corpo stesso del Signore per mezzo del battesimo e dell’eucaristia. Dietro il concetto oggi così insistito di Chiesa come solo “popolo di Dio” stanno suggestioni ecclesiologiche le quali tornano di fatto all’Antico Testamento; e anche forse suggestioni politiche, partitiche, collettivistiche» (Messori 1985, 47).

Il secondo strumento è una forte riaffermazione del ruolo della devozione mariana e la valorizzazione della scelta nei documenti del Vaticano II di collocare la Madonna al centro del magistero sulla Chiesa contro chi si serve dell’evento mediatico conciliare per insinuare in modo del tutto falso e pretestuoso che, non dedicando a Maria un documento specifico e separato, il Concilio avrebbe voluto sminuirne il ruolo. «Bisogna tornare a Maria – incalza il cardinale Ratzinger – se vogliamo tornare a quella “verità su Gesù Cristo, sulla Chiesa, sull’uomo” che Giovanni Paolo II proponeva alla cristianità intera, presiedendo nel 1979 a Puebla la Conferenza dell’Episcopato latino-americano [...]. Proprio in quel Sud America dove la tradizionale pietà mariana del popolo declina, il vuoto è riempito da ideologie politiche» (Messori 1985, 106).

Si situano qui anche i rapporti, per così dire, privilegiati del pontificato di Giovanni Paolo II con due aspetti della devozione mariana cui abbiamo già fatto cenno in relazione al suo predecessore Pio XII (1876-1958): le apparizioni mariane di Fatima, del 1917, e la «vera devozione alla Santa Vergine» di san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716). Giovanni Paolo II non è solo il Pontefice che – dopo una lunga attesa – fa pubblicare la terza parte del cosiddetto segreto di Fatima nel 2000, dopo avere beatificato due dei veggenti delle apparizioni, Francesco Marto (1908-1919) e Giacinta Marto (1910-1920) – la terza, suor Lucia di Gesù dos Santos (1907-2005) morirà solo cinque anni dopo – ma si considera egli stesso inserito nel mistero di Fatima dopo l’attentato del 13 maggio 1981, giorno anniversario della prima apparizione e festa della Madonna di Fatima. Proprio a Fatima un anno dopo, il 12 maggio 1982, il Papa dirà che dopo l’attentato «il mio pensiero si rivolse immediatamente a questo Santuario, per deporre nel cuore della Madre celeste il mio ringraziamento per avermi salvato dal pericolo. Ho visto in tutto ciò che stava succedendo – non mi stanco di ripeterlo – una speciale protezione materna della Madonna. E nella coincidenza – non ci sono semplici coincidenze nei disegni della divina Provvidenza – ho visto anche un appello e, chissà, un richiamo all’attenzione verso il messaggio che da qui partì, 65 anni or sono» (Giovanni Paolo II 1982).

In tema di «coincidenze che non sono coincidenze» si può anche ricordare che solo quattro giorni dopo l’attentato alla vita di Giovanni Paolo II, il 17 e il 18 maggio 1981 il 68% degli italiani determina con il suo «no» nel referendum abrogativo la conferma della legge 194 sull’aborto. Come nella citata sequenza del 1978, che in dieci giorni va dall’assassinio di Aldo Moro all’approvazione della stessa legge abortista, sembra che – almeno in Italia – agli attentati terroristici non si risponda con un ritorno ai principi, ma con un oscuro istinto di cedimento che si diffonde come un virus nel corpo sociale, persuadendo la maggioranza che per evitare il peggio annunciato dal terrorismo sia necessario «non spaccare il Paese» su temi come l’aborto. Per chi la pensa diversamente, sembra davvero realizzarsi la profezia espressa nella Preghiera infuocata da san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Al fuoco! al fuoco! al fuoco!... Aiuto! aiuto! aiuto!... C’è fuoco nella casa di Dio! C’è fuoco nelle anime! C’è fuoco perfino nel santuario... Aiuto! stanno assassinando il nostro fratello!... Aiuto! stanno uccidendo i nostri figli!... Aiuto! stanno pugnalando il nostro buon padre!...» (Montfort 1990, 556). Quando si uccidono i figli con l’aborto e si tenta di assassinare in Piazza San Pietro il «buon padre», il Papa, come non pensare che la storia abbia incontrato la profezia? Una profezia cui Giovanni Paolo II non è certo estraneo. Nel 1996, pellegrino sulla tomba di san Luigi Maria il Papa ricorda: «Come sapete, devo molto a questo santo e al suo Trattato della vera devozione a Maria Vergine» (Giovani Paolo II 1996b). Nella stessa omelia il Papa fa notare – ancora una coincidenza che non la è – che il suo pellegrinaggio, a lungo desiderato, alla tomba del santo francese si compie nel giorno esatto (19 settembre 1996) del centocinquantesimo anniversario dell’apparizione della Madonna a La Salette, in Francia (19 settembre 1846): ed è noto come la scoperta e la pubblicazione nel 1842 del testo del Trattato, che si credeva perduto, e l’evento avvenuto quattro anni dopo a La Salette abbiano determinato insieme il grande risveglio della devozione mariana degli anni 1840, in Francia e in tutta l’Europa.

Dal Trattato viene la divisa del pontificato di Giovanni Paolo II – Totus tuus, riferito alla Madonna – e la «consacrazione a Cristo per le mani di Maria» del Trattato è citata, come cosa che al Papa « è caro ricordare», nell’enciclica mariana Redemptoris Mater, nel contesto di «una nuova ed approfondita lettura anche di ciò che il Concilio ha detto sulla Beata Vergine Maria, Madre di Dio [...] alla luce della Tradizione» (Giovanni Paolo II 1987, n. 48). Nel dialogo con André Frossard del 1982 (pubblicato in edizione italiana nel 1983), Giovanni Paolo II così si riferisce al Trattato: «La lettura di quel libro ha segnato nella mia vita una svolta decisiva. Ho detto svolta, benché si tratti di un lungo cammino interiore, che ha coinciso con la mia preparazione clandestina al sacerdozio [durante la Seconda guerra mondiale]. […] Rileggevo continuamente l’uno dopo l’altro certi passi. […] La “devozione perfetta a Maria” – così si esprime l’autore del trattato – […] è indispensabile a chi intende donarsi senza riserve a Cristo e all’opera della redenzione. Grignion de Montfort ci introduce nella concatenazione stessa dei misteri di cui vive la nostra fede, che la fanno crescere e la rendono feconda. Più la mia vita interiore si è imperniata sulla realtà della Redenzione, più l’abbandono a Maria, nello spirito del santo Louis Grignion de Montfort, mi è parso come il modo migliore di partecipare con frutto ed efficacia a quella realtà, per attingervi e per condividerne con gli altri le ricchezze inesprimibili» (Frossard 1983, 157-159).

Un tema centrale della spiritualità di san Luigi Maria Grignion de Montfort è l’attesa di un «Regno di Maria» dove – dopo essere passata attraverso prove particolarmente dure – la Chiesa, grazie alla Madonna, conoscerà un periodo nuovamente e particolarmente felice. Lo storico e sociologo delle religioni Jean Séguy (1925-2007) – in uno dei suoi testi, a dire il vero, meno felici (Séguy 1982) – ne trae spunto nel 1982 per classificare il santo francese fra i «millenaristi». A Séguy risponde nel 1984 il teologo francese René Laurentin, con dovizia di argomenti (Laurentin 1984). Al di là della disputa su questo o quel brano del santo, la questione è anzitutto terminologica. «Millenarismo» in una certa teologia protestante ha un senso tecnico, e indica la credenza secondo cui Gesù Cristo verrà sulla Terra alla fine dei tempi non una ma due volte: la prima («venuta intermedia»), per inaugurare un regno dei giusti che durerà esattamente mille anni, in cui Satana non sarà definitivamente sconfitto ma «incatenato»; la seconda («venuta finale»), al termine del Millennio e dopo che Satana sarà riuscito a liberarsi e a guidare una ribellione, per la definitiva fine del mondo e della storia. Questa dottrina è molto diffusa nel protestantesimo e in movimenti religiosi nati in ambito protestante, come i mormoni: gli autori che l’hanno sostenuta in ambito cattolico (e sono stati condannati dalla Chiesa) si contano sulle dita di una mano, ma tra costoro non c’è certamente il Montfort. Il suo «Regno di Maria», infatti, non è inaugurato da una venuta «intermedia» di Gesù Cristo, non dura mille anni e soprattutto – come ha mostrato appunto Laurentin (1984) – non esclude affatto la presenza della tentazione e del peccato. Si tratta di un’epoca molto favorevole per la Chiesa – il cui futuro avvento è presentato come un’ipotesi profetica –, non di una restaurazione del Paradiso terrestre o di un anticipo del Paradiso celeste. In una recensione pure molto polemica all’opera di Laurentin, Séguy ammette che «per noi non si tratta di chiedersi se Montfort è teologicamente – cioè per il contenuto dei suoi insegnamenti e delle sue credenze – millenarista: certamente non lo è. […] Ma il personaggio può rispondere eventualmente all’attrazione del concetto sociologico di millenarismo (o di messianismo, che per il sociologo è equivalente […])» (Séguy 1985, 276). Certamente l’espressione «millenarismo» tollera usi analogici anche al di fuori del protestantesimo. Altro è però utilizzarla come un’arma impropria per squalificare qualunque forma di apocalittica o di riflessione sulla fine dei tempi, qualche cosa che si trova in tutte le grandi religioni e che la Chiesa cattolica insegna a non trascurare (cfr. Introvigne 1995c). Come ricorda Papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, trascurare l’apocalittica comporta il rischio di un ripiegamento individualistico della fede: quando «il pensiero del Giudizio finale sbiadisce, la fede cristiana viene individualizzata» (Benedetto XVI 2007b, n. 42).

Fin dai tempi di Max Weber (1864-1920) la sociologia delle religioni insegna che a una fase carismatica, in cui nuove idee sono proclamate in modo entusiasmante da figure capaci di stabilire uno speciale contatto con moltissimi fedeli, segue – se queste idee si consolidano – una fase di «routinizzazione del carisma» dove quello che, in quanto carismatico, poteva apparire occasionale è consolidato in modo sistematico e giuridico. Un processo simile si verifica in tema di Concilio «integrale» con il passaggio da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI che da una parte dà sistematicità all’insegnamento di Papa Wojtyla sul Concilio attraverso la teoria delle due ermeneutiche (Benedetto XVI 2005), dall’altra traduce il richiamo a un’ermeneutica diversa da quella «della discontinuità e della rottura» (ibidem) in atti di governo. Per limitarsi a qualche esempio, una bandiera di chi interpreta il Concilio secondo il paradigma della «rottura» è la riforma della liturgia (anche se si tratta, evidentemente, di una riforma post-conciliare), soprattutto se accompagnata da restrizioni che vietano o rendono molto difficile celebrare la Messa pre-conciliare detta di san Pio V (1504-1573). Infatti, se il Concilio rompe con tutta la tradizione precedente, chi resta attaccato al simbolo di quella tradizione – la Messa «antica» – è fuori della Chiesa e deve essere isolato e perseguito. Ma se invece il Vaticano II va interpretato in continuità con il passato, allora anche la Messa «antica» può coesistere con la nuova. In questa prospettiva va letto il Motu Proprio Summorum Pontificum pubblicato da Benedetto XVI il 7 luglio 2007, che liberalizza la possibilità di celebrare la liturgia detta di san Pio V in lingua latina e secondo il Messale romano del 1962, precisando che tale liturgia non è stata in realtà mai abrogata. Sarebbe riduttivo leggere questo gesto nella sola prospettiva di un tentativo di sanare la frattura con i seguaci del defunto monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991). In effetti, nota Benedetto XVI nella Lettera ai Vescovi che accompagna il Motu Proprio, «tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità» (Benedetto XVI 2007a).

Le ragioni del dissenso di monsignor Lefebvre si trovano nei documenti del Concilio, e in particolare nella questione della libertà religiosa e dell’ecumenismo, in relazione alla quale – non a caso, pochi giorni dopo il Motu Proprio – la Congregazione per la Dottrina della Fede ha reso pubblico un documento inteso a precisare che «il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato» la tradizionale «dottrina sulla Chiesa» secondo cui, per quanto la Chiesa di Roma con le altre Chiese e comunità cristiane promuova un rispettoso dialogo, tuttavia insegna che solo la Chiesa cattolica è la via ordinaria alla salvezza e «l’unica Chiesa di Cristo» (Congregazione per la Dottrina della Fede 2007). L’affermazione di cui al numero 8 della Costituzione dogmatica Lumen gentium del Vaticano II secondo cui l’unica Chiesa di Cristo «sussiste nella Chiesa cattolica» – letta dalle forme più estreme di «ermeneutica della discontinuità» come se significasse che per il Concilio quella cattolica è ormai solo una fra molte Chiese cristiane – è invece interpretata come un’«espressione, che indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica, [e] non cambia la dottrina sulla Chiesa» (ibidem). Anche questo documento si muove dunque nella direzione di istituzionalizzare l’«ermeneutica della continuità» (che è nello stesso tempo «ermeneutica della riforma» secondo la prospettiva tradizionale dell’Ecclesia semper reformanda). Le reazioni ostili che ha suscitato in numerosi ambienti si affiancano a quelle contro il Motu Proprio sulla liturgia.

Non si tratta semplicemente della «Messa in latino», ma di tutta l’azione di Benedetto XVI per riaffermare con le parole e con i fatti la corretta interpretazione del Vaticano II. Il fatto che la liturgia preconciliare possa coesistere con quella post-conciliare (non certo, nelle intenzioni del Papa, sostituirla) è un’affermazione ad alto tasso di visibilità che il magistero preconciliare e quello post-conciliare possono e devono coesistere, e il Concilio non fa affatto «decadere» gli insegnamenti precedenti (così come, del resto, non è legittimo servirsi del magistero precedente per rifiutare il Concilio). Ma questo è qualche cosa che né il «progressismo sbagliato» né l’«anti-conciliarismo» ultra-tradizionalista (entrambe le espressioni sono, come si è visto, di Benedetto XVI) – tutti e due fermi alla tesi della «discontinuità» – possono accettare, senza mettere in discussione l’intero sistema dottrinale che da decenni li alimenta. Da questo punto di vista il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI chiude quanto agli interventi magisteriali i tempi «decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica» (Messori 1985, 27) del postconcilio. Ma una «meccanica del postconcilio» continua ancora oggi.

