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 «Il rumore confuso dei clamori ininterrotti». Il Concilio, il post-Concilio e il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira

di Massimo Introvigne

imgLa crisi del post-Concilio e le scienze sociali

«I sociologi hanno ampiamente esaminato gli effetti del Concilio, ma pochi hanno cercato di capire il Concilio» (Wilde 2007b, 1). Questo giudizio di Melissa Wilde, autrice di quella che è a oggi la più ambiziosa analisi sociologica del Vaticano II (Wilde 2007a), descrive una situazione di fatto. Esiste una vasta letteratura sociologica sul post-Concilio, mentre gli studi sul Concilio sono stati piuttosto lasciati agli storici e ai teologi (i quali, da parte loro, hanno cercato di resistere a quelle che considerano indebite intrusioni della sociologia). Lo scopo di questo testo – che fa seguito ad altri precedenti il cui scenario riguarda la situazione della Chiesa cattolica brasiliana nelle epoche rispettivamente del Risveglio Cattolico fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, della crisi dell’Azione Cattolica degli anni 1940, e della «Repubblica populista» degli anni 1950 – è quello di situare nel loro contesto storico-sociologico il pensiero e l’azione del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) negli anni del Concilio e del post-Concilio, fino alla morte di Papa Paolo VI (1897-1978). È uno scopo che, a mio avviso, può essere perseguito solo richiamando da una parte le conclusioni condivise, dall’altra le questioni irrisolte che caratterizzano il tentativo di analizzare in modo anche sociologico gli eventi e l’epoca che ci occupano.

Vi è, anzitutto, un’ampia sociologia del post-Concilio. Autori d’impostazione diversa concordano nella sostanza sui fatti, anche se non concordano sulle spiegazioni. «Post-Concilio» è un’espressione che, intesa in senso meramente cronologico, può arrivare fino ai giorni nostri. Più tecnicamente, soprattutto la letteratura di lingua inglese la riferisce all’epoca che va dalla chiusura del Concilio Vaticano II nel 1965 all’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II (1920-2005) nel 1978. La stragrande maggioranza dei sociologi che si sono occupati di questo periodo lo ha descritto come un’epoca sfavorevole per la Chiesa cattolica. Naturalmente un teologo o un cultore di spiritualità potrebbe introdurre nel suo esame dei sedici anni che vanno dal 1962 al 1978 categorie diverse. Il sociologo – se non vuole spingersi ultra crepidam, e se è conscio dei limiti della sua scienza – prende in considerazione essenzialmente due elementi: i dati quantitativi e quelli qualitativi che attengono ai momenti strutturali e organizzativi, che certamente sono meno importanti nella vita della Chiesa degli aspetti strettamente teologici o spirituali, ma altrettanto certamente sono gli unici che la sociologia, anche qualitativa, è attrezzata per valutare.

a) Dati quantitativi

I dati quantitativi sono univoci e impietosi. In uno dei classici della sociologia delle religioni degli anni 1990, The Churching of America di Roger Finke e Rodney Stark, sono riassunti alcuni dati che riguardano gli Stati Uniti. Nel 1965 c’erano 10,6 seminaristi ogni diecimila cattolici, nel 1990 1,1. «Detto in altri termini, prima del Vaticano II i giovani cattolici maschi [statunitensi] avevano dieci volte più probabilità di scegliere il sacerdozio di quante ne hanno ora [nel 1990]» (Finke e Stark 1992, 259). Il numero di suore è declinato in modo ancora più spettacolare. A partire dal 1965 il totale di cattolici battezzati statunitensi che dichiara nei sondaggi di recarsi a Messa ogni domenica – che era in crescita durante il pontificato di Pio XII (1876-1958) – inizia un declino regolare che dura fino al 1978 (coincidenza o no, il declino si arresta con il pontificato di Giovanni Paolo II: Finke e Stark 1992, 260). Nel 1983 le donazioni dei cattolici statunitensi alla loro Chiesa sono la metà di quelle del 1963; il numero delle comunioni, delle confessioni e dei cattolici che dichiarano di pregare tutti i giorni è diminuito più o meno nelle stesse proporzioni, nonostante – a causa non delle conversioni, ma dell’immigrazione da Paesi latino-americani – i cattolici battezzati negli Stati Uniti siano invece costantemente aumentati (Finke e Stark 1992, 260-261).

Questi dati non si ritrovano solo negli Stati Uniti, anche se questi ultimi sono il Paese per cui si dispone di serie statistiche più certe. Con alcune eccezioni – tra cui la Polonia, dove la pratica cattolica è un segno d’identità nazionale e di resistenza al comunismo – dovunque vi siano statistiche affidabili gli anni 1966-1978 sono un periodo di grave declino quantitativo della pratica cattolica (Stark e Finke 2000a; Davie 2007). Il declino, come si è già avuto occasione di accennare, è particolarmente spettacolare in America Latina dove è accompagnato da un’impetuosa crescita delle comunità protestanti pentecostali. Se è vero che i primi sintomi di crisi risalgono in quest’area geografica agli anni 1940 e 1950 non è meno vero che negli anni 1960 e 1970 il processo si accelera, fino a portare al sorpasso in Brasile dei pentecostali rispetto ai cattolici praticanti negli anni 1970 (Della Cava 1976, 26-28). La stessa celebrata crescita del numero dei cattolici in Africa e in Asia conosce in realtà una certa pausa nel periodo 1966-1978, per riprendere poi con grande vigore solo durante il pontificato di Giovanni Paolo II (Jenkins 2002).

b) Dati qualitativi

Il dato quantitativo non è certamente l’unica misura dello stato di salute di una Chiesa o comunità religiosa. Ma non si può ignorare. Come ama ripetere nelle sue lezioni Rodney Stark, nella sociologia delle religioni «chi non conta [nel senso che non parte da solidi dati quantitativi] non conta [cioè arriva a conclusioni irrilevanti]». Per definizione, il dato qualitativo è sempre più difficile da misurare del dato quantitativo. Anche qui c’è però almeno una conclusione sul periodo 1966-1978 così ampiamente condivisa da sfiorare l’unanimità fra i sociologi. Una delle caratteristiche fondamentali di un’organizzazione che fornisca alla società beni simbolici, e che sia sana e in grado di funzionare bene, è un certo grado d’integrità e coerenza dottrinale. Un’eccessiva uniformità può perfino nuocere a un’organizzazione di grandi dimensioni, che può trarre vantaggio dall’esistenza al suo interno di una concorrenza intrabrand (distinta dalla concorrenza interbrand con organizzazioni diverse). Tuttavia sulle questioni fondamentali è necessario che i vari gruppi e movimenti in concorrenza (intrabrand) tra loro mantengano una posizione comune. Diversamente l’organizzazione perde le sue caratteristiche unitarie e coerenti e, quindi, la sua efficacia. Diventa una barca in cui non tutti remano nella stessa direzione.

L’analisi qualitativa del periodo post-conciliare è influenzata dalla collocazione geografica dei sociologi. Chi ha studiato gli Stati Uniti ha sottolineato l’importanza centrale del 1968 (una data non casuale) e della contestazione organizzata, da parte di un numero non maggioritario ma non modesto di teologi e sacerdoti, dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI che ribadiva l’illiceità per i cattolici della contraccezione artificiale. In Europa viene in primo piano la contestazione teologica, il cui simbolo è la controversia sul Nuovo catechismo olandese del 1966, cui sono rimproverate affermazioni ambigue sul peccato, la redenzione, l’eucarestia, la verginità della Madonna, il ruolo della Chiesa e del Papa: in altre parole, su quasi tutti i punti essenziali della fede cattolica. In America Latina, benché (particolarmente in Brasile) anche qui acquisti rilievo la data del 1968 con la critica della Humanae vitae, la contestazione si rivolge soprattutto alla dottrina sociale con la scelta marxista di un buon numero di «teologi della liberazione», talora appoggiati dai loro vescovi.

Questi aspetti (che, beninteso, sono tutti e tre presenti pressoché ovunque nel mondo, così che il riferimento di ciascun aspetto a un continente è forzatamente schematico e corrisponde a un giudizio di mera prevalenza) hanno tuttavia qualche cosa in comune: l’idea ampiamente diffusa, non solo in ristrette cerchie di teologi ma sui media internazionali, che dopo il Vaticano II i cattolici – o almeno, per usare un’espressione non solo italiana, i «cattolici adulti» – possano scegliere fra il magistero del Papa e il «magistero parallelo» dei teologi (un’espressione che sarà ripresa nel 1990 dall’Istruzione Donum Veritatis della Congregazione per la dottrina della fede sulla vocazione ecclesiale del teologo). I teologi, in quanto più «progressisti» e avanzati, anticiperebbero semplicemente oggi quanto il magistero finirà fatalmente per accettare domani, e quindi potrebbero e dovrebbero essere seguiti con fiducia dai fedeli più maturi. Dal momento che – per dire il meno – il Papa e la gerarchia non condividono questo punto di vista, ecco che nell’organizzazione Chiesa cattolica ci sono due fonti di autorità (da una parte il Papa, dall’altra i gruppi di teologi che riescono a farsi percepire come maggioritari, lo siano o no), le quali certamente non sono sullo stesso piano dal punto di vista della dottrina insegnata dalla Chiesa stessa (e dal Concilio Vaticano II) ma sono presentate come se lo fossero dai media. E un’organizzazione dove i membri sono, per così dire, tirati in direzioni diverse da fonti di autorità percepite come alternative è un’organizzazione che non può funzionare in modo ottimale.