 

Il «postconcilio lungo» in Brasile

Nel 2004 è stata pubblicata in Brasile, come primo volume delle Obras completas di monsignor Hélder Câmara (1909-1999), una raccolta delle circolari inviate dal Vaticano II agli amici brasiliani (Câmara 2004). In Italia è uscita nel 2008 una selezione, che omette numerosi testi relativi alla situazione brasiliana e si concentra sull’azione al Concilio del vescovo brasiliano e della sua misteriosa organizzazione denominata Opus Angeli (una realtà così discreta che «la segretaria Elisabeth Hollants, interpellata al proposito, ha sempre preferito non rilasciare dichiarazioni sull’argomento»: Câmara 2008, 48, nota della curatrice). I testi sono di grande interesse per il nostro tema, e confermano che Hélder Câmara opponeva uno «spirito del Concilio» agli schemi preparatori (come avverrà poi per i documenti) fin dal 13-14 ottobre 1962, due giorni dopo l’apertura dell’assise ecumenica (Câmara 2008, 33). Benché le circolari cerchino sempre di non spegnere l’entusiasmo dei destinatari, e annuncino dunque sistematiche «vittorie», talora con un gergo esplicitamente calcistico (il prelato, del resto, è brasiliano, e si conosce l’amore del Brasile per il calcio), a mano a mano che il Concilio procede ci si accorge che molte – si potrebbe dire la maggioranza – delle proposte elaborate nell’officina dell’Opus Angeli non sono accolte, soprattutto in tema di collegialità, conferenze episcopali, riforma della curia (per cui all’inizio, prima della sua scomparsa, Câmara pensava alla nomina a segretario di Stato del nunzio in Brasile monsignor Armando Lombardi, 1905-1964), elezione del Papa da parte dell’assemblea del Sinodo dei Vescovi e non di un conclave di soli cardinali, rapporti con le religioni non cristiane, ecumenismo, segni di povertà della Chiesa, ordinazione inizialmente diaconale e quindi anche presbiterale delle donne, abolizione del celibato sacerdotale. Anche la nomina di Câmara a cardinale – che «un Amico più che Amico» giudicava nel 1965 uno strumento «necessario anzi indispensabile» (ibidem, 345) perché si realizzassero gli obiettivi della cerchia di Dom Hélder al Concilio – non si realizzerà né «quanto prima» (ibidem) né mai.

La madre di tutte le sconfitte per Dom Hélder e i suoi amici è tuttavia il rifiuto di Papa Paolo VI di far pronunciare il Concilio sul tema degli anticoncezionali: un rifiuto che già preannuncia l’Humanae vitae, rispetto alla dottrina enunciata nella quale Câmara, già tre anni prima dell’enciclica del 1968 di Paolo VI, dà un giudizio durissimo come un «errore» destinato «a torturare le spose, a turbare la pace di tanti focolari», «a suo modo, una nuova condanna di Galileo [Galilei, 1564-1642]» (Câmara 2008, 363); anzi, addirittura, «la morte del Concilio», «la negazione pratica della collegialità», «l’annichilimento pratico dell’ecumenismo» (ibidem, 461). Poeta, Dom Hélder Câmara ironizza anche sui figli che le donne «vittime» della dottrina della Chiesa sugli anticoncezionali sono costrette a generare, con espressioni che nascono sì dall’emozione per un episodio specifico e atroce (un «bambino che, nella mia Recife, ha avuto parte del visino divorato dai topi») ma lasciano davvero molto perplessi quanto alla sua sintonia con la teologia cattolica sul valore di ogni vita umana:


«Figli, figli, figli…
Se è il piacere che vuoi
(ma che altro ti resta, Poveretta?)
devi procreare,
devi procreare!
Anche se tuo figlio
sarà uno scheletrino
sarà un topino orrendo
che nemmeno i topi
riusciranno ad accettare
(ci sono topini graziosi,
incantevoli sorcetti).
Figli, figli, figli…
Se è il coito che vuoi
(ma tu sai cos’è il volere?)
devi procreare,
devi procreare!
Anche se tuo figlio
ti nasce senza viscere
le gambette a stecchino
la testona a pallone
brutto da morire» (ibidem, 390-391).

La circolare «poetica» si chiude con un’invocazione alla Madonna perché chieda al Padre Celeste «di non collaborare alla nascita di Mostriciattoli!» (ibidem, 392).

Queste espressioni non vanno prese alla leggera, e confermano come intorno alla questione poi trattata nella Humanae vitae già durante il Concilio si preparasse un dissenso, che investiva i fondamenti stessi dell’autorità del Papa, che dalla questione degli anticoncezionali si sarebbe poi esteso all’aborto, e che per il momento scendeva in campo esplicitamente a favore del divorzio, approvando la posizione della Chiesa ortodossa che non ha «precluso la possibilità di un nuovo matrimonio religioso a chi è stato abbandonato» dal coniuge (Câmara 2008, 377). A chi teme che i laicisti divorzisti cantino vittoria per queste tesi, Câmara risponde: «Cosa importa che qualcuno canti vittoria, se ha ragione?» (ibidem). Su questi punti, naturalmente, il vescovo brasiliano si rendeva conto che il Papa e i documenti del Concilio non sarebbero stati dalla sua parte, dal momento che in materia di famiglia i Padri Conciliari «sono ancora ben lungi dal prendere in considerazione la riformabilità dei testi di Pio XI [1857-1939] e Pio XII, che essi considerano alla stregua di pronunciamenti di infallibilità» (ibidem, 376).

Ma Câmara e i suoi amici preparavano anche la soluzione per il postconcilio: andare «oltre i testi conciliari», trovare nel Concilio «affermazioni implicite la cui spiegazione compete a noi», «al chiarore del suo spirito» (Câmara 2008,439). Nell’imminenza della chiusura dell’assise ecumenica, in una circolare invitava gli amici a cominciare fin da subito un «inizio di preparazione del Vaticano III» (p. 454), un nuovo Concilio da convocare «entro 10 anni» (ibidem, 397). Visto che gli si riconosce un «carisma del profeta», Câmara chiede in un incontro del 13 ottobre 1965 con una serie di alti esponenti della Compagnia di Gesù, in cui parla del Vaticano III: «Se voi mi chiamate Profeta, dovete accettare di essere Dottori: e allora ditemi, per favore, trovate che ci sia qualche argomento effettivamente decisivo che impedisca alle donne l’accesso al sacerdozio, oppure si tratta di un pregiudizio maschile che il Vaticano III potrà abbattere?» (ibidem). Sempre in nome del suo «carisma del profeta» Câmara prevede nello stesso incontro del 1965 che «in 10 anni l’uomo sarà sbarcato sullo spazio con tutte le sorprese che possono arrivarci da lassù e, siccome non credo in un Dio geloso che ha paura dell’ombra e teme il potere che ha concesso al suo co-creatore, credo che l’uomo creerà artificialmente la vita, arriverà alla risurrezione dei morti (ovviamente con limiti e indebolimenti) e trasformerà in realtà il vecchio sogno di [Serge] Voronoff [1866-1951, medico russo naturalizzato francese celebre per la sua pretesa di ottenere miracolosi risultati di ringiovanimento di pazienti maschi tramite l’innesto di ghiandole genitali di scimmia, ma da molti considerato un ciarlatano]… Si creerà allora un tale stato di panico – generato soprattutto da coloro che si ostinano a tracciare dei limiti alla generosità con cui Dio comunica i propri poteri – e l’ateismo riceverà un impulso talmente forte, che riunire un Vaticano III sarà l’unica soluzione» (ibidem, 397-398).

Per fortuna la creazione artificiale della vita, la resurrezione dei morti e la realizzazione del sogno del dottor Voronoff hanno fatto la stessa fine del cappello da cardinale, destinato a non ornare mai la testa di Dom Hélder nonostante un «vecchio arcivescovo austriaco» gli avesse assicurato: «mi è stato rivelato che un giorno sarai cardinale» (Câmara 2008, 64). E anche il grande aumento del numero degli atei non c’è stato: anzi, almeno secondo le statistiche dei sociologi, sono piuttosto diminuiti. Il tema dell’ateismo porta verso un argomento delicato su cui il volume getta una luce importante. Sulla base di alcuni testi suoi – o da lui firmati con altri – degli anni 1970, che abbiamo già avuto occasione di citare e la cui analisi socio-economica è – per dire il meno – molto vicina a certe tesi tipiche del comunismo, gli avversari del presule si sono chiesti spesso se Dom Hélder fosse comunista. La risposta che emerge dai testi pubblicati negli anni 2000 è certamente negativa. Câmara rimane un cristiano che crede in Dio – e negli angeli, anche se riguardo a questi ultimi la sua devozione prende talora strade curiose – e disapprova senza riserve l’ateismo comunista. Pensa tuttavia che sia possibile «separare il socialismo dalla base materialista che a volte lo accompagna. L’esperienza ha già dimostrato che non sono inseparabili» (ibidem, 370-371). Il vescovo brasiliano crede anzi che questa separazione fra comunismo e ateismo sia prossima. «Almeno nel nostro terzo mondo – ma credo che in questo caso non ci sia una differenza sostanziale rispetto a ciò che succede, ad esempio, nei paesi a regime comunista – i comunisti di base filosofica e convinzioni materialiste, atei militanti, sono una minoranza nella minoranza. La massa comunista esulterà il giorno in cui scoprirà che non c’è bisogno di rinnegare Dio e la vita eterna per amare gli uomini e difendere la giustizia della vita terrena. La massa comunista guarderà alla religione con rispetto e simpatia se la vedrà decisa a non offrire copertura a ingiustizie assurde commesse nel nome del diritto di proprietà e dell’iniziativa privata» (ibidem, 450). Quando questa sintesi di socialismo e vita eterna sarà proposta, «delle due l’una: o la Russia vi aderisce, e sia data lode a Dio; oppure si smaschera, e allora tutte le persone sincere che la seguono per sete di “giustizia, amore e pace” la abbandoneranno» (ibidem, 427).

In questo senso, curiosamente, Dom Hélder interpreta anche il messaggio delle apparizioni mariane di Fatima del 1917, sulla cui realtà – a differenza di altri Padri Conciliari «progressisti» – non sembra avere dubbi, ma che legge come se l’affermazione della Madonna «la Russia si convertirà» equivalesse a «l’URSS [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche] si convertirà», restando comunista e sovietica, anche se non più atea. «E l’appello di Fatima – scrive – per che cosa era?... Non per l’annientamento dell’URSS e della Cina, bensì per la loro conversione… Nel 1967 la Rivoluzione Russa festeggerà il proprio giubileo… Dobbiamo accelerare il passo, non c’è più tempo da perdere» (Câmara 2008, 447). In questa chiave, Câmara esulta per la mancata condanna del comunismo da parte del Concilio.

In generale, la visione del comunismo di Câmara appare straordinariamente ingenua. Non solo nessuno studioso accademico – già negli anni 1960 – pensava che fosse davvero logicamente possibile separare l’analisi marxista dell’economia e il materialismo storico dal materialismo dialettico e dall’ateismo, ma soprattutto quello che sembrava sfuggire al vescovo brasiliano era che quanto c’era di sbagliato nel comunismo non si riduceva affatto all’ateismo. Anche se fosse possibile separare l’economia comunista dalla filosofia atea che le fa da base, questa economia rimarrebbe non un qualche cosa di amabile e positivo ma una ricetta sicura per l’oppressione e la miseria. Come si esprimerà qualche anno più tardi il magistero della Chiesa nella citata Istruzione su alcuni aspetti della «teologia della liberazione» «Libertatis nuntius» pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1984: «La lotta di classe come via verso una società senza classi è un mito che blocca le riforme e aggrava la miseria e le ingiustizie. Coloro che si lasciano affascinare da questo mito dovrebbero riflettere sulle amare esperienze storiche alle quali esso ha condotto» (Congregazione per la Dottrina della Fede 1984, XI, 11).

Benché dunque il Concilio nei suoi documenti non abbia, su molti punti, seguito Dom Hélder, la sua influenza sulla Chiesa brasiliana è rimasta immensa anche nei decenni successivi. Si comprende dunque come il Brasile abbia conosciuto un «postconcilio lungo», e quella che uno specialista come Thomas C. Bruneau – che, va sempre ricordato, non scrive nella prospettiva di criticare Dom Hélder e la sua cerchia, che anzi ammira – descrive come una vera e propria resistenza al magistero sul Concilio e la sua interpretazione di Giovanni Paolo II. Dalla partecipazione di Giovanni Paolo II alla III Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano a Puebla nel 1979 al Sinodo Straordinario per i vent’anni dal Concilio nel 1985 si delinea un evidente contrasto che passa per la pubblicazione dell’istruzione Libertatis nuntius del 1984, il confronto dello stesso anno tra il teologo della liberazione brasiliano Leonardo Boff. O.F.M. (che avrebbe successivamente abbandonato l’ordine francescano e il sacerdozio) e la sua successiva condanna, e la convocazione a Roma dei vertici della CNBB per incontri con il Papa, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e quello della Congregazione per i Vescovi nel luglio 1985, che sarà replicata coinvolgendo i cardinali brasiliani e i vescovi presidenti delle quattordici regioni pastorali della CNBB dal 12 al 15 marzo 1986, «un evento quasi senza precedenti nella storia recente della Chiesa» (Bruneau 1988, 101). Forse l’episodio più clamoroso è la saga dell’intervista del 1985 Rapporto sulla fede del cardinale Joseph Ratzinger (Messori 1985), un best seller mondiale che in Brasile le maggiori case editrici cattoliche cercano di non far pubblicare attraverso manovre piuttosto spericolate anche sotto il profilo della normativa internazionale sul diritto d’autore, in cui è coinvolto tutto l’establishment cattolico brasiliano legato alla teologia della liberazione. Alla fine il libro è pubblicato da una piccola casa editrice, la Editora Pedagógica e Universitária: ma la lobby ostile alle idee esposte nel testo era comunque «stata capace di impedire la pubblicazione del libro di Ratzinger da parte di qualunque casa editrice importante e quindi di limitarne la circolazione» (Bruneau 1988, 102). Sbaglierebbe chi riducesse questo episodio a una semplice bega fra editori: una parte consistente dei «poteri forti» all’interno del mondo cattolico brasiliano si era mossa per fare sì che il pubblico locale non leggesse quanto dichiarava, su punti essenziali per la Chiesa e in un libro di fama mondiale, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Non tutti i vescovi sono d’accordo, né sognano con Hélder Câmara un Concilio Vaticano III. A partire almeno dall’Assemblea Generale del 1985 Bruneau nota che «il dissenso interno e la tensione sono cresciuti nella CNBB e una certa polarizzazione sembra verificarsi» (Bruneau 1988, 100). Tutto questo è anche collegato al quadro socio-politico brasiliano: con la fine della dittatura, «come può la Chiesa giustificare l’allocazione delle sue scarse risorse ad attività politiche, ora che i partiti e i gruppi di pressione possono operare liberamente?» (ibidem, 96). Peraltro, le ragioni per cui la teologia della liberazione all’interno del clero e dell’episcopato brasiliano entra in crisi – pur senza scomparire – durante il pontificato di Giovanni Paolo II sono complesse. Quanto alla sua popolarità presso il pubblico brasiliano, le reiterate campagne critiche dello stesso Plinio Corrêa de Oliveira e della TFP, che hanno un notevole eco mediatico, giocano certamente un ruolo che non va sottovalutato. Gli interventi del magistero pontificio e le critiche scuotono una pianta le cui radici non erano profonde. Come nota il sociologo messicano Malik Tahar Chaouch, il declino della corrente non può essere ascritto solo agli interventi vaticani e alle critiche come vorrebbe «un discorso semplicistico di vittimizzazione» (Chaouch 2008, 6) proposto oggi dai suoi esponenti storici: «la teologia della liberazione si è finalmente ritrovata disarcionata e delegittimata sul terreno popolare, di cui credeva di avere il monopolio e dove invece oggi conosciamo la debolezza del suo radicamento», per anni nascosto dal fatto che i testi su questa teologia, anche quando si pretendevano scientifici, erano in realtà in gran parte opere di apologetica e di propaganda (ibidem, 7). Il successo popolare della teologia della liberazione è in gran parte mitologico: in questo senso non è finito, piuttosto non c’è mai stato. La teologia «del popolo», come nota lo stesso Chaouch, ha però avuto una grande influenza non nel popolo ma nelle élite: vescovi, sacerdoti e religiosi, intellettuali, giornalisti. Questa influenza in qualche modo continua: anche se «i segni del declino sono manifesti» e «l’epico movimento popolare che si riteneva dovesse ispirare ha partorito esperienze sparse e poco significative» (ibidem, 3), teologi come Franz Hinkelammert si riciclano come autori di progetti non esclusivamente religiosi ma «etici» – che dovrebbero così sfuggire anche all’ambito su cui si esercita l’autorità ecclesiastica – e offrono collaborazione al presidente della Repubblica del Venezuela, Hugo Chávez Frías, che sembra peraltro meno legato di loro all’ortodossia marxista (ibidem, 9). Gli eredi attuali della teologia della liberazione, infatti, non riescono a «uscire dal campo del discorso ereditato dalla radicalizzazione marxista del nazionalismo latino-americano degli anni 1960»: «il nemico resta lo stesso, così come gli obiettivi» (ibidem, 12).

Il «postconcilio lungo» in Brasile sembra non finire mai. Ne è testimonianza la celebrazione nel 2008 dell’ottantesimo compleanno del «vescovo rosso» brasiliano per eccellenza, monsignor Pedro Casaldáliga Plà, da parte di un altro vescovo dello stesso orientamento, monsignor Tomás Balduino, OP, già vescovo di Goiás, nell’omonimo Stato. Dopo avere menzionato la personalissima «ecclesiologia» di monsignor Casaldáliga (con cui si dichiara non d’accordo), il quale riduce l’episcopato «allo spazio e al tempo della giurisdizione», non considerandosi quindi più vescovo dopo la rinuncia alla sede di São Félix do Araguaia, monsignor Balduino ricorda una serie d’iniziative contro il «vescovo rosso» (un titolo rivendicato orgogliosamente nel testo) da parte di confratelli nell’episcopato brasiliano, che giungono a chiedere la sua espulsione dalla Conferenza Episcopale regionale di cui fa parte, poi di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Tuttavia, conclude che Casaldáliga ha almeno ottenuto che il suo successore, nominato il 2 febbraio 2005 da Giovanni Paolo II nella persona del francescano Leonardo Ulrich Steiner, O.F.M., sia un vescovo disposto a «continuare la medesima caminhada», «marcia», e ad accettare che lo stesso Casaldáliga (cosa per quest’ultimo molto importante) possa continuare a risiedere a São Félix do Araguaia (Balduino 2008, p. 15).

A giudicare dal sito Internet della prelatura di São Félix do Araguaia, sembrerebbe che l’influenza di Casaldáliga sia ancora molto importante, e che l’affermazione secondo cui una certa caminhada continua sia più di un’opinione soggettiva di monsignor Balduino. Certo, la nomina del successore di Casaldáliga risale agli ultimi mesi della vita di Papa Giovanni Paolo II. E tuttavia non si manca di rispetto alla grandezza di Papa Wojtyla se si nota, con l’autorevole teologo statunitense e grande amico personale di Giovanni Paolo II, George Weigel, che le nomine dei vescovi non erano una materia di cui il Pontefice polacco si occupava personalmente. «Le frustrazioni che molti cattolici avvertivano nei confronti dei loro vescovi non erano solo il risultato di burocrazie sclerotiche nelle diocesi e nelle Conferenze episcopali, né solo del Sinodo dei Vescovi. Alcune nomine di vescovi di Giovanni Paolo II furono coraggiose […]. Altre scelte di Giovanni Paolo II furono convenzionali, e altre ancora inspiegabili, dal momento che i vescovi coinvolti chiaramente non condividevano la visione di Giovanni Paolo II quanto a che cosa davvero significasse l’applicazione del Vaticano II. Negli ultimi anni del pontificato più di un sostenitore del Papa giunse a concludere che il sistema di nomine episcopali era, se non del tutto in rovina, almeno seriamente disfunzionale» (Weigel 2005, 66-67).

Forse queste osservazioni valgono particolarmente per il Brasile, dove molti media hanno segnalato – chi con sollievo, chi con preoccupazione – come possibile punto di svolta il viaggio di Benedetto XVI nel Paese che si è svolto fra il 9 e il 14 maggio 2007, caratterizzato da un forte richiamo ai «valori non negoziabili» della vita, della famiglia e dell’educazione come centro dell’impegno pastorale e anche sociale e politico dei cattolici. Si resta tuttavia ancora perplessi di fronte alla proposta di avvio del processo di beatificazione di Dom Hélder Câmara avanzata nel febbraio del 2008 dalla Commissione Nazionale dei Presbiteri (CNP), un organismo collegato alla Conferenza Episcopale Brasiliana e ribadita all’inizio delle celebrazioni per il centenario della nascita, nel 2009, del controverso presule. Certo, Dom Câmara emerge dai suoi scritti come un uomo di fede e di preghiera, e solo Dio è giudice delle intenzioni e dei segreti dei cuori. Ma emerge anche con assoluta chiarezza come molte sue tesi erano, per dire il meno, assai problematiche per chi si ponga dal punto di vista dell’ortodossia cattolica, così che la proposta di beatificazione appare provocatoria. Il postconcilio «lungo» sembra così, in Brasile, davvero un passato che non vuole passare.

 

Plinio Corrêa de Oliveira e il Concilio «integrale»

Ricevendo il 10 maggio 2008 i vescovi ungheresi in visita ad limina Apostolorum, Benedetto XVI ha rilevato che «purtroppo il lungo periodo del regime comunista ha segnato pesantemente la popolazione ungherese, così che ancora adesso se ne notano le conseguenze: in particolare, viene rilevata in molti una certa difficoltà a fidarsi degli altri, tipica di chi ha vissuto a lungo in un clima di sospetto» (Benedetto XVI 2008). Quest’acuta osservazione del 2008 vale – naturalmente, in via analogica – per descrivere, più in generale, il clima di faticosa uscita dal mondo dominato dall’impero comunista sovietico e da atteggiamenti che nel mondo cattolico, per dire il meno, non ostacolavano i piani di questo impero. Una «certa difficoltà a fidarsi» non appare anomala, ma «tipica».

Il 1° febbraio 1975 Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) – durante una riunione dell’associazione da lui fondata, la Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Familia e Propriedade (TFP) – si offre come vittima espiatoria per la crisi della Chiesa e del mondo cattolico. Insegna Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi che nell’offerta delle proprie sofferenze – una pratica comune nell’ascetica cattolica – hanno certo talora potuto insinuarsi «cose esagerate e forse anche malsane»(Benedetto XVI 2007b, n. 40): e tuttavia in questa offerta è «contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale»(ibidem), cui si avrebbe torto a rinunciare per compiacere una modernità che ha difficoltà a comprendere il sacrificio. Trentasei ore dopo l’offerta, Corrêa de Oliveira resta gravemente ferito in un incidente stradale, le cui conseguenze lo accompagnano fino alla morte.

Di fronte alle prime manifestazioni del nuovo clima creato nella Chiesa dal pontificato di Giovanni Paolo II, e alle loro ricadute in Brasile, Corrêa de Oliveira manifesta appunto una «certa difficoltà a fidarsi». L’atteggiamento del nuovo Pontefice verso la sua nativa Polonia non sarà forse solo una variante della Ostpolitik degli anni precedenti? Quella che sembra una crisi del comunismo non ne annuncerà invece una metamorfosi? Gli insegnamenti, per quanto apprezzabili, di Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio in America Latina, nel gennaio-febbraio 1979, riusciranno veramente a cambiare una situazione ancora dominata dalla «teologia della liberazione» d’impronta marxista? In questo clima nasce la serie di articoli per il quotidiano Folha de S. Paulo su Il messaggio di Puebla (raccolti in traduzione italiana in Corrêa de Oliveira 1979), dove il pensatore brasiliano mette in rilievo come nel discorso rivolto ai vescovi a Puebla da Giovanni Paolo II in occasione della III Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano il Pontefice abbia denunciato quelle «“riletture” del Vangelo, che sono risultato di speculazioni teoriche ben più che di autentica meditazione della parola di Dio»: esse «causano confusione, se si allontanano dai criteri centrali della fede della Chiesa e si cade nella temerarietà di comunicarle, come catechesi, alle comunità cristiane» (Giovanni Paolo II 1979a).

Il Pontefice ha di mira in particolare quelle teologie in cui «o si tace la divinità di Cristo, o si incorre di fatto in forme di interpretazione contrarie alla fede della Chiesa. Cristo sarebbe solamente un “profeta”, un annunciatore del Regno e dell’amore di Dio, ma non il vero Figlio di Dio, e non sarebbe pertanto il centro e l’oggetto dello stesso messaggio evangelico. In altri casi, si pretende di mostrare Gesù come impegnato politicamente, come uno che combatte contro la dominazione romana e contro i potenti, anzi implicato in una lotta di classe. Questa concezione di Cristo come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazaret, non si compagina con la catechesi della Chiesa» (Giovanni Paolo II 1979a). Il clima in cui maturano queste teologie è quello segnato da «una delle debolezze più vistose dell’attuale civiltà [che] consiste nella visione inadeguata dell’uomo. La nostra è, senza dubbio, l’epoca nella quale molto si è scritto e parlato intorno all’uomo, l’epoca degli umanismi e dell’antropocentrismo. Tuttavia, paradossalmente, è anche l’epoca delle angosce più profonde dell’uomo circa la propria identità e il proprio destino, della retrocessione dell’uomo a livelli prima insospettati, l’epoca di valori umani conculcati come mai in precedenza. Come si spiega questo paradosso? Possiamo dire che si tratta del paradosso inesorabile dell’umanesimo ateo. È il dramma dell’uomo amputato di una dimensione essenziale del proprio essere – la sua ricerca dell’infinito – e posto così di fronte alla peggiore riduzione del medesimo essere» (ibidem). Invece, «di fronte a tanti altri umanesimi, spesso rinchiusi in una visione dell’uomo strettamente economica, biologica e psichica, la Chiesa ha il diritto e il dovere di proclamare la Verità sull’uomo, verità che ha ricevuto dal suo stesso maestro Gesù Cristo. Voglia Iddio che nessuna coazione esterna lo impedisca. Ma, soprattutto, voglia Dio che non tralasci essa di farlo per timore o per dubbio, per essersi lasciata contaminare da altri umanesimi, per mancanza di fiducia nel proprio messaggio originale» (ibidem). «Questa verità completa sull’essere umano – prosegue Giovanni Paolo II – costituisce il fondamento della dottrina sociale della Chiesa, così com’è la base della vera liberazione. Alla luce di tale verità, l’uomo non è un essere sottomesso ai processi economici e politici, ma questi stessi processi sono ordinati all’uomo e sottoposti a lui» (ibidem).

Nel citare questi brani, Corrêa de Oliveira rileva come rifiutare l’idea che l’uomo sia «un essere sottomesso ai processi economici e politici» e condannare l’«umanesimo ateo» equivalga ad affermare, in un clima latino-americano ancora segnato dalla teologia della liberazione d’impronta comunista, che «la Chiesa ripudia la filosofia di [Karl] Marx [1818-1883] come incompatibile con la sua dottrina e con la sua azione a favore dell’uomo nel campo terreno» (Corrêa de Oliveira 1979, 10). Con questo si è fatto un passo «di grande portata» ma, secondo l’analisi che il pensatore brasiliano propone «a caldo» nel 1979, per i teologi della liberazione marxisteggianti è stato chiuso solo «un battente della porta» (ibidem). Ne rimane aperto un altro. Infatti circolano in America Latina – e altrove – cattolici i quali affermano di rifiutare il materialismo dialettico e l’«umanesimo ateo», ma di utilizzare del marxismo solo l’aspetto «socio-economico» (ibidem), cioè il materialismo storico. A chi legge oggi le circolari di Dom Hélder Câmara – dove, appunto, la separazione del materialismo storico dal materialismo dialettico è presentata come una posizione che permette insieme di rimanere socialisti e di evitare l’ateismo marxista –, e riflette sul fatto che all’epoca Câmara non solo è ancora arcivescovo di Olinda e Recife ma rimane il leader intellettuale di almeno un’importante corrente dell’episcopato latino-americano, il «non fidarsi» di Corrêa de Oliveira non appare incomprensibile.

Si tratta del resto di una posizione – e di un rischio, diffuso anche in ambienti cattolici dell’Europa dell’Est – che il pensatore brasiliano aveva prospettato già diversi anni prima. Per esempio, in un articolo del 1971 osservava che «oggi i settori cattolici impregnati d’influenze comuniste cominciano a interpretare capziosamente l’espressione [“comunismo ateo”]. Se i Papi condannano il comunismo ateo – si argomenta in questi circoli – è solo perché è ateo. Pertanto, se ci fosse una corrente comunista non atea, sarebbe chiaro che la Chiesa non dovrebbe avere la minima obiezione.  Il sofisma – giacché si tratta di un sofisma evidente – consiste nell’affermare che nel comunismo i Papi non hanno mai condannato alcun elemento se non l’ateismo» (Corrêa de Oliveira 1971). Evidentemente non è così, perché il magistero pontificio a partire almeno da Leone XIII (1810-1903) è ricco di condanne della visione marxista dell’economia, riprovata anche di per sé e non solo per il suo collegamento all’ateismo.