Molti osservatori che adottano un punto di vista diverso da quello della sociologia confermano questa valutazione, e attirano l’attenzione sul 1968 come data di una rivoluzione culturale anche nella Chiesa. Certo anche in passato c’erano stati teologi dissidenti, ma prima del 1968 sarebbe stato impensabile che ottantasette di questi – tutti docenti presso rispettate istituzioni ecclesiastiche – pubblicassero a pagamento (il 30 luglio 1968) un annuncio su una pagina intera del New York Times per invitare i fedeli a seguire il loro magistero e non quella del Papa (McInerny 1998, 60). L’osservazione è di Ralph McInerny, uno dei più autorevoli filosofi cattolici contemporanei, che in un piccolo ma importante libro – dal significativo titolo Che cosa è andato storto con il Vaticano II? (McInerny 1998) – insiste sul fatto che la questione decisiva nel 1968 non riguarda in realtà gli anticoncezionali ma chi esercita l’autorità nella Chiesa e quale autorità i fedeli devono seguire. La gravità del caso Humanae vitae è confermata da un dato che riguarda la persona stessa di Papa Paolo VI: dopo la reazione a quel documento, il Pontefice – che pure regna ancora fino al 1978 –, evidentemente amareggiato, non pubblica per tutta la sua vita alcun’altra enciclica (nessuna enciclica per dieci anni: un fatto del tutto inconsueto per un Papa moderno) dopo che ne aveva pubblicate sette fra il 1964 e il 1968.

Il teologo (poi cardinale) Leo Scheffczyk (1920-2005) – intervenendo nel 1988 a Roma a un congresso sul ventennale della Humanae vitae, ai cui partecipanti rivolge un importante discorso lo stesso Pontefice Giovanni Paolo II – spiega, in un modo particolarmente chiaro, il meccanismo (illustrato in termini analoghi anche da altri autori) utilizzato dai teologi dissidenti per costituirsi come magistero parallelo. Si tratta di un lento e ultimamente devastante lavorio teologico intorno alla nozione d’infallibilità definita dal precedente Concilio Vaticano I. Si «mette accanto al magistero infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente» (Scheffczyk 1989, 283). Posto che il magistero invoca molto raramente la sua infallibilità, e normalmente richiede l’assenso dei fedeli nei confronti della sua espressione in forma «autentica», da parte dei dissidenti «si costruisce l’equazione: infallibilità è incapacità di errore, autenticità invece è capacità di errore, e perciò anche incertezza e di per sé più esposta al rifiuto» (ibidem). Mentre i teologi dissidenti dal Vaticano I se la prendevano con l’infallibilità, i dissidenti del dopo-Vaticano II se ne fanno scudo per dichiarare che nell’insegnamento della Chiesa, tranne il pochissimo che è infallibile, tutto il resto è «fallibile» e si ha quindi il diritto di rifiutarlo. Beninteso, «secondo le regole della conoscenza questa equazione non è ammissibile» e il magistero, così, «ha perduto il suo significato» (ibidem). Né insegna questo il Vaticano II, anzi insegna precisamente il contrario: anche il magistero «autentico» è «rivestito dell’autorità di Cristo» e pertanto l’assenso è obbligatorio (ibidem; cfr. Lumen Gentium, n. 25).

In un’altra opera importante sulla crisi post-conciliare l’ex-teologo luterano, ora sacerdote cattolico, Richard John Neuhaus mostra ulteriormente come funziona la macchina del magistero parallelo alimentata dal carburante delle sottili distinzioni in tema d’infallibilità. Con la lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis del 22 maggio 1994, Giovanni Paolo II ribadisce che l’ordinazione sacerdotale cattolica è riservata soltanto agli uomini. Il 28 ottobre 1995 la Congregazione per la dottrina della fede, in un breve documento, precisa che la dottrina secondo cui la Chiesa non ha la facoltà di ordinare donne è «proposta dal magistero in modo infallibile». Il documento della Congregazione per la dottrina della fede è esplicitamente approvato da Giovanni Paolo II e fa quindi parte del magistero pontificio. I soliti teologi dissidenti americani (per la verità un po’ ridotti di numero rispetto agli anni ruggenti del dissenso, perché molti hanno lasciato la Chiesa cattolica), che hanno il sacerdozio femminile tra i loro cavalli di battaglia, non si perdono d’animo. Affermano infatti che la dichiarazione del 28 ottobre 1995 – secondo cui la dottrina ribadita nella Ordinatio Sacerdotalis è infallibile – non è essa stessa infallibile (Neuhaus 2007, 80-81). Come si vede, l’argomento dell’infallibilità è utilizzato per sostenere che – tranne i rarissimi casi di dogmi proclamati solennemente – dal magistero si può sempre dissentire, il che finisce per eliminare la funzione stessa dell’autorità nella Chiesa.

Il fedele cui, a questo punto, girasse la testa in tema di dichiarazioni infallibili, dichiarazioni fallibili, dichiarazioni che dichiarano altre dichiarazioni infallibili ma sono a loro volta fallibili sarebbe più che giustificato. Ma proprio questo, nota McInerny, è il problema. La compresenza del magistero pontificio e del «magistero parallelo» fa sì che il normale fedele – il quale non è un teologo di professione – viva in uno stato d’incertezza e di confusione, tanto più che mentre c’è un solo magistero pontificio ci sono molteplici «magisteri» di teologi in conflitto fra loro (McInerny 1998, 100). Che un’organizzazione dove ci sono questi problemi rischi, per dire il meno, di non essere efficiente è una conclusione perfino banale.

c) Conferme da fonti non sociologiche

Ma – come si è accennato – la sociologia non può costituire l’unico strumento per valutare eventi ed epoche ecclesiali. Si occupa infatti solo del «lato umano della religione»(Stark e Finke 2000a). Che il periodo 1966-1978 sia stato un periodo di crisi per la Chiesa cattolica è confermato da valutazioni autorevoli che non si pongono da un punto di vista sociologico. Nel 1981 Giovanni Paolo II traccia un bilancio severamente critico degli anni precedenti: «Bisogna ammettere realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si sono sparse a piene mani idee contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia» (Giovanni Paolo II 1981). Nella storica intervista Rapporto sulla fede rilasciata nel 1985 al giornalista italiano Vittorio Messori il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e oggi Papa Benedetto XVI, dichiara: «È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […] Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. […] Vie sbagliate […] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative» (Messori 1985, 27-28). Papa Benedetto XVI, nel 2005, ribadisce: «Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio [330-379], fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea [del 325]: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro:“Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524)» (Benedetto XVI 2005). Del resto, già Papa Paolo VI si era espresso nel 1972 in termini drammatici: «Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio [...]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza» (Paolo VI 1972). Un espressione forte e giustamente famosa, quella relativa al «fumo di Satana», spesso accostata a quella non meno dura di «autodemolizione» della Chiesa – «come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio» – utilizzata dallo stesso Paolo VI nel fatidico 1968, dopo l’esplosione del dissenso sulla Humanae vitae (Paolo VI 1968).

Vi è dunque un consenso che va dai sociologi alle massime autorità della Chiesa. Gli anni postconciliari sono stati «decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica». Descrivere, tuttavia, non significa ancora spiegare. Per riprendere il titolo del volume di Ralph McInerny, Che cosa è andato storto con il Vaticano II?.

 

«Che cosa è andato storto?»

a) Risposte in base alla teoria della secolarizzazione

Se vi è ampio consenso tra i sociologi (e non solo) sul fatto che la Chiesa cattolica nel periodo postconciliare abbia attraversato una grave crisi, non vi è invece nessun consenso sulle sue cause. Il cosiddetto «nuovo paradigma» nella sociologia delle religioni, come si è accennato, studia la religione utilizzando la metafora del mercato e distingue fra domanda di beni religiosi e offerta da parte delle Chiese e comunità. Secondo questa teoria la domanda tende a rimanere costante nel tempo, e le variazioni nel successo o nell’insuccesso delle «aziende» che competono sul «mercato religioso» vanno dunque spiegate ponendosi supply-side, «dal lato dell’offerta». La teoria classica della secolarizzazione – il «vecchio paradigma» che il «nuovo» intende contestare – si pone invece dal lato della domanda. Se le religioni hanno meno successo, secondo la teoria della secolarizzazione, è perché il mondo moderno è sempre più secolarizzato, e il numero di persone interessate alla religione diminuisce fatalmente, a prescindere da quanto le Chiese offrono. Semmai, le Chiese potrebbero inseguire la modernità, cercando di adattare le loro proposte alle domande dell’uomo moderno secolarizzato. Era questa la prospettiva di un classico della teologia degli anni 1960, La città secolare del teologo battista Harvey Cox (Cox 1965), la cui pubblicazione nel 1965 rappresenta, secondo il teologo e filosofo statunitense George Weigel, uno dei sei «momenti» che definiscono gli anni 1960 (Weigel 2008, 37), sul piano culturale un avvenimento di non minore importanza dell’assassinio del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (1917-1963). Lo stesso Harvey Cox avrebbe riconosciuto trent’anni dopo (Cox 1995) che il suo classico del 1965 si basava su premesse sociologiche e fattuali sbagliate; tuttavia – mentre La città secolare rimane molto influente sulla teologia anche in Italia – il libro del 1995 è ampiamente ignorato dai teologi e in italiano non è stato neppure tradotto.