Ma né la via del Concilio «integrale» né il «postconcilio lungo» brasiliano si fermano a Puebla. A entrambi i fenomeni Corrêa de Oliveira continua a dedicare attenzione. La conferenza di Puebla si era conclusa con un documento collettivo dell’episcopato, poi rivisto a Roma. Il testo è pubblicato nel 1980 in portoghese in Brasile da tre case editrici, due delle quali lo corredano però di commenti critici. Contro questi commenti, e in generale contro un clima dottrinale inquinato nella teologia e nell’editoria cattolica brasiliana, interviene con una lettera a monsignor José Ivo Lorscheiter (1927-2007), vescovo di Santa Maria (Rio Grande do Sul) e presidente della CNBB, il vice-presidente della Conferenza Episcopale Latino-Americana monsignor Luciano José Cabral Duarte, arcivescovo di Aracajù (Sergipe – dunque anch’egli brasiliano). Corrêa de Oliveira definisce la lettera «opportuna» e «coraggiosa» (Corrêa de Oliveira 1980a, 10), manifestando la speranza che sia il primo di una serie di passi intesi a fare emergere tra i vescovi brasiliani una posizione diversa sia da quella dominante nel decennio precedente sia dall’inerzia dei «vescovi silenziosi» i quali – pur non condividendo la l«linea Dom Hélder» – tuttavia non la criticano apertamente finendo per legittimarla. Diversamente, non resta che porre le proprie speranze nella «figura robusta, viva e vivace» di Giovanni Paolo II (ibidem). Così, di fronte alla forte denuncia della menzogna delle ideologie nel messaggio di Giovanni Paolo II La verità, forza della pace per la XIII Giornata Mondiale della Pace, del 1° gennaio 1980 (Giovanni Paolo II 1980), il pensatore brasiliano rileva come si tratti di uno straordinario «documento che basterebbe da sé solo a caratterizzare tutto un pontificato» (Corrêa de Oliveira 1980b, 1).

La chiusura del secondo battente della porta arriva per la teologia della liberazione con l’istruzione «Libertatis nuntius» della Congregazione per la Dottrina della Fede (1984). «Vedere che un organo come la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede afferma, nero su bianco, la incompatibilità della dottrina cattolica con il marxismo è come per qualcuno, che si trova dentro un incendio, sentirsi arrivare, inaspettatamente, il getto di acqua fresco e benefico di una pompa di pompieri» (Corrêa de Oliveira 1985a, 16). È vero, «una sola pompa non spegne l’incendio»: ma neppure ci sono «prove del fatto che rimarremo solamente con questa pompa» (ibidem), come dimostrano le misure prese nei confronti di padre Leonardo Boff, O.F.M.

In questi anni – e nell’ultimo decennio della vita di Plinio Corrêa de Oliveira – il pensatore brasiliano continua peraltro a segnalare anche la resistenza che al magistero della Santa Sede oppone una parte non piccola del mondo cattolico brasiliano. Né le relazioni fra la TFP e almeno una parte consistente della CNBB denunciano miglioramenti. Il pomo della discordia rimane sempre quello della riforma agraria: una bandiera sempre agitata senza risultati particolarmente significativi nella sfera economica brasiliana, che tuttavia – come si è visto in un precedente articolo – nel dibattito che si sviluppa in Brasile ha una straordinaria importanza simbolica e di principio, che mette in gioco i fondamenti stessi del populismo e del socialismo. È però interessante notare che – in un’intervista del 1986 al sottoscritto, pubblicata dopo la revisione e l’esplicita approvazione da parte di Corrêa de Oliveira – lo studioso di San Paolo pone il problema in termini più tecnici che dottrinali, e smentisce anche alcuni luoghi comuni sulla posizione della TFP in tema di politica agraria.

A una domanda relativa alla «natura della vostra divergenza dalla CNBB in questa materia», Corrêa de Oliveira risponde così: «Sullo sfondo esiste anche un problema di carattere dottrinale, perché non mancano in Brasile ecclesiastici che sono contrari a qualunque disuguaglianza sociale, e considerano conforme alla giustizia solo una società assolutamente ugualitaria e quindi socialista, mentre la TFP, con tutta la dottrina sociale della Chiesa, sostiene che le disuguaglianze, purché armoniche e proporzionate, sono una ricchezza per la società, e che il socialismo non è affatto un ideale. Tuttavia il problema attuale non è principalmente di carattere dottrinale, ma tecnico. La posizione della CNBB muove da una certa esposizione della situazione economica e agricola del Brasile. Se la situazione fosse come i documenti della CNBB la descrivono, la dottrina sulla funzione sociale della proprietà privata giustificherebbe questa riforma agraria. Il punto è che i dati di fatto, la situazione di fatto, il problema tecnico non sono a nostro avviso – e ad avviso dei migliori specialisti brasiliani – descritti in modo corretto dagli esperti della CNBB. Non è un problema dottrinale: è un problema di dati e di analisi di carattere tecnico. La CNBB nei suoi documenti è scesa su un terreno che non è di dottrina, ma di fatto, e su questo terreno tecnico non ho dubbi che si abbia diritto a manifestare un rispettoso disaccordo con l’autorità ecclesiastica» (Introvigne 1986, 5). Dopo avere ricordato che il «maggiore latifondista del paese» in Brasile è «lo Stato, proprietario del cinquanta per cento dei terreni coltivabili» (tra l’altro, solo per «una parte molto piccola», in risposta a una nota obiezione, caratterizzati da «una presenza anche residuale o minima di indios», che sarebbero disturbati dall’arrivo di agricoltori), Corrêa de Oliveira – riassumendo una sua vasta produzione sul tema, spesso rappresentata in modo caricaturale da chi non si è mai dato pena di leggerla – ricorda che per la «questione agraria» brasiliana la TFP ha sempre avanzato anche proposte concrete, anche se «noi non amiamo chiamare la nostra proposta “riforma agraria” perché ormai questa parola ha avuto in Brasile un’evoluzione semantica, ed è percepita come sinonimo di riforma socialista e confiscatoria. La politica agraria che proponiamo si fonda sulla proposta di distribuire le terre dello Stato a chi dia garanzie di volerle coltivare. Come proposta subordinata per l’immediato – un male minore, che non sostituisce l’obiettivo di fondo – suggeriamo che lo Stato paghi i proprietari espropriati con una parte delle terre statali: i proprietari le metterebbero a profitto e l’agricoltura potrebbe progredire» (ibidem, 6).

Queste riflessioni vanno inquadrate anche nello studio continuo e pluridecennale della storia del Brasile da parte di Plinio Corrêa de Oliveira. Infatti solo riflettendo sul peculiare rapporto fra il popolo brasiliano e la terra, e sul ruolo della piccola, della media e della grande proprietà nel costruire attraverso i secoli la prosperità del Brasile è possibile comprendere – o così ritiene Corrêa de Oliveira – non solo il retroterra della vera questione agraria, al di là della demagogia sulla riforma agraria, ma la stessa natura profonda dell’ethos della nazione latino-americana. Sulla scia di due grandi nomi della sociologia brasiliana – uno, Francisco José de Oliveira Vianna (1883-1951, oggi talora scritto «Viana» in ossequio alle leggi brasiliane di riforma dell’ortografia della lingua portoghese), condannato per qualche decennio all’oblio a causa dell’uso di categorie razziali (accompagnato peraltro da una critica del razzismo nazional-socialista) e per l’appoggio attivo alla dittatura di Getúlio Vargas (1882-1954), ma oggi oggetto di una certa riscoperta (cfr. Murilo de Carvalho 1991); l’altro, Gilberto de Mello Freyre (1900-1987), celebrato in tutto il mondo anche se a sua volta non esente nelle prime opere (dove pure critica Vianna sul punto) dall’utilizzo di parametri riferiti alla razza (peraltro, sia in Freyre sia in Vianna, positivisticamente descrittivi e non prescrittivi), di cui oggi nessun sociologo si servirebbe più – Corrêa de Oliveira arricchisce l’edizione brasiliana della sua ultima opera, dedicata al magistero di Pio XII sulle élite, di oltre cinquanta pagine sulla «nobiltà della terra» brasiliana nei cicli del legno brasile, della canna da zucchero, dell’oro e delle pietre preziose e del caffè (Corrêa de Oliveira 1993, 159-201). Questi cicli – ricostruiti da un ulteriore sociologo brasiliano, Fernando de Azevedo (1894-1974), come vere e proprie civiltà agrarie, cui la produzione dominante conferisce caratteristiche tra loro distinte – offrono all’agricoltura e alla stessa società brasiliana i suoi caratteri unici, che in una certa misura permangono fino a oggi. I testi pubblicati nel 1993 – talora ridotti da critici frettolosi a una semplice difesa acritica del (grande) proprietario terriero – mostrano invece come Corrêa de Oliveira, pure avendo deciso di dedicare la vita all’apologetica sociale cattolica, fosse pure un conoscitore profondo dei testi e ancor più dello spirito della grande scuola brasiliana di scienze sociali, oggi sempre più apprezzata – in particolare grazie a Gilberto de Mello Freyre – per il suo contributo alla sociologia internazionale, e nell’ambito dei cui lavori lo studio del pensatore di San Paolo sulle élite in Brasile s’inserisce a pieno titolo.

La denuncia dei progetti di riforma agraria «confiscatori» s’inquadra pure nella convinzione che essi favoriscano – tanto sul terreno propagandistico come su quello sociale – il socialismo e il comunismo. Neppure dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico Plinio Corrêa de Oliveira è convinto che il comunismo sia «morto»: in una Postfazione del 1992 a Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (inclusa nella quarta edizione italiana, del 1998) ritiene altrettanto, se non più, convincente l’ipotesi che sia «semplicemente entrato in un complicato processo di metamorfosi» (Corrêa de Oliveira 1998, 183). Si tratta però di una «preferenza» interpretativa: «solo il futuro potrà dare certezze» (ibidem, 184). In un Paese come l’Italia, dove ancora all’inizio del 2008 – prima delle elezioni del 13-14 aprile – due partiti che avevano orgogliosamente nel loro nome l’aggettivo «comunista» facevano parte della maggioranza e del governo, e dove comunque molti dirigenti della sinistra provengono dal vecchio Partito Comunista Italiano, l’idea che la morte del comunismo – piuttosto che una sua «metamorfosi», che è cosa diversa – fosse stata annunciata con un po’ di precipitazione non dovrebbe stupire eccessivamente.

Questo non significa, peraltro, che Corrêa de Oliveira – come certi critici hanno preteso – riduca il processo rivoluzionario al comunismo, e consideri gli altri aspetti del medesimo processo come meramente secondari. Non solo infatti, attraverso le varie edizioni, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione ha incorporato – dopo l’analisi della III Rivoluzione, comunista – la nozione di IV Rivoluzione, rivoluzione culturale iniziata emblematicamente nel 1968 di cui sono tra l’altro espressione le leggi che liberalizzano l’aborto e la droga. Ma nei Commenti inclusi nell’edizione del 1992 della sua opera principale, il pensatore brasiliano accenna pure alla «possibile invasione dell’Europa Occidentale da parte di orde di affamati provenienti dall’Oriente e dal Maghreb» (in gran parte, «orde maomettane») nonché da Paesi ex-comunisti ridotti alla miseria: in questo senso, «i diversi tentativi di albanesi bisognosi di penetrare in Italia sarebbero stati come un primo saggio di questa nuova “invasione barbarica” in Europa» (ibidem, 165). Dalla Postfazione alla stessa edizione emerge come non vi sia nessun disprezzo per gli immigrati in Europa, meritevoli piuttosto di compassione come «povera gente, piena di fame e vuota di idee» (ibidem, 180). Ma – sempre a titolo di ipotesi, non solo da verificare ma se possibile da scongiurare – lo scontro fra gli immigrati e un mondo «che, per certi aspetti, potrebbe essere qualificato come supercivilizzato e, per altri, come putrefatto» potrebbe degenerare in «un mondo di anarchia totale, di caos e di orrore, che non avremmo timore di qualificare come di V Rivoluzione» (ibidem, 181). Come si vede – dieci anni prima dell’11 settembre 2001 e delle tornate elettorali della seconda metà degli anni 2000 in Olanda, Francia e Italia, per molti versi dominate dalla questione dell’immigrazione – la curiosità intellettuale di Corrêa de Oliveira, ben lungi dal richiudersi sul solo orizzonte del comunismo, lo spinge a formulare ipotesi che, rilette oggi, appaiono di singolare attualità.

Possiamo così arrivare a un’osservazione d’insieme sul pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira negli anni del Concilio «integrale». Da una parte, il pensatore brasiliano segue dapprima con quella «certa difficoltà a fidarsi» cui abbiamo fatto cenno, poi con sempre maggiore speranza il magistero di Giovanni Paolo II e della Congregazione per la Dottrina della Fede che – mentre interpreta il Concilio in continuità con il magistero precedente – critica sistematicamente la teologia della liberazione d’ispirazione marxista e la sua egemonia su una buona parte del mondo cattolico latino-americano. Questo rapporto di speranza che lo lega al magistero di Giovanni Paolo II separa Corrêa de Oliveira e la TFP dall’ambiente cosiddetto «tradizionalista» legato a monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991) e a monsignor Antonio de Castro Mayer (1904-1991), da cui anzi negli anni 1980 e 1990 vengono spesso alla TFP le critiche più virulente, quando non diffamatorie. Dall’altra parte, Corrêa de Oliveira percepisce la «lunghezza» peculiare del postconcilio in Brasile, e si può dire che ne avverta tutta la fatica. Se segnala come anche tra i vescovi brasiliani si manifestino incoraggianti segni di fedeltà alle indicazioni romane in tema di teologia della liberazione, quest’ultima continua ad apparirgli come vitale e anzi egemonica in molti ambienti. La questione della riforma agraria – che non può essere ridotta a qualche slogan e che, come si è visto, implica insieme complessi aspetti tecnici e rimandi storico-sociali alla formazione stessa della nazione brasiliana – diventa la bandiera di un contrasto che permane fra la TFP e la CNBB, ed era stata del resto già al centro della rottura – ufficializzata nel 1970 e non meno dolorosa di quella con monsignor de Castro Mayer – fra Plinio Corrêa de Oliveira e un altro amico fraterno dagli anni dell’Azione Cattolica a quelli del Concilio a Roma, il padre verbita e arcivescovo di Diamantina Dom Geraldo de Proença Sigaud, S.V.D. (1909-1999). Come si è accennato, «tradizionalisti» e «progressisti» sono, paradossalmente, uniti dall’interpretazione del Concilio secondo quella che Benedetto XVI chiama «ermeneutica della discontinuità e della rottura». In Brasile (e non solo) negli anni 1980 si manifesta la stessa paradossale unità in occasione di una serie di campagne contro la TFP e il suo fondatore.

 

Purezza e pericolo: la questione della natura della TFP

La Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Familia e Propriedade (TFP) nasce, come si è accennato, nel 1960, come sviluppo di gruppi di amici e collaboratori che si erano raccolti intorno a Plinio Corrêa de Oliveira fin dagli anni 1930. Non è mia intenzione seguirne qui l’attività esterna, percepita dai suoi membri come una lunga «epopea anticomunista» (Borelli Machado e de Oliveira Campos Filho 1980) nel corso della quale la TFP brasiliana ha acquisito associazioni sorelle in numerosi Paesi di tutti i continenti, ha diffuso centinaia di pubblicazioni, ha condotto campagne internazionali di grande rilievo anche mediatico, tra l’altro – senza che la lista sia certamente esaustiva – per la diffusione dei principi della dottrina sociale cattolica, del Rosario, del messaggio di Fatima e contro il comunismo, il divorzio, l’aborto, il regime di Fidel Castro a Cuba, la teologia della liberazione e il socialismo cosiddetto «autogestionario» del presidente francese François Mitterrand (1916-1996). D’altro canto, le idee diffuse dalla TFP – che da questo punto di vista è «anzitutto una scuola di pensiero» (Corrêa de Oliveira 1985b, 132) – corrispondono a quelle che maturano durante l’itinerario intellettuale del suo fondatore, che fin qui abbiamo cercato di seguire. Merita invece qualche cenno la questione della struttura interna, che è stata oggetto d’interventi di carattere polemico – seguiti da puntuali repliche dell’associazione che, se hanno forse sviato risorse che avrebbero potuto essere consacrate alle attività esterne, costituiscono però per lo studioso una preziosa fonte quanto all’auto-comprensione della TFP da parte dei suoi membri – ma raramente di tentativi di comprensione ispirati alle scienze sociali.

La caratteristica della TFP – almeno di quella brasiliana, e con riferimento alla maggior parte (mai alla totalità) dei suoi membri – è di essere quello che i sociologi chiamano un gruppo communal, di cui la traduzione italiana «comunitario» (accanto alla quale qualcuno usa «comunalistico», che è però un neologismo che stenta ad affermarsi) ha senso solo se si precisa che è usata in un senso tecnico. Un gruppo communal, cioè, è quello i cui membri non si limitano a ritrovarsi insieme con frequenza settimanale o mensile ma vivono insieme e, in questo caso, hanno per la quasi totalità rinunciato al matrimonio, senza diventare per questo né sacerdoti né religiosi. Non vi è qui, nell’ambito della Chiesa cattolica, una particolare novità o singolarità: la vita consacrata, come ricorda Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Vita consecrata del 1996, è «una pianta dai molti rami» di cui nascono continuamente, ma per altro verso da sempre, «nuove espressioni» che coinvolgono, appunto, anche i laici (Giovanni Paolo II 1996a). La peculiarità della TFP sta altrove. Normalmente la vita consacrata e comunitaria nella Chiesa cattolica, per quanto nata spontaneamente, se intende trasformarsi da esperimento in struttura permanente cerca l’approvazione della Chiesa che ne riconosce l’autenticità e ne approva, se del caso suggerendo variazioni, gli statuti.

Da un punto di vista sociologico, proprio qui sta la differenza fra le comunità di vita consacrata che vivono all’interno della Chiesa cattolica (e talora – ma più raramente – all’interno di altre grandi Chiese e comunità religiose, per esempio della Comunione Anglicana) e i gruppi comunitari che nascono come mero esperimento sociale o politico o come nuovi movimenti religiosi, oggetto di quella branca delle scienze sociali che va sotto il nome di communal studies. Su questa disciplina (così come sullo studio dei nuovi movimenti religiosi, molti dei quali sono comunitari) ha avuto una grande influenza l’antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007) che, nell’opera fondamentale del 1966 Purity and Danger, parte da osservazioni sulle culture africane per criticare l’idea tradizionale nella scienza antropologica secondo cui i divieti di mangiare certi cibi o altre regole religiose troverebbero le loro radici in ragioni igieniche. Al contrario, si tratta di marcare i confini tra «noi» e «loro», fra chi fa parte di una tribù o società e chi le rimane esterno ed estraneo. Ogni realtà sociale, e tanto più quelle religiose, difende la sua «purezza» attraverso sistemi di regole, che hanno una portata non solo morale o pratica ma anzitutto simbolica, e mirano a difendersi dal «pericolo» (anche qui non soltanto né necessariamente fisico, ma culturale e simbolico) rappresentato da chi del gruppo non fa parte (Douglas 1966).

Un postulato dei communal studies è che i gruppi comunitari sono quasi sempre effimeri (nel senso che vivono pochi decenni, non pochi anni), in quanto la relazione fra «purezza» e «pericolo» finisce in genere per manifestarsi come tensione, che porta alla trasgressione delle regole da parte di alcuni, alla nascita di fazioni e infine alla disintegrazione del gruppo – ovvero alla sua trasformazione in movimento non comunitario. Il postulato vale però per i gruppi comunitari, per così dire, indipendenti: esperimenti sociali o politici, nuovi movimenti religiosi, dove al di fuori del gruppo di coloro che vivono insieme non c’è nulla. Non vale, invece, per i gruppi comunitari che si costituiscono all’interno di grandi Chiese o comunità religiose. Qui infatti la tensione da una parte è ultimamente controllata e regolata da un’autorità esterna al gruppo, dall’altra è stemperata dall’interscambio continuo con chi fa parte della stessa Chiesa ma vive all’esterno della struttura communal. Da questo punto di vista un monastero di clausura di suore all’interno della Chiesa cattolica è assai meno isolato, e – per usare le categorie di Mary Douglas – ha confini nei confronti del «pericolo» esterno assai meno rigidi e angoscianti rispetto a un nuovo movimento religioso comunitario, che magari non pratica la clausura (e spesso neppure la castità) ma resta autoreferenziale e non può contare sui benefici che derivano dall’essere inserito in una realtà più grande. Per questa ragione gli esperimenti communal all’interno della Chiesa cattolica o di altri grandi comunità religiose spesso si consolidano e diventano permanenti, mentre quelli «indipendenti» raramente durano più di qualche decennio.

La TFP, almeno prima delle divisioni successive alla morte di Plinio Corrêa de Oliveira, è stata un gruppo comunitario cattolico che non ha cercato il riconoscimento della gerarchia ecclesiastica, non sottoponendosi quindi a una procedura di «autenticazione» e di controllo da parte di un’autorità esterna. Se nella Chiesa cattolica questo è consueto per gruppi in statu nascenti, non lo è per realtà consolidate i cui membri vivono insieme per trenta o quarant’anni. In una delle risposte ai detrattori che inducono negli anni 1980 la TFP a riflettere sulla sua natura ci sono affermazioni molto significative al riguardo: e non è troppo importante che a firmare l’opera sia quell’Atila Sinke Guimarães che, come si è accennato, lascerà la TFP dopo la morte del fondatore dando vita a uno scisma «di destra», Tradition in Action. In verità, le risposte ai critici erano elaborate da commissioni, e riviste dallo stesso Corrêa de Oliveira. Scrive dunque Guimarães nel 1985 che fin dalla fine degli anni 1930 «già nel gruppo di soci della Congregazione Mariana da cui risultò più tardi la fondazione della TFP (26 luglio 1960), c’era tra i membri un’oscillazione dell’anima molto frequente, che consisteva nell’aspirazione a trasformarsi in istituto religioso, o di entrare in blocco in qualche istituto già esistente, la cui famiglia di anime fosse affine alla propria. Furono fatti passi e tentativi in questo senso», che non diedero esito (Guimarães 1985, 158). Ma questo appunto non è inconsueto fra chi comincia un cammino nuovo.

Quarant’anni dopo, nel 1976, «vari soci della TFP si chiesero se non fosse arrivato il momento di pensare a una trasformazione dell’associazione da società civile a istituto secolare», che poteva sembrare la forma prevista dalla Chiesa per un gruppo di laici consacrati con una vocazione particolare (Guimarães 1985, 159). «Il giorno 5 febbraio 1976 furono esposti in una riunione del Consiglio nazionale studi seri e approfonditi sulla materia. La conclusione fu peraltro chiara: considerato il presente stato deplorevole di una parte considerevole della Gerarchia cattolica in Brasile in relazione non solo a problemi dottrinali ma anche a questioni socio-economiche, era evidente che sarebbe stato imprudente proporre qualsiasi trasformazione della TFP che l’avesse portata a dipendere dall’autorità ecclesiastica» (ibidem). Questo brano è molto importante, perché mostra come i dirigenti della TFP erano consapevoli che in condizioni normali l’associazione, dopo quelli che per molti erano trenta o quarant’anni di vita comunitaria con promessa di celibato, avrebbe dovuto cercare il riconoscimento della Chiesa nella forma di istituto secolare o in altra forma. Tuttavia nel 1976 la TFP riteneva, per ragioni già ampiamente illustrate, che le condizioni in Brasile nella Chiesa cattolica non fossero normali, che mettersi sotto la dipendenza diretta dall’autorità ecclesiastica brasiliana sarebbe stato – per usare un eufemismo – «imprudente» e che si dovessero attendere tempi migliori.

Peraltro il testo prosegue affermando che questa ragione di prudenza per non chiedere il riconoscimento del proprio cammino da parte dell’autorità ecclesiastica fu «preponderante» ma non «unica» (Guimarães 1985, 159). Dopo tanti anni, «non c’era ancora una definizione sufficiente, nella famiglia di anime, per dare soddisfazione all’unanimità delle aspirazioni religiose dei suoi membri: alcuni pensavano alla formazione di una società la cui costituzione fosse animata dallo spirito degli antichi ordini cavallereschi; altri a una congregazione religiosa; alcuni preferivano una forma di vita in cui non abbandonassero il loro stato di laici. Anche per questa ragione si ritenne migliore non costituire in modo precipitoso una realtà che non corrispondesse alle aspirazioni della totalità dei suoi membri» (ibidem). E tuttavia nella TFP c’erano voti e promesse. Il testo firmato da Guimarães nasce con l’obiettivo immediato di rispondere alle accuse – diffuse dalla prima volta nel 1985 da un sarto, Giulio Folena, che era stato espulso dalla TFP nel 1964 per questioni di moralità personale – secondo cui all’interno della TFP esisteva una «società segreta» i cui membri si legavano al fondatore con una particolare forma di «schiavitù», parola – come si capisce facilmente – destinata a suscitare emozioni, tanto più in un Paese come il Brasile che aveva conosciuto l’istituzione della schiavitù dei neri importati dall’Africa per lavorare nelle piantagioni. Si trattava in realtà, molto semplicemente, della nota consacrazione alla Madonna proposta nel citato Trattato della vera devozione a Maria Vergine di san Luigi Maria Grignion de Montfort, un testo – che, come si è visto, tanta parte ha avuto nella vita spirituale di Papa Giovanni Paolo II – al cui centro sta precisamente una nozione di «schiavitù», cioè di consacrazione totale di tutti i propri beni, anche spirituali e compresi i propri meriti, alla Madonna o, più precisamente, allo stesso Gesù Cristo per mezzo di Maria. Nel 1967 un gruppo di soci della TFP aveva deciso di pronunciare in modo solenne la consacrazione – utilizzando la formula della «schiavitù» spirituale del Trattato di Montfort – alla Santa Vergine nelle mani di Plinio Corrêa de Oliveira come superiore della «famiglia di anime» costituita dalla TFP.

La reazione immediata che suscita la parola «schiavitù» è comprensibile. Tuttavia la parola non può essere eliminata dal testo del Montfort (come talora purtroppo avviene in qualche edizione o traduzione contemporanea) senza tradirne non solo la lettera ma anche lo spirito. Risponde a ogni possibile obiezione Giovanni Paolo II, che si era consacrato alla Madonna appunto secondo la formula della «santa schiavitù» del Montfort, cui allude la citata divisa pontificia Totus tuus: «La mia devozione mariana così modellata – ne do oggi soltanto un’idea in breve – dura in me da allora [dalla consacrazione]. È parte integrante della mia vita interiore e della mia teologia spirituale. Si sa che l’autore del trattato definisce la sua devozione come una forma di “schiavitù”. La parola può urtare i nostri contemporanei. Per conto mio, non vi trovo alcuna difficoltà. Penso che si tratti di una sorta di paradosso come se ne trovano spesso nei Vangeli, perché le parole “santa schiavitù” significano che non potremmo usare meglio la nostra libertà, il più grande dei doni che Dio ci abbia fatto» (Frossard 1983, 159).

Secondo il testo firmato da Guimarães nel 1985, «a cominciare per lo meno dall’anno 1961 cominciò a manifestarsi nella famiglia di anime della TFP una tendenza alla pratica della perfezione evangelica» (Guimarães 1985, 224). Una delle strade battute era quella, tradizionale, di un terz’ordine: quello carmelitano, del cui gruppo chiamato Virgo Flos Carmeli, che dipendeva dalla Provincia Fluminense dell’Ordine dei Carmelitani dell’Antica Osservanza (Calzati), di cui Plinio Corrêa de Oliveira fu, per diversi periodi triennali, priore e maestro dei novizi (ibidem), con il nome religioso (consueto fra i carmelitani anche nel terz’ordine) di Isaia di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso («O profeta Elias: seu papel histórico» 1998, 19). Contrasti sulle posizioni dottrinali e sociali della TFP portarono però la Provincia Fluminense dei Carmelitani Calzati a ritirare il suo riconoscimento al gruppo Virgo Flos Carmeli. Alcuni membri della TFP cominciarono allora a chiedere di potere pronunciare voti privati nelle mani di Corrêa de Oliveira come loro superiore nella «famiglia di anime» TFP. Nel 1967 essi chiesero al fondatore della TFP di «accettare le loro rispettive consacrazioni come “schiavi” della Santissima Vergine e di considerarli in conseguenza come un superiore religioso considera un sottoposto» (Guimarães 1985, 226). «In queste richieste traspariva la già citata tendenza della famiglia di anime della TFP di costituire un giorno una famiglia religiosa» (ibidem). Questo esperimento, finalmente accettato da Corrêa de Oliveira e che ha alimentato tutta una letteratura critica, in realtà «durò approssimativamente dal maggio 1967 al dicembre dello stesso anno» (ibidem, 228). Dopo la bella cerimonia della consacrazione, la maggior parte dei consacrati «cominciò purtroppo a disinteressarsene» né la loro vita manifestò nella pratica alcun cambiamento: e «siccome la consacrazione non obbligava sotto pena di peccato» al fondatore non restò che prendere atto che l’esperimento era sia finito sia fallito (ibidem, 228-229). L’espressione «Sempre Viva», che ritorna nelle opere dei detrattori, non indica una tenebrosa società segreta, ma il «ristretto di fervore» che nel 1967 fa la consacrazione, e che dopo il 1967 cessa di esistere come tale (anche se continuano a fare parte della TFP i suoi membri).