Per chi si pone da questo punto di vista qualcosa «è andato storto» nella società moderna, non nella Chiesa, che semmai è stata troppo timida nell’adattarsi alla nuova domanda. Nel discorso con cui assume la presidenza della Association for the Sociology of Religion nel 1990 la sociologa statunitense (ed ex suora cattolica) Helen Rose Ebaugh nota che dopo il Vaticano II c’è stata «una fuga straordinaria da una fede di Chiesa basata su chiare dottrine e regole, sostenute da una forte istituzione gerarchica, verso una fede altamente soggettiva», un «cattolicesimo selettivo» dove ogni fedele può scegliersi le dottrine più gradite. Ma questa fuga dalle regole definite da istituzioni a scelte soggettiviste e libere, specie in campo morale, si è già verificata all’esterno, nella società, e la Chiesa non può che seguire. Anzi, secondo la Ebaugh lo ha fatto semmai troppo timidamente, come dimostrerebbe l’errore compiuto con l’enciclica Humanae vitae, che però avrebbe segnato «il collasso della struttura gerarchica di controllo nella Chiesa»: un fatto – il «collasso», non l’enciclica – che la sociologa considera «altamente positivo» (Ebaugh 1991, 3-7).

Tralasciando l’ipotesi che la Ebaugh stia esprimendo un giudizio di valore teologico, se non autobiografico (che di per sé avrebbe poco a fare con la sociologia), tradotta nel linguaggio del «nuovo paradigma» la tesi qui è che nel periodo del postconcilio è cambiata la domanda, e la Chiesa cattolica non ha potuto fare altro che seguirla. Nel citato The Churching of America, Finke e Stark ribattono che questo genere di analisi è certamente sbagliato perché, se davvero fosse venuta meno la domanda, tutte le Chiese e comunità religiose avrebbero ugualmente perso colpi. Ma non è andata così. Certamente gli anglicani (chiamati negli Stati Uniti episcopaliani) e i luterani, come altri, hanno sperimentato gli stessi problemi della Chiesa cattolica. Ma nello stesso periodo in cui cattolici, anglicani e luterani perdono membri attivi gruppi come i pentecostali o i battisti conservatori li moltiplicano. Una volta depositatosi il polverone degli anni 1960 e 1970. quello che emerge è che né negli Stati Uniti né altrove (con la possibile eccezione di qualche Paese europeo) il numero di persone che frequentano i luoghi della religione istituzionale è diminuito. Dunque, non è diminuita la domanda. Si è semplicemente indirizzata verso altre offerte. Ci sono meno cattolici praticanti e più pentecostali o battisti conservatori, così negli Stati Uniti come in Brasile o in Messico e altrove (Finke e Stark 1992, 262-263).

Neppure è vero che la Chiesa cattolica abbia perso colpi per essere stata troppo timida nel suo abbracciare la modernità. Nel 1972 Dean M. Kelley (1927-1997), un sociologo e un dirigente del Consiglio Nazionale delle Chiese negli Stati Uniti, pubblica un’opera destinata ad avere una straordinaria influenza intitolata Why Conservative Churches Are Growing, «Perché le Chiese conservatrici stanno crescendo» (Kelley 1972). In quest’opera Kelley nota i tassi di crescita di denominazioni che chiama conservative (letteralmente «conservatrici», ma la parola non ha lo stesso senso rispetto all’italiano, dal momento che conservative nel gergo politico e religioso statunitense è chi svolge una vigorosa attività di diffusione delle proprie idee, con un atteggiamento quindi – da un certo punto di vista – tutt’altro che «conservatore») con riferimento in particolare alle esigenze morali e all’affermazione di un’identità forte: sia protestanti, come i battisti del Sud e varie denominazioni pentecostali, sia non protestanti come i mormoni e i Testimoni di Geova. Constata che queste organizzazioni religiose crescono rapidamente, mentre quelle «progressiste» declinano con la stessa o con maggiore rapidità. Sulla «tesi Kelley» si è sviluppato uno dei dibattiti più interessanti della sociologia della religione contemporanea (su cui cfr. Introvigne 2004), che ha sostanzialmente confermato il dato empirico della maggiore crescita delle Chiese conservative, nello stesso tempo offrendone una gamma di spiegazioni piuttosto diverse fra loro. In ogni caso, è precisamente quando inseguono la modernità, specie in campo morale, che le Chiese e comunità religiose perdono membri.

b) Risposte in base al «nuovo paradigma»

Per spiegare questo fenomeno, apparentemente contro-intuitivo, e per aprire la strada a spiegazioni della crisi cattolica postconciliare che si pongano «dal lato dell’offerta», occorre introdurre – sia pure brevemente – un altro elemento fondamentale del «nuovo paradigma»: la teoria delle nicchie. I consumatori di qualunque bene materiale o simbolico si ripartiscono in nicchie quanto a gusti e preferenze personali. Nel «mercato religioso» le nozioni che vengono in considerazione per definire le diverse nicchie sono quelle di «tensione» e di costi. Per tensione s’intende la contraddizione o dissonanza tra le pratiche di un gruppo religioso e quelle della maggioranza nella società in cui il gruppo si trova a vivere. Se, per esempio, in una società è ampiamente diffuso il consumo di alcolici, un’organizzazione religiosa che vieta l’uso delle bevande alcoliche si trova in una situazione di tensione con la maggioranza sociale. Il grado di tensione di una comunità religiosa è misurato dai teorici del «nuovo paradigma» cercando di valutare la strictness, cioè quanto le norme di un gruppo religioso siano «strette» rispetto a quelle prevalenti nella società circostante. Maggiore la strictness, maggiore la tensione. Ma elementi come la tensione e la strictness possono essere anche misurati in termini di costi. Rinunciare a bere alcolici o a fumare, o adottare un’etica sessuale rigorosa in una società permissiva, sono comportamenti che implicano un costo che, ovviamente, nella maggior parte dei casi non è principalmente di carattere economico, ma simbolico e sociale.  Consiste, particolarmente, nel sacrificio richiesto per vivere una vita diversa da quella proposta dalla cultura dominante e nello stigma, cioè nella disapprovazione da parte dei parenti o degli amici (Iannaccone 1992, 1994).

Benché le nicchie in cui si distribuisce la domanda religiosa siano variamente distinte e denominate, un modello semplificato (cfr. Introvigne 2004) può distinguerne cinque, dalla maggiore alla minore tensione: ultra-strict, strict, «centrale» (chiamata talora conservative, un termine che non è necessariamente ben tradotto dall’italiano «conservatrice», se si pensa per esempio che della domanda conservative sarebbe aspetto caratterizzante uno zelo missionario che di solito non ascriviamo immediatamente ai «conservatori»), progressista e ultra-progressista. Una delle conclusioni – o, se si vuole, delle scoperte – principali del «nuovo paradigma» è che per dimensioni le nicchie non sono tutte uguali. Quella percentuale della popolazione (più o meno maggioritaria o minoritaria a seconda dei paesi) che è disponibile a mantenere un contatto regolare con un’istituzione religiosa non si distribuisce nelle cinque nicchie citate in parti uguali. Ampi studi empirici dimostrano che la nicchia ultra-progressista (i cui valori coincidono sostanzialmente con quelli della società moderna e post-moderna, entusiasticamente e dichiaratamente abbracciati) comprende una percentuale estremamente minoritaria dei consumatori religiosi. Pochi di più compongono, in circostanze normali, la nicchia ultra-strict (che rifiuta i valori dominanti nella società circostante in modo totale, separandosi il più possibile dal contesto sociale, con i più alti livelli possibili di tensione e di stigma). La nicchia progressista (che adotta i valori della società moderna e postmoderna perché ritiene inevitabile farlo, dunque con minore entusiasmo rispetto alla nicchia ultra-progressista) rimane tanto stabile quanto relativamente limitata nelle dimensioni. Le denominazioni e Chiese sia più numerose, sia che crescono più rapidamente si situano nelle nicchie strict (che dichiara di rifiutare i valori dominanti ma non si separa dalla società con cui cerca anzi, sia pure con ritrosia e difficoltà, di interagire dialetticamente), e «centrale» (dove si trova chi cerca una religione con livelli di tensione e di stigma medi rispetto alla società moderna e postmoderna, nei cui confronti assume un atteggiamento di confronto e di giudizio ma anche missionario). Quest’ultima nicchia comprende con ogni probabilità la maggioranza assoluta dei consumatori religiosi (Finke e Stark 1992; Stark e Finke 2000a).