Otto anni dopo, nel 1975, dopo avere ottenuto pareri favorevoli da vari canonisti quanto alla possibilità per le associazioni non riconosciute dall’autorità ecclesiastica di fare pronunciare ai propri membri dei voti privati (successivamente sarà interpellato, e darà anch’egli un’opinione favorevole, pure uno dei più noti canonisti dell’epoca, il domenicano spagnolo Arturo Alonso Lobo, OP), cioè «emessi nelle mani di una persona che li accetta in nome proprio e privato, distinti dai voti pubblici, emessi nelle mani di un superiore ecclesiastico legittimo, che li accetta in nome della Chiesa» (Guimarães 1985, 179), la TFP comincia ad avere membri che pronunciano voti di obbedienza e castità (non di povertà) o promesse di celibato (ibidem, 180). Alcuni, detti «eremiti» e «camaldolesi», aggiungono una promessa di silenzio e di rispetto della regola ispirata alla spiritualità camaldolese secondo quella che era stata l’intuizione di un dirigente della TFP prematuramente scomparso, Fabio Vidigal Xavier da Silveira (1934-1971). La differenza fra le due categorie è che gli «eremiti» (ma non i «camaldolesi») escono con una certa regolarità dagli «eremi» per partecipare alle campagne pubbliche della TFP. «Coloro che in precedenza [nel 1967] si erano consacrati come “schiavi” fecero nella maggior parte dei casi anche i voti [nel 1975], senza che i voti avessero alcuna relazione con la consacrazione precedente» (ibidem, 229). Che cosa era avvenuto? «Capita frequentemente, nelle famiglie religiose nascenti, che certi vincoli societari in embrione si vadano costituendo intorno a ideali. È quanto accade nella TFP, con riferimento all’ideale di vita religiosa che germina nella famiglia di anime della società civile. I vincoli individuali di ordine spirituale che ora esistono nella TFP si svilupperanno fino al punto di dare luogo, un giorno, a un’altra associazione? In caso affermativo, come si struttureranno le relazioni di questa con l’associazione civile TFP? Sono questioni cui solo il futuro potrà dare una risposta adeguata. Quale sarà la forma individuale di associazione cui questi vincoli daranno luogo? Sarà un Ordine o Congregazione contraddistinta dallo spirito della Cavalleria, in una forma adeguata al nostro secolo in cui la guerra psicologica diventa sempre più importante ed efficace? Sarà una Congregazione Religiosa? Sarà un Istituto Secolare? È impossibile rispondere, perché al momento le tendenze all’interno della famiglia di anime della TFP non hanno ancora acquisito sufficiente chiarezza e consenso generale perché si possa dire che il suo futuro dovrà concretizzarsi in tale o talaltra formulazione giuridica» (ibidem, 266).

La TFP è stata talora considerata – nell’ambito di campagne su cui torneremo, promosse in particolare da ambienti «lefebvriani» – come un’associazione «anticlericale». Nel significato corrente del termine, si tratta evidentemente di un’accusa assurda: oppositori laicisti hanno accusato spesso la TFP precisamente del contrario (cfr. Coppe Caldera 2005). Tuttavia, quando la critica proviene dal mondo legato a monsignor Lefebvre, si comprende meglio di che cosa precisamente si tratti. Per monsignor Lefebvre la crisi della Chiesa cattolica postconciliare è essenzialmente una crisi di sacerdoti – e di vescovi: di qui, infine, le ordinazioni illecite di vescovi del 1988 che lo portano alla scomunica – e il modo principale di affrontare questa crisi è dunque la fondazione di seminari «tradizionalisti». Nella prospettiva di monsignor Lefebvre, il fatto che nella TFP ci siano centinaia di persone consacrate che tuttavia non aspirano al sacerdozio costituisce uno sviamento di energie che potrebbero e dovrebbero assai più utilmente essere indirizzate verso la vita sacerdotale. La questione non si riduce a un mero atteggiamento di «arruolatore» da parte di monsignor Lefebvre, comprensibilmente interessato ad aumentare le fila dei suoi sacerdoti e seminaristi, ma investe problemi dottrinali del tutto cruciali sul ruolo dei laici nella Chiesa, oltre che sulla natura della TFP.

Plinio Corrêa de Oliveira affronta queste questioni in una riunião de recortes (cioè in una delle riunioni in cui esaminava e commentava ritagli di giornale significativi) tenuta il 9 aprile 1983, che i membri della TFP considerano particolarmente importante per quella che, tra il serio e il faceto, chiamano «TFPologia», un’espressione non priva di un tono scherzoso ma che mostra come il problema dell’esatta natura della TFP fosse una preoccupazione costante. A questa riunione sono presenti tre sacerdoti, fra cui uno della Fraternità Sacerdotale San Pio X di monsignor Lefebvre (con cui, all’epoca, la TFP è già in fase di rottura), don Giulio Maria Tam, spirito indipendente e in particolare, ben più di altri presbiteri della medesima Fraternità, interessato alla politica (un interesse che lo porterà molti anni più tardi alla rottura con l’organizzazione creata dal vescovo francese e alla fondazione di una minuscola realtà autonoma). Corrêa de Oliveira esamina brevemente alcuni ritagli di giornale e dedica la gran parte della lunga riunione, di cui esistono una registrazione e una trascrizione (Corrêa de Oliveira 1983), a spiegare a tutti i presenti – e in particolare a don Tam – «la posizione della TFP fra Chiesa e Stato». Esordisce ricordando alcuni principi che definisce «ovvi» per un cattolico che conosca il magistero. Chiesa e Stato sono entrambe società perfette. La società temporale è «completamente autonoma» nelle materie strettamente temporali. Esistono «materie miste» che interessano sia allo Stato sia alla Chiesa, che da una parte attengono alla sfera temporale ma dall’altra «coinvolgono l’osservanza dei dieci comandamenti» e in cui «la Chiesa ha una parola da dire» né può essere accusata d’ingerenza se si esprime. Per esempio, una legge in materia di aborto è certo una legge dello Stato, ma per la Chiesa coinvolge aspetti essenziali della legge naturale e della sua dottrina.

La società temporale, ha anzitutto «una funzione logistica» nei confronti della Chiesa: costituisce una sorta di «alloggio» in cui la Chiesa vive e opera. Ma non è semplicemente un «albergo», il cui proprietario dopo avere affittato la camera si disinteressa completamente dell’ospite (Corrêa de Oliveira 1983). Anche la società temporale ha una sua «funzione per la salvezza delle anime», una «funzione apostolica», una «finalità ministeriale» (ibidem): sia negativa – nel senso che non deve porre ostacoli (come purtroppo spesso fa) alla missione della Chiesa, sia anche positiva, perché – nel rispetto della natura sua propria e del bene comune – spesso può creare un clima favorevole all’azione della Chiesa. Il pensatore brasiliano non cita qui un’espressione di Pio XII, che menziona però altrove: «dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime» (Pio XII 1941).

E tuttavia c’è di più. La società temporale non si limita a svolgere una «funzione di servizio alla Chiesa» – il che certamente «è una buona cosa» – ma ha pure «una finalità propria», che in astratto può essere considerata a prescindere dai servigi che rende alla Chiesa (Corrêa de Oliveira 1983). Questa finalità è anzitutto simbolica: se «i cieli narrano la gloria di Dio» (Salmi 19, 2), tanto più può essere simbolo della gloria di Dio la società, che è un insieme di persone umane, ciascuna delle quali è l’opera più perfetta uscita dalle mani del Creatore. Ma non è soltanto simbolica: la società temporale è chiamata a dare gloria a Dio. La società, insiste Plinio Corrêa de Oliveira, e non solo lo Stato: anche «una scuola, un’università, una famiglia, un’accademia di letteratura» e così via a loro modo sono chiamate a rendere gloria a Dio (ibidem). Benché esistano casi insigni di supplenza in questi ambiti a opera di ecclesiastici – che sono stati anche capi di governo e ministri – si tratta, appunto, di supplenza. Fare sì che le realtà temporali diano gloria a Dio è opera propria dei laici, in gran parte svolta in ambienti dove nell’epoca moderna il clero per di più ha difficoltà a penetrare. Beninteso, quest’opera ridonda anche a vantaggio del clero che in una società completamente estraniata da Dio e dalla religione non potrebbe più svolgere la sua funzione. Così certo il parroco è il «cuore» di una parrocchia ma senza le «braccia» costituite dai laici cattolici (ibidem) l’efficacia della sua opera sul tessuto sociale del suo territorio parrocchiale sarebbe molto scarsa.

Tra le due funzioni della società temporale – la creazione di un ambiente favorevole per la Chiesa e il rendere gloria a Dio – non c’è separazione: si tratta sempre della stessa società. Di più: le stesse persone laiche appartengono alla Chiesa in quanto fedeli e alla società temporale in quanto cittadini, imprenditori, professionisti, lavoratori dipendenti, padri di famiglia. La distinzione non implica separazione, insegna il magistero, che auspica invece collaborazione. Ma, perché ci sia collaborazione, occorre un apostolato specializzato di laici che svolgano la funzione di elemento di collegamento e di legame. Corrêa de Oliveira usa le espressioni presilha e agrafe, che indicano la spilla o la graffetta che tengono insieme, per esempio, due fogli – i quali rimangono distinti e non si confondono fra loro, acquistando nello stesso tempo un collegamento e un’articolazione – per indicare la funzione della TFP nel porsi al servizio di un raccordo fra Chiesa e società temporale. Ma «quale specie di agrafe è la TFP?» (Corrêa de Oliveira 1983). Il pensatore brasiliano propone il paragone con l’Opus Dei, «da cui ci separano differenze di mentalità e di spirito» ma che «ha questa caratteristica»: di contare nelle sue fila, oltre a sacerdoti che non sono però maggioritari e sembrano piuttosto «cappellani dei laici che sono la materia prima di questa realtà», una maggioranza di laici che possono «privatamente condurre la vita di un religioso» e nello stesso tempo «per le loro occupazioni quotidiane fare parte a pieno titolo della vita laica, appartenere alla vita laica» (ibidem). Attraverso questo commercium da laico a laico nella vita quotidiana della società il socio della TFP, che privatamente in molti casi vive come un religioso, può precisamente interagire con i laici e «formare l’opinione» perché la società possa cooperare con la Chiesa e ultimamente rendere gloria a Dio (ibidem).

«Formare l’opinione» non significa sostituirsi alle autorità. «La TFP potrà accettare, in via eccezionale, di collocare in questa o quella posizione temporale eminente una persona che ne faccia parte. Ma non è questa l’indole della TFP […]. Quello che possiamo fare è consigliare coloro che hanno autorità. Se vogliono ascoltare i nostri consigli. Non abbiamo il diritto di costringerli ad ascoltarci, né nell’ordine spirituale né nell’ordine temporale. Ma, consultati, dobbiamo di buon grado offrire i nostri consigli, che risultano da un’attenzione continua, da un desiderio continuo di servire, da una fedeltà continua» (Corrêa de Oliveira 1983). In questa autentica lezione – che trae occasione dalla visita di don Tam, comunque problematica considerati i rapporti fra la TFP e i «lefebvriani» (Guimarães, Solimeo e Scognamiglio Clá Dias 1984, vol. I, pp. 144-154) – il pensatore brasiliano passa dall’ascetica alla mistica sociale. Alcune idee – del resto radicate nel decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam Actuositatem del Concilio Vaticano II, che la TFP cita più volte in quegli anni a proposito dell’opportunità e della libertà dell’azione dei laici cattolici – anticipano l’appello che sarà lanciato nel 2006 da monsignor Antonio Amato, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, rispondendo alla grave domanda su come fare penetrare il magistero della Chiesa nei vasti ambienti della società temporale che tendono a ignorarlo. «Per fare ciò – risponde monsignor Amato – ci vogliono professionisti, soprattutto laici – ai quali è demandato proprio questo campo di testimonianza cristiana nel secolo –, che conoscano le due lingue»: la lingua della Chiesa e la lingua della comunicazione comprensibile agli uomini e alle donne del nostro tempo (Amato 2006). Si tratta di un’osservazione d’interesse anche per i sociologi in un momento in cui – fra le due teorie sociologiche rivali della secolarizzazione e dell’economia religiosa – vi è chi propone una «terza via» che, sulla scorta della teoria generale dei sistemi, considera la religione essenzialmente come un sistema di comunicazione (Pace 2008). Il «bilinguismo» evocato da monsignor Amato corrisponde bene alla duplice natura del socio della TFP secondo Corrêa de Oliveira: anche se, per svolgere il compito prospettato dal presule italiano, non è necessario vivere privatamente come un religioso. Il testo del 1983 espone in modo particolarmente chiaro che cosa fa la TFP ma non risponde – né potrebbe farlo, nei limiti di una singola esposizione – a tutte le domande sulla sua struttura.

Occorre distinguere a questo proposito tre livelli diversi: di diritto canonico, di diritto civile e sociologico. Dal punto di vista canonico, il parere di illustri canonisti confortava la TFP quanto al fatto che nessuna norma canonica vietasse i voti privati. Tuttavia i brani citati mostrano come la TFP e il suo fondatore percepissero chiaramente questa situazione come provvisoria, e rimanessero in fiduciosa attesa sia che la situazione della gerarchia cattolica brasiliana permettesse un giorno un contatto aperto e senza riserve mentali, sia che la storia e la Provvidenza mostrassero più chiaramente quale forma giuridica la TFP avrebbe dovuto assumere nella Chiesa. Dal punto di vista del diritto civile, la TFP – che era anche una famiglia di anime regolata dai voti privati emessi nelle mani del fondatore – si presentava come un’associazione retta dal suo statuto.

Il 5 giugno 1995 – in occasione di una campagna denigratoria contro la TFP in Spagna – una lettera particolarmente ostile all’associazione è firmata da monsignor João Corso, allora vescovo di Campos, incarico da cui si dimetterà il successivo 22 dicembre 1995, in seguito a vicende collegate alla mancata soluzione del delicato problema posto dalla presenza a Campos di una «diocesi parallela» composta da sacerdoti e fedeli che rimangono fedeli al defunto vescovo precedente monsignor Antonio de Castro Mayer, che – come si ricorderà – era stato scomunicato nel 1988 insieme con monsignor Lefebvre. Nella loro stragrande maggioranza, i membri di questa «diocesi parallela», una volta sostituito monsignor Corso, inizieranno un cammino che li porterà nel 2002 alla piena riconciliazione con la Santa Sede. La lettera del 1995 di monsignor Corso è indirizzata a un attivista di estrema destra all’epoca impegnato in una campagna contro la TFP dopo essere stato incarcerato nel 1985-1986 come dirigente del movimento terroristico Milicia Catalana. Il testo del presule brasiliano, oltre ad accusare la TFP di collaborare con la «diocesi parallela» di Campos (una tesi che misconosce completamente la profondità della rottura tra la TFP e monsignor de Castro Mayer, e contro cui protesta pubblicamente lo stesso predecessore di monsignor Corso e immediato successore dello stesso monsignor de Castro Mayer nella sede episcopale di Campos, monsignor Carlos Alberto Etchandy Gimeno Navarro, 1931-2003), la definisce associazione «interamente indipendente dalla gerarchia». Come in altri casi, l’attacco è occasione per la TFP di riflettere sulla sua natura. La lunga risposta della TFP spagnola, personalmente rivista da Plinio Corrêa de Oliveira in una delle sue ultime fatiche prima della morte, precisa che «le TFP costituiscono dunque associazioni di natura mista: viste dall’angolazione della legge civile sono entità costituite secondo la normativa vigente e rette dagli statuti […]; viste attraverso il prisma del Diritto Canonico possono essere considerate associazioni private di fedeli, senza personalità giuridica ecclesiastica», che non hanno bisogno dell’autorizzazione della Chiesa per esistere e operare (TFP-Covadonga 1995, 24).