La conclusione intuitiva secondo cui la nicchia più ampia dovrebbe essere quella che raccoglie i consumatori che hanno valori più simili a quelli dominanti nella società è fallace per due principali motivi. La prima è che il «mercato religioso» non comprende il cento per cento della popolazione mondiale (come avviene invece, per esempio, per il mercato dell’acqua, di cui tutti gli esseri umani hanno bisogno). Un buon numero di persone nelle società moderne si situa al di fuori del «mercato religioso» in quanto non è interessata ad aderire a religioni istituzionali. Ed è precisamente fra questi non-consumatori di beni religiosi che si trovano più di frequente coloro che sono perfettamente d’accordo con i valori e la cultura dominante. In secondo luogo, come ha mostrato in numerosi studi il sociologo statunitense Laurence R. Iannaccone, il «consumatore religioso» – come ogni consumatore – non si preoccupa solo di minimizzare i costi ma valuta il rapporto fra costi e benefici. Quello che costa poco spesso offre anche poco. I costi altissimi della nicchia ultra-strict sono tollerabili per un numero relativamente piccolo di persone, ma dal canto loro le organizzazioni della nicchia ultra-progressista e, in misura minore, di quella progressista, proprio perché chiedono costi modesti, offrono anche esperienze e compagnie piuttosto scialbe e poco soddisfacenti. Le organizzazioni con bassi costi d’ingresso si riempiono facilmente di free rider, «viaggiatori che non pagano il biglietto», che intendono ricevere quanto si può e dare il meno possibile. E un’organizzazione piena di free rider di rado offre a chi la frequenta un’esperienza entusiasmante (Iannaccone 1992, 1994).

Un altro aspetto messo in luce dal «nuovo paradigma» è che le organizzazioni religiose non stanno ferme. Si muovono, non soltanto andando a cercare la domanda – il che le fa crescere – ma anche cercando di limitare lo stigma, di diventare «rispettabili» e di diminuire la tensione: e questo secondo movimento è più ambiguo quando lo si valuta rispetto ai risultati. Se passano da una tensione estrema o alta a una tensione media le comunità religiose possono in effetti crescere, in termini sia di numero di fedeli sia di forza organizzativa. Ma se continuano a muoversi nella stessa direzione rischiano di spostarsi verso le nicchie a bassa o bassissima tensione (attirate dal basso e bassissimo stigma), dove si ricevono applausi da parte della società circostante non religiosa ma dove c’è un numero più limitato di consumatori religiosi, il che determina non una crescita ma una crisi.

Il tema principale del citato classico del «nuovo paradigma» The Churching of America (Finke e Stark 1992) è appunto questo. Le nuove organizzazioni religiose nascono alla periferia del mercato, e iniziano a rivolgersi alla nicchia ultra-strict. Con l’emergere di seconde e terze generazioni il naturale desiderio di ridurre la tensione e lo stigma porta a spostarsi dalla nicchia ultra-strict a quella strict. Fin qui tutto bene: l’organizzazione cresce e si consolida, perché trova più consumatori religiosi nella nicchia strict rispetto a quella ultra-strict. Il passaggio alla nicchia «centrale» è un’operazione molto più delicata, che rischia di provocare reazioni da parte di fedeli reperiti nelle nicchie più strict e richiede spesso non anni ma secoli. Molte comunità religiose non compiono mai questo passaggio, e rimangono nella nicchia strict (o scompaiono). Per chi riesce a compierlo in modo graduale e ordinato, anche il passaggio alla nicchia «centrale» è vantaggioso, perché qui si trovano consumatori religiosi dotati sia di spirito missionario nei confronti della società circostante sia di risorse e numeri per gestire questa missione. Vi è tuttavia un rischio. Presa, per così dire, la rincorsa il movimento può continuare in modo lineare, continuando a diminuire la tensione e spostandosi così ancora, dalla nicchia «centrale» verso quelle progressista e ultra-progressista. Poiché, come abbiamo visto, in queste nicchie ci sono meno consumatori religiosi sopraggiunge la crisi.

The Churching of America legge anche la crisi postconciliare della Chiesa cattolica secondo questo modello. La Chiesa cattolica – la maggiore organizzazione religiosa mondiale (l’islam ha un numero di fedeli paragonabile, ma non un’organizzazione unitaria che risponda a un’unica gerarchia) –, pur avendo una sua unità ben visibile nel Papa di Roma, ha al suo interno componenti diversissime, non solo nei diversi Paesi del mondo ma anche all’interno degli stessi Paesi. Al momento del Concilio la Chiesa si trovava in numerosi Paesi e situazioni nella nicchia strict, e in movimento verso la nicchia «centrale». Il grado di tensione è medio-alto, con una richiesta piuttosto alta di sacrifici che tuttavia riesce a determinare per molte persone uno «scambio favorevole» quanto al rapporto fra costi e benefici, dal momento che le comunità della Chiesa cattolica sono in grado di trasmettere «una vivida concezione di forze soprannaturali attive e potenti, capaci di motivare a importanti sacrifici per la fede» (Finke e Stark 1992, 271). Lo sforzo conciliare, secondo Finke e Stark, mira a far spostare in modo uniforme verso la nicchia «centrale» le componenti della Chiesa cattolica che si trovano nella nicchia strict. L’operazione dovrebbe produrre il vantaggio di una maggiore capacità di missione nei confronti della società moderna, oltre che la maggiore legittimazione tipica del passaggio da una tensione alta a una media.

Tuttavia, secondo i due sociologi americani, governare un processo di questo genere è molto difficile. Come era avvenuto «per i congregazionalisti, presbiteriani, episcopaliani e metodisti» (Finke e Stark 1992, 271), una volta iniziato il movimento verso una minore tensione, questo non si è fermato nella nicchia «centrale» ma è proseguito in direzione delle nicchie progressista e ultra-progressista, il che comporta per i motivi indicati un immediato rischio di diminuzione del numero di membri attivi e di crisi organizzativa. La crisi, secondo Finke e Stark, non avrebbe potuto essere arrestata se non «ritornando a una tensione più alta con l’ambiente circostante» (Finke e Stark 1992, 271, il che all’epoca (1992) sembrava ai due sociologi piuttosto improbabile. In scritti successivi, tuttavia, gli stessi autori hanno notato come, con il pontificato di Giovanni Paolo II, si sia sviluppata all’interno della Chiesa cattolica una vigorosa concorrenza intrabrand e come vi siano in effetti movimenti, gruppi e perfino diocesi capaci di ritornare da un livello di tensione basso a uno medio, e di recuperare una maggiore coerenza dottrinale, venendo immediatamente premiati con un aumento del numero dei fedeli, della pratica e delle vocazioni sacerdotali e religiose (Stark e Finke 2000b).

Quando qualcosa ha cominciato ad «andare storto»?

Se si considera valida nelle grandi linee – ed è questa la mia opinione personale – la spiegazione di Stark e Finke della crisi postconciliare, rimane tuttavia una domanda: chi, quando e perché ha preso nella Chiesa cattolica le decisioni che hanno determinato la crisi? In particolare, queste decisioni sono state prese durante o dopo il Concilio? La questione non è irrilevante, ma talora riceve scarsa attenzione negli studi sociologici. Gli stessi Stark e Finke (1992, 258) ritengono decisivi, particolarmente negli Stati Uniti, come elementi di diminuzione della tensione, ma anche come fattori di un rischio di «assimilazione» e perdita dei caratteri distintivi del cattolicesimo rispetto alle altre Chiese e comunità cristiane, il passaggio dal latino alla lingua volgare nella liturgia (nessuna comunità protestante prega pubblicamente in latino) e – forse soprattutto – il venire meno dell’obbligo dell’astinenza dalle carni al venerdì. La rilevanza attribuita a quest’ultimo aspetto può stupire il lettore italiano, ma nei Paesi dove la Chiesa cattolica non è maggioritaria si trattava di un segno distintivo che permetteva immediatamente di distinguere i cattolici dai protestanti. Molti in America ricordano i venerdì sera «preconciliari» nei McDonald’s, dove il personale si preparava alla mezzanotte sapendo che in quel momento sarebbero scattate le ordinazioni degli hamburger da parte dei cattolici. Un dettaglio, certo, ma che dava un’immediata percezione visiva di come in quel paese o in quel quartiere ci fossero dei cattolici praticanti.

Secondo Neuhaus «questa cosa apparentemente piccola contò più di ogni altro cambiamento per distruggere l’identità cattolica» (Neuhaus 2007, 118). Lo storico del cristianesimo irlandese, professore a Cambridge, Eamon Duffy ipotizza addirittura un «suicidio rituale» della Chiesa cattolica (Duffy 2005, 9), e non sta parlando della liturgia ma della carne al venerdì. È probabile che questa riforma non abbia avuto lo stesso impatto nei Paesi a maggioranza cattolica, dove il problema di distinguersi dai protestanti era meno importante. In ogni caso – come per la riforma liturgica – non si tratta di una decisione del Concilio Vaticano II ma di una riforma postconciliare, cui apre la strada la Costituzione apostolica Paenitemini, del 17 febbraio 1966, di Paolo VI, il quale «chiuso il Concilio Ecumenico Vaticano II» offre alle conferenze episcopali la possibilità di sostituire l’obbligo dell’astinenza dalle carni del venerdì con altri segni penitenziali (Paolo VI 1966).

McInerny (1998) e Neuhaus (2007) evocano entrambi il motto post hoc non ergo propter hoc, chiedendosi se la crisi sia avvenuta solo post Concilium (dopo il Concilio) o invece propter Concilium (a causa del Concilio). Entrambi rispondono che la questione è complessa, dovendosi distinguere fra almeno quattro elementi diversi: l’atteggiamento dei padri conciliari (che a sua volta ha influenzato la percezione mediatica del Concilio); i documenti del Vaticano II; le riforme postconciliari; e il clima creato nelle diocesi, negli ordini religiosi e tra i teologi da chi si richiamava a un presunto «spirito del Concilio».

a) La tesi di Melissa Wilde

Quanto all’atteggiamento dei padri conciliari, è questo il campo dell’ambiziosa impresa sociologica di Melissa Wilde, che – sia pure ricavandone osservazioni non sempre condivisibili – ha certo raccolto un numero impressionante di dati sui padri per studiarli come una popolazione e cercare di estrarne dati statisticamente significativi da analizzare in base al «nuovo paradigma». La Wilde (2007) divide i vescovi in quattro gruppi a seconda del tipo di mercato religioso da cui provengono: monopolistico, non-monopolistico, latino-americano e missionario. Il primo gruppo comprende i padri di Paesi dove la Chiesa cattolica si trova in una posizione di semi-monopolio, con minoranze religiose (all’epoca) statisticamente quasi irrilevanti: italiani (il maggiore contingente di padri conciliari: 367), spagnoli, irlandesi e portoghesi. Il secondo i rappresentanti di Paesi dove la Chiesa cattolica deve coesistere o con maggioranze protestanti (Stati Uniti: il secondo contingente per importanza numerica con 216 padri, Germania, Gran Bretagna, Olanda) o con maggioranze laiciste non religiose (Francia). Il terzo i padri latino-americani (anzitutto i brasiliani, il terzo gruppo per numero di membri: 167) i quali si trovano in una situazione di «falso monopolio»: l’ampia prevalenza di cattolici battezzati non corrisponde a una maggioranza di praticanti, e i padri percepiscono confusamente sia la crescita (che sottovalutano) dei protestanti pentecostali sia quella (che sopravvalutano) del marxismo. Il quarto gruppo, infine, è costituito dai vescovi missionari dell’Africa e dell’Asia, i quali si considerano in concorrenza più con le religioni non cristiane che con i protestanti.

La Wilde considera decisivi per misurare l’atteggiamento dei padri conciliari due voti: quello dello schema preparatorio del decreto sulle fonti della rivelazione (che è considerato da alcuni anti-protestante per la sua insistenza sulla tradizione, ed è rifiutato), e quello su un documento conciliare separato sulla Madonna (anch’esso ultimamente respinto perché considerato un potenziale segnale anti-ecumenico inviato ai protestanti). I numeri di queste votazioni sono usati dalla sociologa per dimostrare che, anche se all’interno di ogni gruppo geografico ci sono maggioranze e minoranze, la singola variabile più importante per predire il voto è precisamente quella geografica. Per esempio, l’88% dei vescovi del primo gruppo (provenienti da Paesi dove la Chiesa cattolica ha una posizione «semi-monopolistica») vota a favore di un documento specifico sulla Madonna, mentre il 78% dei vescovi del secondo gruppo (cioè di Paesi dove la Chiesa ha una posizione «non monopolistica») vota contro. La Wilde si pone all’interno del «nuovo paradigma» ma prende in considerazione oltre al monopolio e alla concorrenza anche la teoria del sociologo californiano Neil Fligstein, che applica il concetto di «campo stabile» ai mercati di beni simbolici. Secondo gli economisti, quando il mercato si muove in un campo stabile e nessun concorrente ritiene probabile che ci saranno importanti variazioni della sua quota, le aziende che non sono in posizione dominante non danno priorità al marketing ma alla legittimazione: più che di acquistare nuovi clienti, cercano di entrare nei «salotti buoni» e di farsi percepire come rispettabili dalle aziende dominanti.

Fligstein (1996) applica questi principi – che distinguono fra campi «stabili», «emergenti» (che per definizione non sono stabili) e «in crisi» – alla politica, e Melissa Wilde alla religione. Le Chiese monopolistiche europee e le Chiese non monopolistiche dell’Europa del Nord e del Nord America operano all’epoca del Concilio in campi stabili; quelle latino-americane in un campo in crisi, segnato da notevole turbolenza e rapide variazioni; e quelle missionarie in campi emergenti. Un’applicazione alla popolazione costituita dai padri conciliari della teoria del monopolio da sola spiegherebbe perché il primo gruppo di padri, espressione di Chiese semi-monopolistiche, non abbia particolarmente insistito (nella sua maggioranza) in atteggiamenti tali da far percepire all’esterno cambiamenti particolarmente rilevanti, mentre gli altri tre gruppi si siano comportati in modo contrario. Il monopolista è di per sé poco incline al cambiamento. Ma, insiste la sociologa americana, solo l’applicazione della teoria dei campi stabili permette di rendere ragione del differente comportamento di due gruppi non monopolisti (i padri conciliari del Nord dell’Europa e dell’America, e quelli delle Chiese missionarie) e di un gruppo pseudo-monopolista (quello latino-americano). In situazione simile quanto al monopolio, questi tre gruppi differiscono quanto al tipo di campo in cui operano: un campo in crisi in America Latina, un campo emergente per le terre di missione, un campo stabile per l’Europa e l’America del Nord.

Un atteggiamento che intende manifestare all’esterno che è in corso un cambiamento, comune a tutti i non monopolisti, assume così caratteri diversi. Per i padri del Nord Europa e dell’America Settentrionale l’atteggiamento mira ad acquistare benefici in termini di legittimità. La priorità dunque non è la ricerca di nuovi fedeli ma il farsi accettare come «uguali» dall’establishment protestante (o laicista) maggioritario, assumendo un atteggiamento fortemente ecumenico. Per i padri delle comunità missionarie, che operano in un campo emergente, l’orientamento dominante consiste nel presentarsi come gruppo dinamico capace di attirare nuovi fedeli ma nello stesso tempo ecumenico, perché il competitor di riferimento non è identificato nelle comunità protestanti (con cui possono esserci, al contrario, interessi comuni nel campo della rivendicazione della libertà religiosa) ma nelle religioni non cristiane. Per i padri latino-americani, che operano in un campo in crisi, la priorità è presentarsi come in grado di attirare nuovi fedeli senza prestare troppa attenzione all’ecumenismo perché il competitor religioso immediato è costituito dai protestanti pentecostali, acquisire la cui stima non comporterebbe benefici significativi dal punto di vista della legittimità in quanto i pentecostali non sono considerati particolarmente «rispettabili» dai «salotti buoni» giornalistici, culturali e accademici in grado di conferire patenti di legittimità. I padri latino-americani considerano, secondo Melissa Wilde, molto più rispettabile (in questo riflettendo il giudizio dei «salotti buoni») il competitor marxista, tanto che nei suoi confronti sviluppano un «isomorfismo mimetico» (Wilde 2007b, 23). Ritenendo che i marxisti abbiano sia un particolare successo presso il «popolo», sia una speciale rispettabilità in circoli culturali capaci di conferire legittimità, i padri latino-americani cercano, come insegna la teoria economica, di «mimare le strategie [ritenute] di successo utilizzate da aziende concorrenti» (ibidem: più tardi, in una certa, minore misura, i padri dell’America Latina cercheranno anche di mimare quella che ritenevano – erroneamente – essere la chiave del successo pentecostale, cioè la creazione di piccole comunità guidate da laici). Ma la teoria economica insegna pure che l’isomorfismo mimetico di rado ha successo.

b) Obiezioni alla tesi della Wilde

L’analisi di Melissa Wilde ha ricevuto obiezioni tecniche, che in parte condivido, da parte di sociologi (cfr. per esempio Berzano 2007), e obiezioni più radicali da non sociologi come lo storico Alberto Melloni, secondo il quale la studiosa americana dà troppa importanza all’ecumenismo, che per molti padri non è la preoccupazione principale, e si concentra solo sulla geografia mentre gruppi uniti da fattori diversi da quello geografico hanno al Concilio non minore importanza (per esempio gli ex alunni dell’Almo Collegio Capranica di Roma sono un gruppo «con una coerenza maggiore di parecchi episcopati nazionali»: Melloni 2007). Obiezioni tutte interessanti, ma che nascono da una fondamentale incomprensione della prospettiva sociologica del «nuovo paradigma», all’interno della quale si dà per scontata una sorta di «magia del mercato» (religioso) per cui gli atteggiamenti degli attori sociali non sono necessariamente consapevoli e meditati.