 La duplice natura di associazione civile e di famiglia di anime avrebbe un giorno dato luogo a problemi giuridici di cui avrebbero dovuto occuparsi i tribunali brasiliani e che esamineremo in un prossimo capitolo del nostro studio: ma dopo la morte del fondatore il quale, finché viveva, risolveva le tensioni grazie al suo carisma personale. Da un punto di vista sociologico, era sempre il carisma del fondatore a evitare che la dialettica fra «purezza» e «pericolo» avesse effetti di fazione o di dissidio. Ma, anche qui, i problemi si sarebbero manifestati dopo la morte di Plinio Corrêa de Oliveira.

 

«Amplificazione della devianza» e campagne contro la TFP

Vale la pena di aggiungere due osservazioni. La prima – sollecitata dalle campagne di stampa ostili degli anni 1980 e 1990 – è che altro è notare come i gruppi comunitari sono per loro natura esposti a tensioni, più facili da risolvere quando il gruppo è garantito da un’autorità esterna come di solito avviene nella Chiesa cattolica e come per circostanze particolari e anomale, di cui l’associazione era cosciente, non si verificò per la TFP; altro è ridurre queste tensioni allo stereotipo della «setta» che riuscirebbe a conservare i propri membri solo grazie a un mitologico «lavaggio del cervello», che peraltro è stato usato contro tutte le realtà communal, all’esterno e all’interno delle grandi religioni. Giacché ho trattato ampiamente altrove questo problema (cfr. Introvigne 2002), su cui esiste del resto una vasta letteratura sociologica, non ho ragioni di ritornarci in questa sede.

Se non per notare che il «panico morale» nei confronti delle «sette» – che è un importante oggetto di studio appunto in quanto paura sociale, non in quanto teoria che renderebbe ragione di certi fenomeni – si fonda su un modello in quattro stadi (descritto e criticato in Introvigne 2000; Richardson e Introvigne 2001; Richardson e Introvigne 2007): primo, le «sette» non corrispondono a esperienze religiose genuine (se fosse così, chi le demonizza dovrebbe dichiarare la sua intolleranza verso forme religiose che non gli sono simpatiche); secondo, non sono «religiose» perché ai movimenti religiosi si aderisce con un atto libero, mentre le «sette» manipolano le loro «vittime» con il «lavaggio del cervello». In terzo luogo, benché la letteratura accademica nella sua stragrande maggioranza consideri quello del «lavaggio del cervello» un concetto propagandistico e non scientifico, il modello sostiene che sappiamo che il «lavaggio del cervello» esiste sulla base dei resoconti delle «vittime», per definizione più attendibili degli accademici. In quarto luogo, all’obiezione accademica secondo cui le «vittime» che si trasformano in «apostati» (Bromley 1988; Bromley 1998) – che non è un insulto, ma un termine tecnico per indicare chi, lasciato un gruppo religioso, ne diventa un oppositore militante – sui cui resoconti si basa la narrativa della «setta» sono solo una minoranza tra i moltissimi che lasciano un movimento ogni anno per un normale effetto di turnover, il modello risponde che sappiamo che questi ex-membri sono più attendibili di altri perché sono presentati e garantiti alle autorità pubbliche e ai media da associazioni private, la cui ragione sociale fa riferimento alla difesa del corpo sociale contro le «sette», e che hanno a loro volta un’esperienza «sul campo» e «obiettiva», più affidabile di quella degli studiosi che spesso sono piuttosto «apologisti» prezzolati dalle «sette». Evidentemente, i quattro passaggi di questo fallace modello possono essere ridotti a uno: una «setta» è un gruppo identificato come tale dai movimenti di difesa contro le «sette», che assumono così il ruolo di «imprenditori morali» del panico sociale.

Per una serie di ragioni, anche la TFP, anche se non è mai stata uno dei loro obiettivi principali, è finita a partire dagli anni 1980 nel tritacarne dei movimenti anti-sette e «contro le sette». La terminologia che distingue fra movimenti «anti-sette» (anti-cult) che usano argomenti di tipo non religioso e «contro le sette» (counter-cult) che accusano le «sette» di eresia è stata coniata dal sottoscritto in un articolo pubblicato nel 1993 sulla rivista luterana («contro le sette», appunto) Update & Dialog (Introvigne 1993) e illustrata in una serie di pubblicazioni scientifiche degli anni successivi (Introvigne 1994; 1995a; 1995b). È però talora utilizzata in modo semplicistico da critici delle «sette» che spesso citano di seconda mano i miei testi senza averli letti, e non va assolutizzata. In effetti, i due movimenti s’influenzano a vicenda, come dimostra proprio l’esempio della TFP; inoltre, soprattutto fuori degli Stati Uniti, i critici «religiosi» dei movimenti «contro le sette» spesso non sono culturalmente attrezzati per criticare argomenti dei movimenti «anti-sette» nati come tesi laiciste contro la religione in genere, e li riprendono senza rendersi conto delle loro implicazioni. Nel caso della TFP gli «apostati» – ancora una volta da non confondere con gli ex-membri in genere, di cui rappresentano una minoranza – sono stati in parte (anche se alcuni hanno seguito percorsi più consueti) presentati ai movimenti anti-sette e ai media da ambienti «tradizionalisti» di tipo «lefebvriano», come si è visto ostili all’associazione fondata da Plinio Corrêa de Oliveira per problemi dottrinali, e particolarmente interessati ad attaccarla in quanto nella TFP vedono un pericoloso «concorrente» in grado di attirare persone simili per sensibilità a quelle che frequentano il mondo «tradizionalista».

Una volta lanciato il sasso dagli ambienti «lefebvriani», la mano che lo raccoglie può poi essere laicista, legata alla «teologia della liberazione», marxista o semplicemente pettegola e sensazionalistica, come avviene spesso quando i media decidono d’interessarsi alle «sette». Ma questa origine – non consueta nelle campagne anti-sette – delle accuse ne spiega il tono. Da una parte, infatti, una volta socializzato nell’ambiente atti-sette l’«apostata» dalla TFP ne adotta tutti i consueti stereotipi: «lavaggio del cervello», distruzione delle famiglie, sfruttamento delle «vittime» da parte del «capo» o «guru», e così via. Per quanto questi stereotipi siano stati non solo demoliti dalla letteratura scientifica, ma parzialmente abbandonati – almeno negli Stati Uniti – dai movimenti ostili alle «sette» più antichi o di prima generazione, c’è sempre qualcuno disposto a riprenderli, spesso ignorando decenni di dibattito sulla materia. Dall’altra, considerato l’intervento dei «lefebvriani» nel processo di socializzazione dell’«apostata» o almeno di divulgazione del materiale da lui fornito, emergono accuse meno consuete, di eterodossia dottrinale rispetto alla tradizione cattolica, che i movimenti e gli attivisti anti-sette laici talora ripetono dando l’impressione di non comprenderle neppure troppo a fondo, o cercano di ricondurre con fatica agli stereotipi per loro più consueti.

Il processo di «amplificazione della devianza» tipico delle campagne anti-sette spesso utilizza elementi che non sono inventati, ma cui è attribuita un’importanza del tutto esagerata rispetto al ruolo che l’elemento ha effettivamente nel gruppo che s’intende attaccare. Il gruppo attaccato si trova poi indotto a reagire rispondendo proprio sugli elementi specifici oggetto dell’attacco, così che – per uno di quegli effetti a spirale che si trovano al centro delle teorie sociologiche sull’amplificazione della devianza – l’impressione che l’elemento «deviante» marginale e secondario sia invece importante e primario esce rafforzata dal processo d’interazione fra il gruppo, che pure vorrebbe sostenere precisamente il contrario, e i suoi critici. Così, per esempio, il fatto che taluni movimenti religiosi internazionali abbiano per una breve stagione (giacché le illusioni si sono presto rivelate come tali) negoziato e cercato di venire a compromesso con il regime nazional-socialista in Germania (è il caso dei Testimoni di Geova, che del nazismo furono poi tra le vittime deportate nei campi di sterminio), o si siano conformati alla normativa sull’apartheid, cioè sulla separazione fra popolazione bianca e di colore, quando questa era in vigore in Sudafrica (è il caso della Chiesa di Scientology) – pratiche entrambe certo non raccomandabili, ma di cui si trovano purtroppo esempi anche nelle Chiese e comunità maggioritarie, per non parlare del mondo economico, culturale e accademico – nella ricostruzione degli imprenditori morali delle campagne anti-sette diventa, da elemento certo non da nascondere o tacere ma che non ha avuto un ruolo centrale nella storia e nell’identità di questi gruppi, la «prova» che si tratta «in realtà» di movimenti «nazisti» o «razzisti». Qualche cosa di simile avviene nei confronti della TFP per le manifestazioni di entusiasmo, talora discutibili, che coinvolgono soprattutto i membri più giovani e che s’indirizzano al fondatore o a sua madre, donna Lucilia Ribeiro dos Santos Corrêa de Oliveira (1876-1968), figura – peraltro –, al dire di coloro che l’hanno conosciuta, di notevole spessore umano e spirituale, nonché ideale anello di congiunzione con un «vecchio Brasile» cattolico e tradizionale che molti giovani collaboratori del figlio non avevano conosciuto se non sui libri (cfr. Scognamiglio Clá Dias 1995).

Nel 1983 il professore di scuola media secondaria Orlando Fedeli lascia la TFP per seguire le posizioni «lefebvriane» dell’ex-vescovo di Campos, monsignor Antonio de Castro Mayer, a sostegno delle quali fonda l’Associação Cultural Montfort, che diventa rapidamente un centro di diffusione di attacchi a Plinio Corrêa de Oliveira e alla realtà da lui fondata. Fedeli diffonde in particolare – oltre alla tesi già citata secondo cui membri della TFP si consacrerebbero come «schiavi» al loro fondatore – informazioni «scandalose» secondo cui nella stessa associazione s’insegnerebbe che Corrêa de Oliveira non morirà ma sarà rapito in Cielo su un carro di fuoco come il profeta Elia e si reciterebbero litanie e preghiere stravaganti in onore di donna Lucilia. Sempre nel 1983, dopo una corrispondenza con Fedeli, monsignor de Castro Mayer (che ha già rotto con la TFP, dal 1981 non è più vescovo di Campos, e nel 1988 sarà scomunicato) «condanna» la litania.

A titolo di risposta, da una parte Corrêa de Oliveira non abbandona in pasto ai lupi scatenati della stampa sensazionalista i suoi giovani discepoli troppo entusiasti, ma osserva puntigliosamente – fondandosi su pareri di teologi autorevoli, fra cui Antonio Royo Marín, OP (1913-2005) e Victorino Rodríguez y Rodríguez, OP (1926-1997) – che, a stretto rigore, chi ha sostenuto queste ipotesi o composto queste litanie non è caduto formalmente nel peccato di eresia. Dall’altra parte dichiara che si tratta di tesi e di pratiche che non hanno mai avuto una diffusione significativa nella TFP, elaborate da giovani o giovanissimi: per la tesi del carro di fuoco, si tratta del già citato Atila Sinke Guimarães in una fase iniziale della sua collaborazione con Corrêa de Oliveira quando, nel 1965, era poco più che un ragazzino (Corrêa de Oliveira 1985b, 244-245), per la litania di «due adolescenti nel tardo 1977» (de Mattei 1996, 249). La litania fu immediatamente vietata dal fondatore «non appena ne venne a conoscenza» (ibidem), mentre nel caso dell’ipotesi relativa al carro di fuoco, da lui definita «una mera congettura confinante con la fantasia», Corrêa de Oliveira ritenne che un intervento disciplinare avrebbe potuto dare al «piccolo incidente» più importanza di quella che aveva e che sarebbe stato giustificato solo se «l’ipotesi fosse stata diffusa in condizioni tali da poter mettere radici nelle fila dell’associazione. Ora, queste condizioni non esistevano neppure lontanamente» (Corrêa de Oliveira 1985b, 244-245). L’incidente sarebbe stato rapidamente dimenticato se non lo avesse riesumato Fedeli quasi vent’anni dopo, nel quadro di una denuncia della TFP come «setta millenarista» che sfrutta maliziosamente, quanto al tema del «Regno di Maria» che la TFP deriva da san Luigi Maria Grignion de Montfort, la confusione – che abbiamo già avuto occasione di menzionare – fra tale epoca favorevole per la Chiesa e il Millennio di certe dottrine protestanti. Per Corrêa de Oliveira il Regno di Maria non è un’epoca paradisiaca senza peccato: «La Rivoluzione continuerà – e di questo sono certo – anche nel Regno di Maria. Cellule rivoluzionarie continueranno a esistere, e saranno perfino peggiori di quelle di oggi. Sembra impossibile, ma sarà così. Perché il rifiuto delle grazie offerte nel Regno di Maria renderà gli uomini peggiori di quello che sono oggi» (Corrêa de Oliveira 1983).