Melloni ha ragione quando mette in guardia contro il rischio di sopravvalutare la portata delle conclusioni della sociologa americana. Qualche volta, leggendo il suo testo, sembra che la Wilde scivoli, più o meno inconsapevolmente, da una presentazione dell’atteggiamento e dei modi di comunicare con i media dei padri conciliari a un giudizio che vorrebbe coinvolgere anche i documenti del Concilio, su cui invece la sua analisi a rigore non può dire nulla, dal momento che non prende in esame i testi ma i comportamenti durante l’assise romana di un determinato gruppo di persone (appunto i padri conciliari). Ma questi comportamenti sono tutt’altro che poco importanti. Per la prima volta nella storia dei Concili il Vaticano II è stato un grande evento mediatico, e come i padri che parlavano con i media lo hanno presentato durante e dopo l’evento conciliare ha in gran parte determinato come i fedeli di tutto il mondo (per non parlare dei non cattolici) lo hanno percepito. Si situano qui anche dei comportamenti di tipo omissivo che, uniti alla loro presentazione mediatica, hanno avuto un ruolo non secondario nella percezione ad extra del Concilio: così la decisione di non votare un documento specifico sulla Vergine Maria (oggetto secondo la Wilde della «più dura battaglia del Concilio»: Wilde 2007a, 102) e quella di non pronunciare una condanna solenne del comunismo, che da più parti era richiesta ai padri del Vaticano II. In entrambi i casi, accanto a ragioni diverse, gioca certo un ruolo l’ecumenismo: il documento sulla Madonna avrebbe irritato i protestanti, quello sul comunismo i governanti dei Paesi dell’Est europeo che esercitavano un controllo quasi totale sulle locali Chiese ortodosse.

Si potrebbe naturalmente dire che sia della Madonna sia (molto meno) del comunismo si parla esplicitamente o implicitamente altrove nei testi del Concilio. Anzi, l’ottavo capitolo della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium costituisce il più importante ed esteso trattato sulla Madonna prodotto dal magistero cattolico fino a quella data, e la scelta di trattare della Vergine Maria nell’ambito – come recita il titolo di quel capitolo – del «mistero della Chiesa» si radica in una lunga e autorevole tradizione teologica. Ma qui non si stanno discutendo i documenti; sono l’atteggiamento dei padri (o di molti di loro) e i loro rapporti con i media che vengono in considerazione. Nonostante l’ottavo capitolo della Lumen Gentium, la scelta di rinunciare a un documento mariano a sé stante (che pure è sostenuta da fondate ragioni di carattere teologico, che vanno molto al di là del semplice bon ton ecumenico) è comunque presentata prima alla stampa e poi dalla stampa dominante come l’ennesima «vittoria» dei «progressisti» sui «conservatori». L’analisi sociologica di Melissa Wilde permette così di raffinare la consueta domanda se siano stati i documenti del Concilio o la loro interpretazione postconciliare a provocare la crisi. A parte il ruolo di riforme post-conciliari (che non si risolvono nella sola riforma liturgica: si è accennato al’importanza che diversi sociologi danno alle innovazioni in materia di astensione dalle carni al venerdì), emerge qui un terzo elemento: il modo in cui – attraverso un plesso di comportamenti che include dichiarazioni alla stampa, modi di comportarsi e anche omissioni – il Concilio è stato presentato ai media e quindi percepito dai fedeli (che, vale sempre la pena di ricordare, né sono teologi né corrono immediatamente a leggere i documenti) già durante il suo svolgimento. Oltre ai due elementi rappresentati dai documenti e dalla loro ermeneutica ce n’è un terzo: il Concilio come evento, come fatto sociale globale che in uno «studio del caso» sociologico non è separabile dalla sua percezione filtrata dai media (ancorché non si riduca a questa), e che è propriamente l’oggetto dello studio di Melissa Wilde.

c) Documenti, ermeneutica dopo il Concilio e comunicazione durante il Concilio

Alla domanda se la crisi derivi dai documenti del Vaticano II o dalla loro interpretazione da parte di chi ha opposto all’accostamento letterale ai testi l’appello a un presunto spirito – o meglio, «anti-spirito» – del Concilio la risposta che il cardinale Joseph Ratzinger ha dato nel libro-intervista Rapporto sulla fede del 1985, e che è diventata magistero sia di Giovanni Paolo II sia di Benedetto XVI, è del tutto priva di equivoci. Non sono i testi ad avere creato i problemi, è una loro interpretazione arbitraria secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» che ha letto il Vaticano II non alla luce del, ma contro il magistero precedente (Benedetto XVI 2005). Il lavoro di Melissa Wilde, a ben vedere, non risponde in modo alternativo a questa domanda, ma aiuta a formularne un’altra diversa, inserendo tra i fattori che hanno determinato la ricezione del Vaticano II non solo l’ermeneutica successiva al Concilio ma anche l’atteggiamento durante l’assise ecumenica di molti padri conciliari che hanno preparato il terreno a una successiva ricezione del Concilio secondo l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» (il termine, qui, evidentemente è di Benedetto XVI e non della Wilde). Un filosofo come McInerny (1998) mostra scarsa pazienza rispetto ai sociologi e anche rispetto agli storici che hanno analizzato in modo minuto (ma talora, a suo avviso, schematico) lo scontro fra padri conciliari «progressisti» e «conservatori», compreso padre Ralph Wiltgen, SVD (1921-2007) che considera peraltro un autore particolarmente affidabile (Wiltgen 1967). I testi del magistero, ci assicura McInerny, sono anzitutto questo, testi: la loro analisi dimostra che l’ermeneutica della rottura è infondata e fa loro violenza, e lo studio di come sono stati elaborati rischia di distrarre l’attenzione dall’essenziale. Si tratta di una posizione condivisibile, ma che non dispensa dallo studio dei modi di comunicazione tra padri, media e mondo non cattolico durante il primo Concilio della storia che è stato anche un grande avvenimento mediatico.

Beninteso, questi atteggiamenti comunicativi che si sono manifestati durante il Concilio hanno influenzato sia le successive tendenze ermeneutiche sia la spinta verso riforme postconciliari (che peraltro non è stata affatto recepita passivamente dalla Santa Sede, dal momento che la riforma che stava più a cuore a molti padri che mettevano in primo piano esigenze di legittimazione, quella in materia di controllo delle nascite, fu bloccata nel 1968 con l’Humanae vitae). A costo di apparire ripetitivi, vogliamo insistere che si tratta qui non dei testi, ma del modo in cui – già prima di passare alla fase ermeneutica postconciliare – il Concilio è stato presentato ai media e ai fedeli durante il suo stesso svolgimento, anche attraverso alcune «spettacolari» omissioni (e le omissioni, evidentemente, non sono documenti).

Possiamo così trarre un bilancio dalla discussione sociologica all’interno del «nuovo paradigma» sulla crisi nella Chiesa cattolica successiva al Concilio Vaticano II. Questa crisi – per quanto possa dirne la sociologia, che si occupa solo del «lato umano della religione» – è evidente qualunque sia l’accostamento ai dati, quantitativo o qualitativo. Solo un’ostinazione ideologica estrema può negare che, per dirla con il cardinale Ratzinger del 1985, gli anni 1966-1985 «sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica» (Messori 1985, 27). La crisi non deriva da una presunta timidezza della Chiesa cattolica nell’abbracciare i valori dominanti della società moderna e postmoderna (come vorrebbero alcuni teorici del «vecchio paradigma», che postulano una variazione della domanda), ma al contrario – come dimostrano Finke e Stark – da uno slittamento dell’offerta cattolica verso una nicchia del mercato, quella progressista, dove ci sono meno consumatori di beni religiosi (mentre possono esserci molti consumatori di altri beni simbolici, non religiosi). Questo slittamento dell’offerta, che ha determinato la crisi, non deriva dai documenti del Concilio Vaticano II ma piuttosto (a) dal modo con cui il Concilio è stato presentato ai media e ai fedeli già durante il suo svolgimento, anche attraverso significative omissioni, da un certo gruppo di padri conciliari, i quali erano spinti – consapevolmente o inconsapevolmente – dalle dinamiche dei rispettivi mercati religiosi a cercare la legittimazione dei «poteri forti» protestanti, laicisti o marxisti, di cui talora – ancora, non necessariamente in modo consapevole – cercavano pure d’imitare le strategie per fenomeni d’isomorfismo mimetico; (b) dall’impatto di alcune riforme postconciliari (non solo quella liturgica), che sono state presentate e percepite – in logica continuità con le strategie comunicative di cui al punto precedente – in alcuni Paesi e presso alcuni gruppi di fedeli precisamente come un mutamento dell’offerta inteso a diluire la specificità del cattolicesimo rispetto sia ad altre offerte religiose sia alla cultura dominante; (c) dalla interpretazione del Concilio («ermeneutica della discontinuità e della rottura») prevalente in significativi ambienti teologici e culturali cattolici almeno fino alla fine del pontificato di Papa Paolo VI, e anche oltre.

 

Concilio e post-Concilio in Brasile

a) La Chiesa del Brasile spaccata in due: le radici

In un articolo precedente abbiamo lasciato la Chiesa cattolica in Brasile alla fine degli anni 1950 in una situazione peculiare rispetto alla Chiesa universale. Una struttura permanente per certi versi unica al mondo, la Conferenza episcopale brasiliana (CNBB), con il sostegno continuo e fondamentale del nunzio apostolico italiano monsignor Armando Lombardi (1905-1964), afferma di parlare per la Chiesa brasiliana ma in realtà prende normalmente le sue decisioni dopo riunioni di una quindicina di prelati (su oltre 250 vescovi che vi sono allora in Brasile). Dominata dalla controversa figura del vescovo, poi arcivescovo, Dom Hélder Câmara (1909-1999), la CNBB sceglie l’appoggio aperto e sistematico alla Repubblica populista e ai suoi dirigenti, compreso il più radicale, il ministro – poi vice-presidente e infine presidente della Repubblica – João «Jango» Goulart (1919-1976). L’appoggio prosegue,  nonostante una crisi economica catastrofica, anche quando dal populismo questa classe politica si orienta decisamente verso il socialismo, trovando la bandiera del suo percorso nel mito della riforma agraria, e verso un sistema di relazioni internazionali che «apre» ai Paesi comunisti (tanto più dopo la vittoria della rivoluzione castrista a Cuba nel 1959). Con queste scelte, la CNBB di Dom Hélder è segnata da una triplice lontananza: dal popolo brasiliano – che «vota con i piedi» determinando una costante diminuzione del numero dei cattolici praticanti cui fa da contrappunto il costante aumento dei protestanti pentecostali, fino a che come accennato i secondi sorpassano i primi –; dal magistero di Papa Pio XII, che trova scarsissima eco nella CNBB; e dalla maggioranza dei vescovi che fino circa al 1960 rimangono «silenziosi», sostanzialmente disinteressandosi delle attività della CNBB.

Uno studioso che rimane un grande ammiratore di Dom Hélder, lo storico e teologo statunitense Ralph Della Cava – criticando precedenti lavori di quello che è peraltro unanimemente considerato come il maggiore esperto degli anni 1950 e 1960 nella Chiesa brasiliana, il politologo anch’egli statunitense Thomas C. Bruneau – così riassume quanto abbiamo illustrato nell’articolo citato: «Bruneau vorrebbe farci credere che l’unanimità e la mancanza di compromessi con cui la CNBB gestiva i suoi affari fossero risultati genuini di processi specificamente sociologici di lungo termine (di “istituzionalizzazione” e di “coerenza ideologica”). Ma alla fine Bruneau – come [lo storico brasiliano Márcio Moreira] Alves – ci spiega le cose come stanno: le politiche, programmi e pronunciamenti presentati dalla CNBB come se parlasse a nome dell’intera gerarchia brasiliana provenivano esclusivamente dal nunzio, da Dom Hélder e dagli otto o dieci vescovi suoi alleati» (Della Cava 1976, 35-36). Come reagì la maggioranza dei vescovi brasiliani, prosegue Della Cava, a questa «marginalizzazione»? «Benché ulteriori ricerche siano necessarie, la metafora dei vescovi conservatori che si ritirano nei loro pascoli per occuparsi delle loro greggi è irresistibile e, in un certo senso, accurata. Del tutto indipendentemente dalla CNBB e dal suo ostentato progressismo, gli anni 1950 furono anni di intensa pietà pubblica e devozionale a livello diocesano e parrocchiale. Qui associazioni di devoti alla vecchia maniera partecipavano in massa ai congressi eucaristici e promuovevano entusiasticamente campagne nazionali come i pellegrinaggi anticomunisti della statua di Nostra Signora di Fatima» (ibidem, 36).

Dal punto di vista organizzativo, anche la Chiesa brasiliana degli anni 1950 appare in tensione fra due magisteri episcopali «paralleli», che non tanto si criticano ma s’ignorano a vicenda. I critici espliciti della CNBB sono pochi: monsignor Antonio de Castro Mayer (1904-1991) vescovo di Campos, nello Stato di Rio de Janeiro, e padre Geraldo de Proença Sigaud, SVD (1909-1999), vescovo di Jacarezinho, nello Stato di Paranà, poi dal 1960 di Diamantina, nello Stato di Minas Gerais. Con molta più prudenza, considerata la sua posizione di grande rilievo nazionale, critica la CNBB il cardinale arcivescovo di Rio de Janeiro, Dom Jaime de Barros Câmara (1894-1971), omonimo ma non parente di Dom Hélder Câmara. Se costretto a scegliere, l’arcivescovo di San Paolo, cardinale Carlos Carmelo de Vasconcelos Motta (1890-1982), si schiera invece piuttosto con la CNBB quanto meno sui temi sociali, mentre su temi morali come il divorzio si mostra molto fedele al magistero pontificio.

Della Cava critica anche la tesi del sacerdote e giornalista francese Charles Antoine (1929-2002) secondo cui lo scontro aperto tra le due anime dell’episcopato brasiliano risalirebbe ai mesi di preparazione del colpo di Stato militare del 1964 (Antoine 1971), e obietta che «molti altri analisti insistono che la spaccatura porta la data del 1960» con il dissenso di un gruppo di vescovi sulla questione della riforma agraria e «la fondazione di un movimento noto come Società per la Difesa della Tradizione, Famiglia e Proprietà (TFP)». Ma se è così, conclude Della Cava, «la verità è che i due principali vescovi dissidenti del 1960, Dom Antonio de Castro Mayer di Campos e Dom Geraldo de Proença Sigaud di Diamantina, e il laico che fondò la TFP, il professor Plinio Corrêa de Oliveira, si erano ritrovati insieme nell’Azione Cattolica degli anni 1930. Nel 1943 i tre avevano denunciato la deriva “modernista” dell’Azione Cattolica» (Della Cava 1976, 34-35), ed erano stati allontanati dalle cariche che ricoprivano a San Paolo dall’appena nominato cardinale Motta, a causa anche dell’invincibile antipatia che votava loro già da allora, da Rio, l’influente sacerdote Hélder Câmara. Gli stessi tre personaggi sarebbero poi ritornati alla ribalta con l’appoggio della Santa Sede di Pio XII (i due ecclesiastici sarebbero diventati vescovi negli anni 1947 e 1948, e nel 1949 il libro del 1943 di Plinio Corrêa de Oliveira sull’Azione Cattolica avrebbe ricevuto una lettera di encomio dalla Segreteria di Stato vaticana) La spaccatura fra due anime della Chiesa brasiliana, per lo storico statunitense, risale così a vicende relative all’Azione Cattolica e all’epoca intorno alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia, eventi che hanno le loro radici profonde in quegli anni, continuano a svilupparsi con l’ascesa della CNBB negli anni 1950 e vengono a maturazione con il Concilio, con l’acutizzarsi del dibattito sulla riforma agraria e con l’anno 1964, fatidico per la storia del Brasile e della sua Chiesa.

b) Brasiliani a Roma: il Concilio

Come si è visto, nella sua dettagliata analisi sociologica del gruppo dei padri conciliari Melissa Wilde sostiene che per i brasiliani il venire dal Brasile conta di più dell’essere «progressisti» o «conservatori», e che il nucleo brasiliano si comporta e comunica con l’esterno a grande maggioranza con uno stile non particolarmente incline all’ecumenismo (considerando i «suoi» protestanti – cioè, per la grande maggioranza, i pentecostali – non così «rispettabili» come i protestanti con cui hanno a che fare i cattolici del Nord Europa) e «isomorfico-mimetico» rispetto al marxismo, su cui formula i giudizi più diversi ma di cui ammira quello che ritiene essere un autentico successo presso il popolo brasiliano (Wilde 2007a). Se gli studi della Wilde e le osservazioni di McInerny aiutano a superare la semplice dicotomia progressisti-conservatori – a sua volta parte integrante di una narrativa socialmente costruita e diffusa dai media – non rimane meno vero che alcuni esponenti del mondo cattolico che operano a Roma durante il Concilio lo fanno in modo vessillare, cercando esplicitamente di influenzare la maggioranza dei padri conciliari in un senso che, pure consapevoli delle ambiguità dei termini, possiamo chiamare rispettivamente «progressista» e «conservatore». Nel primo campo vanno segnalati il gruppo di presuli centro-europei che si riunisce settimanalmente alla Domus Mariae e l’IDOC, «International Documentation on the Catholic Church», originariamente un servizio d’informazione sul Concilio per la stampa olandese che diventa con il tempo una struttura permanente capace d’influenzare il modo in cui il Concilio è percepito dalla stampa mondiale, cui sono annunciate immancabili sconfitte dei «conservatori» e vittorie dei «progressisti», qualunque cosa sia realmente avvenuta (Wiltgen 1967; Neuhaus 2007, 193). Con l’IDOC collaborano numerose personalità brasiliane fra cui Dom Hélder Câmara, un uomo che, come scriverà poi il cardinale belga Leo Jozef Suenens (1904-1996), «svolse un ruolo fondamentale dietro le quinte, anche se non prese mai la parola durante le sessioni conciliari» (Suenens 1993, 220).