Da un certo punto di vista, avremmo dedicato a questi incidenti uno spazio francamente eccessivo se l’attività di Orlando Fedeli e di altri «apostati» non avesse messo in moto il meccanismo tipico delle campagne anti-sette per cui degli incidenti di per sé non inventati ma del tutto periferici e marginali, assumono un significato esagerato e sono presentati come se fossero elementi centrali e definitori di un movimento. Ancora a distanza di venticinque anni dall’«apostasia» di Fedeli, non solo egli continua le sue campagne – servendosi dal 1999 anche di Internet – ma, grazie alla duplice filière «lefebvriana» e «anti-sette», queste accuse si sono ampiamente diffuse così che molti che non sanno quasi nulla del pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira, quando gli dedicano qualche riga o qualche pagina nel quadro di attacchi alla «destra cattolica», alle «lobby filo-americane» o alle «sette», presentano in modo grottesco la TFP come un movimento che ha o ha avuto come ragione sociale la diffusione della tesi dell’immortalità del suo fondatore e una forma stravagante di culto di Donna Lucilia. Di più: perfino tesi di laurea e autori con qualche pretesa di scientificità, quando si occupano della TFP, non resistono alla tentazione di citare per esteso la famosa litania: così come altri, tra centinaia di scritti di Corrêa de Oliveira, citano sempre e solo la pagina controversa sul Concilio Vaticano II di cui abbiamo trattato ampiamente nel precedente capitolo di questa ricerca, ovvero riducono la sua articolatissima disamina sulla questione agraria a una mera «difesa del latifondo». È questo il caso di un articolo, particolarmente infelice, del gesuita Jesús Hortal Sánchez, S.J. – rettore della Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro e certamente meglio ispirato su altri temi – che si risolve in un vero centone di luoghi comuni sulla TFP: e una conferma del fatto che si tratta di un testo scritto frettolosamente emerge già dalla prima pagina, dove si rubricano fra i «classici della spiritualità medioevale» (Hortal Sánchez 1998, 87) le opere di san Luigi Maria Grignion de Montfort, un autore nato nel 1673 e morto nel 1716 quando, salvo errori, il Medioevo era finito da un pezzo. È inoltre quanto meno curioso che questi autori sembrino tutti ignorare le risposte, articolate e perfino voluminose, consacrate dalla TFP a ogni singola accusa.

La stessa Conferenza Episcopale Brasiliana il 19 aprile 1985, in occasione della sua 23a assemblea nazionale, pubblica una breve «Nota» in cui esorta «i cattolici a non iscriversi alla TFP né a collaborare con essa», affermando che della TFP è «notoria la mancanza di comunione con la Chiesa in Brasile, la sua gerarchia e il Santo Padre», e che «il suo carattere esoterico, il fanatismo religioso, il culto prestato alla personalità del suo capo e di sua madre, l’utilizzazione abusiva del nome di Maria Santissima, secondo notizie riferite, non possono in nessun modo meritare l’approvazione della Chiesa». La «Nota» – che non ha valore canonico, ma solo d’indicazione pastorale, in quanto la censura di un’associazione privata di fedeli su questioni di fede e di morale esorbita dai poteri delle Conferenze episcopali (né può conferirle questo valore la pubblicazione sull’edizione in lingua spagnola de L’Osservatore Romano, spesso citata come se fosse capace di trasformare la nota di una Conferenza Episcopale in magistero pontificio) – s’inquadra in un momento di particolare tensione fra CNBB e TFP in tema di riforma agraria e teologia della liberazione, e precede di pochi giorni la condanna vaticana di padre Leonardo Boff, O.F.M., contro la quale protesteranno con veemenza numerosi vescovi brasiliani, i quali non daranno precisamente un esempio di «comunione con il Santo Padre». È tuttavia singolare che la nota sulla TFP si fondi dichiaratamente su «notizie riferite»: nel senso di riferite, in particolare, da Orlando Fedeli, e apparentemente non oggetto di particolari verifiche. Sembra qui in ogni caso che le «notizie riferite» siano principalmente funzionali a un intervento che nasce da divergenze in campo socio-economico.

 

Forme dell’associazionismo contro-rivoluzionario: Plinio Corrêa de Oliveira e Jean Ousset

In tema di struttura organizzativa della TFP, ci sia consentita un’ultima osservazione. Associazione retta dal diritto civile e «famiglia di anime» in evoluzione verso una forma canonica definitiva, la TFP è anche – come abbiamo visto – una «scuola di pensiero», in quanto tale manifestazione originale della più ampia scuola cattolica contro-rivoluzionaria. Dovrebbe essere evidente – ma non sempre lo è – che quest’ultima scuola non corrisponde di per sé a nessuna forma organizzativa specifica, e che le sue idee e il suo metodo di studio e di apostolato (che instaura, per così dire, un rapporto privilegiato con il magistero pontificio) possono essere trasmesse da realtà strutturalmente molto diverse fra loro. Per rimanere al XX secolo, certamente diverso dalla TFP è il modello di una organizzazione che fa tematicamente riferimento alla stessa scuola contro-rivoluzionaria, la Cité catholique di Jean Ousset (1914-1994), le cui origini remote risalgono agli anni 1930 e la fondazione al 1946, con il nome di Centre d’Études Critiques et de Synthèse, nome modificato nel 1949 appunto in Cité catholique. La Cité catholique diventa nel 1963 l’Office international des oeuvres de formation civique et d’action doctrinale (dal 1967 «d’action culturelle») selon le droit naturel et chrétien, che organizza – dopo un primo esperimento a Sion nel 1964 – i «congressi di Losanna» dal 1965 al 1977 (tranne che nel 1971 e 1975), i quali riuniscono tutto il mondo cattolico europeo (e non solo) interessato alle tesi della scuola contro-rivoluzionaria.

Come hanno notato gli studiosi che se ne sono occupati, c’è peraltro una differenza profonda fra la Cité catholique e l’Office (de Neuville 1998; cfr. pure – benché tematicamente dedicata a uno scisma dell’Office e non all’Office stesso – la tesi di Perrin 1999). La Cité catholique era infatti un’associazione che operava secondo «cellule» locali le quali rispondevano però a una struttura centrale, mentre nel 1963 Jean Ousset «fa esplodere le strutture della Cité catholique perché erano diventate troppo centraliste » e anche perché in pendenza dei tragici avvenimenti legati alla guerra d’Algeria e di un concreto rischio di persecuzioni «più opere disperse sono meno vulnerabili di una sola» (Perrin 1999, 36). Peraltro, l’éclatement della Cité catholique nell’Office del 1963 risponde anche a una nuova riflessione di Ousset sulla teoria dell’azione, teoria che è sempre stata al centro delle sue preoccupazioni.

Con il passaggio dalla Cité catholique all’Office, Ousset aveva in mente un modello di «associazione di associazioni» in cui un piccolo nucleo centrale si disperdeva in associazioni esterne in cui si associava con altri (anche appartenenti a scuole di pensiero diverse) cercando di esercitare un’egemonia culturale. Questa scelta di un modello troppo poco istituzionale non fu peraltro da tutti accettata e determinò nel 1968 la scissione di Jean-François du Mérac, allora leader del S.E.R.I. (Secrétariat étudiant de recherches et d’information sur l’avenir et la responsabilité des cadres dans la Nation), cioè del movimento giovanile e universitario dell’Office, scisma che – in seguito a vicende piuttosto complesse – ne generò poi diversi altri, alcuni dei quali presero in considerazione – agli antipodi delle scelte dell’Office – perfino la lotta armata (Perrin 1999). Negli anni 1970 l’Office patisce una crisi interna, in seguito a diversi avvenimenti, e in particolare al tentativo di Jean Ousset di riformulare la dottrina sociale della Chiesa nella forma (che avrebbe dovuto essere più accettabile nella situazione contemporanea) di «sociabilismo». Non seguito dalla maggior parte dell’associazione, Ousset lascia l’Office nel 1973, e mette in discussione il «trionfalismo» dei congressi di Losanna: a suo dire, questi avrebbero assorbito l’intera energia disponibile dell’Office, «come se le finalità dell’Esercito francese potessero ridursi al conforto che le sfilate annuali del 14 luglio arrecano ai buoni patrioti» (de Neuville 1998, 60). Ulteriori divisioni erano scoppiate, già dal 1971, fra i membri dell’Office in occasione della riforma liturgica e delle attività di monsignor Lefebvre, giacché alcuni erano favorevoli e altri contrari alle posizioni del vescovo «tradizionalista», il che rendeva impossibile tenerli insieme in un’organizzazione il cui modus operandi non prevedeva (più) meccanismi che ne garantissero l’integrità e dove Ousset si rifiutava di prendere posizione sulla questione della «nuova Messa», il che gli attirava più di una critica. Da membri dell’Office (che continua peraltro a esistere per qualche tempo con questo nome) nasce nel 1981 il suo attuale principale erede, ICTUS (Institut culturel et technique d’utilité sociale), che si trasforma nel 1997 nel Centre de formation à l’action civique et culturelle selon le droit naturel et chrétien, il quale nel 2006 riprende però la denominazione ICHTUS (scritto, stavolta con la «h» in modo da coincidere più esattamente con la parola greca che insieme significa «pesce» ed era per i primi cristiani acronimo di «Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore»).

Questo excursus sulle attività che «procedono» da Jean Ousset – diversi discepoli del quale occupano posizioni di rilievo nella vita culturale e politica non solo francese – ci ha portati solo apparentemente fuori tema. In effetti il gruppo di persone che si raccoglie intorno a Jean Ousset fin dagli anni 1930 sperimenta problemi simili a quelli di Plinio Corrêa de Oliveira nel rapporto con l’Azione cattolica, e sviluppa in seguito l’idea della Cité catholique come organizzazione «cerniera» (charnière) «fra l’Azione cattolica in senso stretto e l’azione politica in senso tecnico» (Duchâteau 1997, 6), una nozione come si vede che ricorda da vicino le riflessioni del pensatore brasiliano in tema di «TFPologia». E anche la Cité catholique – che non conterà peraltro mai più di una quindicina di membri a tempo pieno chiamati permanent – nel 1959 pensa a trovare uno status nella Chiesa come istituto secolare. I consigli che in quell’occasione vengono dal teologo, poi cardinale, Paul-Pierre Philippe, OP (1905-1984), a Jean Ousset non sono troppo lontani dalle ragioni di prudenza che più tardi sconsiglieranno alla TFP di prendere la via dell’istituto secolare: «Se diventate un istituto secolare, dipenderete pienamente dal Diritto Canonico. Questo vuol dire che nelle diocesi dove il vescovo non vorrà la vostra presenza voi non avrete, di fronte a Dio e agli uomini, il diritto di esistere. Se rimanete invece sul piano civico e del tutto naturale che in fondo è il vostro, quello dove c’è più bisogno di voi, il vostro stato e la vostra coscienza di cattolici v’imporranno certo di essere sempre rispettosi e discreti nei confronti dei vescovi che non vi amano; ma resta vero che di fronte a Dio e agli uomini avrete comunque il diritto di esistere e di agire» (ibidem, 27-28). Il fatto che già nel 1959 un’organizzazione che si proponeva di diffondere il magistero pontificio nella prospettiva della scuola contro-rivoluzionaria avesse problemi con certi vescovi in Francia apre una finestra su una crisi non solo brasiliana e non solo postconciliare. Ma qui interessa notare che, a fronte di problemi e idee simili, Ousset sceglie alla fine una struttura piuttosto diversa dalla TFP.

L’Office e alcune fra le sue successive incarnazioni, pur mantenendo un piccolo nucleo centrale di permanent, offrono infatti un modello di associazione contro-rivoluzionaria decentralizzata, i cui membri dedicano la maggior parte del tempo ad animare realtà esterne, pur dichiarando di mantenere un’ispirazione comune. Questo modello – il cui problema si rivelerà essere la perdita dell’integrità e la frammentazione dell’associazione nelle diverse «sotto-associazioni» che la compongono e che il «centro» finisce per limitarsi a tentare di coordinare, non sempre con successo – è, evidentemente, diverso e per molti versi opposto alla TFP, «famiglia di anime» i cui membri vivono nella loro maggioranza in forma comunitaria. Né la «scuola di pensiero» contro-rivoluzionaria esclude di per sé l’organizzazione di chi intenda diffonderne le tesi nella forma del movimento cattolico, così come si è affermata in particolare dopo la Seconda guerra mondiale.

In Italia Alleanza Cattolica, per cui il volume Rivoluzione e Contro-Rivoluzione assume – fin dalle origini negli anni 1960 – un’importanza centrale, il cui riferimento alla «maggiore gloria di Dio anche sociale» definisce il fine ultimo associativo in termini molto simili a quelli enunciati da Corrêa de Oliveira (cfr. Cantoni 1983, un testo redatto dal fondatore di Alleanza Cattolica nello stesso anno di Corrêa de Oliveira 1983, senza peraltro che l’autore conoscesse all’epoca questo specifico intervento del pensatore brasiliano), e i cui soci sia hanno a suo tempo partecipato ai congressi di Losanna dell’Office sia conoscono bene la realtà così importante nel nostro Paese dei movimenti (con diversi dei quali molti hanno rapporti di amicizia e collaborazione), rappresenta un esempio di associazione dichiaratamente contro-rivoluzionaria che, nel corso degli anni, si è andata definendo come «agenzia». Con questo termine Alleanza Cattolica intende indicare una realtà che non segue tutta la vita nella Chiesa dei suoi membri – come tendenzialmente fanno molti movimenti – ma si dedica a uno scopo particolare, che consiste anzitutto nello studio e nella divulgazione del magistero pontificio, con speciale attenzione ai giudizi che questo magistero ha portato sulla storia, e in particolare sulla storia dell’Europa e dell’Occidente. In secondo luogo, l’attività di Alleanza Cattolica si articola nell’applicare i principi desunti dal magistero ai problemi sociali, culturali e politici del nostro tempo, tenendo conto della tradizione di pensiero della scuola contro-rivoluzionaria.

In quanto «agenzia», Alleanza Cattolica non ha membri a tempo pieno né forme di vita comunitaria, e in questo è strutturalmente ed essenzialmente diversa dalla TFP: non organizza neppure la vita spirituale e liturgica dei suoi soci, cui pure propone non solo riunioni di formazione culturale ma anche pratiche di pietà e di preghiera. Per esempio, mentre molti movimenti hanno la «loro» Messa domenicale, non esiste la Messa domenicale di Alleanza Cattolica, i cui soci si recano normalmente a Messa nella loro parrocchia o dove altro preferiscono. Nello stesso tempo, Alleanza Cattolica non è una mera «associazione di associazioni» sul tipo dell’Office: la sua integrità è preservata da una riunione settimanale, il cui formato e temi sono – per quanto possibile – se non uguali simili ovunque l’associazione sia presente. Dalla familiarità con il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveria, Alleanza Cattolica ha tratto la convinzione dell’importanza degli ambienti: si è convinta, cioè, che senza essere ambiente è difficile anche essere agenzia. Si tratta di una convinzione da sempre presente nell’associazione, ma a proposito della quale mi piace ricordare l’impegno di Enzo Peserico (1959-2008), il quale dallo studio appassionato della catastrofe antropologica del 1968 – che ha colpito soprattutto i giovani e le famiglie (Peserico 2008) – aveva tratto la passione e l’entusiasmo per un incessante impegno inteso a fare di Alleanza Cattolica – appunto – non solo un’agenzia ma un ambiente veramente favorevole per la santificazione delle persone e delle famiglie, in assenza del quale lo stesso apostolato risulterebbe ultimamente impossibile.
                                                                                                        

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