In senso contrario cerca di fare sentire la sua presenza al Concilio il Coetus Internationalis Patrum – il cui nome completo è Coetus Internationalis Patrum idem in re teologica ac pastorali sententium (un nome forse più difficile da ricordare per la stampa internazionale di «IDOC») – di cui non è il caso di ripetere qui la storia ma il cui segretario è Dom Sigaud, di cui fa parte Dom Mayer e con cui collabora Plinio Corrêa de Oliveira, presente a Roma durante tutta la prima sessione del Concilio con «un nutrito gruppo di amici e discepoli della TFP brasiliana» (de Mattei 1996, 270), così come l’ufficio di segreteria di cui il Coetus può avvalersi dal 1963 gli è «messo a disposizione dai membri della TFP presenti a Roma» (ibidem, 272).

Il confronto fra le due anime della Chiesa brasiliana si concentra su quella che – come si è visto – è la questione che sta più a cuore ai padri conciliari venuti dal Brasile: il comunismo. Si tratta di blandirlo, d’imitarlo per quanto teologicamente e pastoralmente possibile riconoscendone la superiore efficacia, o di condannarlo? La battaglia principale del Coetus Internationalis Patrum è per un paragrafo di condanna esplicita del comunismo nella Costituzione Gaudium et spes. Quella battaglia – sostenuta dall’ampia diffusione di una brochure di Plinio Corrêa de Oliveira sul tema La libertà della Chiesa nello Stato comunista (Corrêa de Oliveira 1978; la versione originale è del 1963) – trova il sostegno di 454 padri conciliari, che firmano una petizione in questo senso, ma è finalmente perduta nel 1965. Il desiderio di non urtare le autorità sovietiche, che sembrano (erroneamente) a molti padri conciliari pronte a non ostacolare passi decisivi verso il ritorno dell’Ortodossia russa all’unione con Roma – e che, diversamente, minacciano di chiudere per sempre la strada a questo cammino ecumenico – gioca certo un ruolo importante in questa omissione (Wiltgen 1967), ma non si tratta dell’unico fattore.

c) Lo scontro del 1960 sulla riforma agraria

Che la Chiesa cattolica brasiliana abbia due anime diventa chiaro all’opinione pubblica già prima del Concilio, almeno del 1960 con la pubblicazione del libro Reforma agrária: questão de consciência, firmato dai vescovi Dom Sigaud e Dom Mayer, da Plinio Corrêa de Oliveira e dall’economista Luiz Mendonça de Freitas, in cui si denuncia il carattere di mito atto a promuovere il socialismo della riforma agraria populista. Lo studio ironizza sul fatto che nessuno punta il dito sul vero grande «latifondista pigro» del Paese: lo Stato, proprietario della maggioranza delle terre coltivabili ma incolte in Brasile (de Proença Sigaud, de Castro Mayer, Corrêa de Oliveria e Mendonça de Freitas 1960).

Il libro è oggetto della prima campagna di diffusione militante per le strade di città e paesi del Brasile da parte dei membri della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Familia e Propriedade (TFP), fondata a San Paolo il 26 luglio 1960 per riunire i molti che fin dagli anni 1940 e 1950 partecipavano alle riunioni di redattori, lettori e simpatizzanti delle riviste dirette da Plinio Corrêa de Oliveira, O Legionário prima e Catolicismo poi. Modello di parecchie società straniere autonome ma analoghe, la TFP – su cui dovremo tornare – rappresenta un autentico esperimento sociale, giacché fin dal suo inizio è composta (accanto a membri sposati che, nonostante leggende urbane al riguardo, non sono mai mancati) da una maggioranza di giovani che, senza aspirare specificamente al sacerdozio, si consacrano a tempo pieno, e scegliendo il celibato, a un apostolato di laici di natura civica e politica (intendendo questo termine in senso lato e non partitico-elettorale). Così come Catolicismo aveva per tutti gli anni 1950 deplorato l’involgarimento del costume e anche dei costumi – nel senso di abiti – in Brasile, l’abbigliamento impeccabile dei giovani della TFP attira immediatamente l’attenzione. Più tardi sono aggiunti stendardi con un leone rampante e cappe e abbigliamento di sapore monastico-cavalleresco con lo scapolare del Carmine e la croce di Santiago, il cui impatto è naturalmente ancora maggiore.

Il Messaggio della Commissione Centrale della CNBB del 30 aprile 1963 a sostegno della riforma agraria è percepito come un tentativo di confutazione, sollecitato dallo stesso governo Goulart, senza nominarlo, del libro Reforma agrária: questão de consciência, che continua a essere diffuso in modo militante e a suscitare grande eco nel Paese (Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2028). Ma il Messaggio esacerba, se non genera, grandi «divisioni interne» nell’episcopato (ibidem, 2028).

d) Il fatale 1964

Come si è già avuto occasione di accennare, il 1964 è un anno decisivo per il Brasile e per la Chiesa brasiliana. Cade a metà del Vaticano II. L’anno si apre con il malcontento popolare ormai inarrestabile nei confronti del governo Goulart, a causa della catastrofe economica cui ha condotto il Paese e del moltiplicarsi di gesti filo-comunisti e filo-cubani. Il cardinale arcivescovo di Rio de Janeiro, Dom Jaime de Barros Câmara, si rivolge alla nazione in una serie di discorsi alla radio nei mesi di gennaio-marzo 1964 con toni che è difficile non interpretare come un provideant consules perché le Forze Armate passino all’azione. Mentre il governo, tuona il cardinale, sottomette la nazione a un «indottrinamento anticristiano, antibrasiliano e chiaramente assolutista e totalitario», «chi avrebbe l’obbligo di prendere decisioni e assumere posizioni si comporta in modo tale da dare l’impressione che tutto è perduto e che non vale la pena di lottare». E il prelato nota pure come i documenti della Chiesa siano «sfruttati dal comunismo, che se ne fa una bandiera»; come movimenti ecclesiali siano ormai «contaminati dai propagandisti del credo rosso», come «il popolo sia disorientato e non sappia più di chi fidarsi né dove incontrare la vera voce della Chiesa per poterla seguire» (cit. in Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2029-2030).

Lo stesso cardinale appoggia il 13 marzo 1964 la «Marcia della famiglia con Dio per la libertà» che riunisce oltre un milione di persone a Rio de Janeiro, nella cui mobilitazione ha un ruolo decisivo la Crociata per il Rosario in Famiglia del sacerdote statunitense di origine irlandese padre Patrick Peyton, CSC (1909-1992), fino ad allora ritenuta a torto un movimento puramente devozionale, ma in cui gioca certamente un ruolo anche la TFP (Antoine 1971, 103-106). L’immagine delle due anime della Chiesa però permane: l’Azione Cattolica, Dom Hélder Câmara e il cardinale di San Paolo Carlos Carmelo de Vasconcelos Motta condannano la marcia di Rio de Janeiro (Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2030-2031). Anzi, Dom Hélder e il cardinale Motta appaiono in prima pagina sui giornali fotografati mentre pranzano allegramente con il presidente Goulart (Bruneau 1974, 122). Questo non impedisce alle marce di moltiplicarsi: il successo (non senza la collaborazione della TFP) è particolarmente imbarazzante per la gerarchia ecclesiastica locale a San Paolo, dove centinaia di migliaia di persone sfidano non solo il presidente Goulart ma anche il suo commensale, il cardinale arcivescovo.

Improvvisamente però per il gruppo della CNBB tutto precipita in pochi giorni. Il 12 marzo 1964 – promoveatur ut amoveatur – Dom Hélder è nominato arcivescovo della prestigiosa sede di Olinda e Recife, che è però lontana dal centro dell’azione politica a Rio de Janeiro. Il 31 marzo l’Esercito con un colpo di Stato ormai annunciato chiude l’epoca Goulart e inaugura quello che sarà uno dei più lunghi regimi militari latino-americani (durerà ventuno anni, fino al 1985). Il 13 aprile in occasione dell’ingresso di Dom Hélder nella sede di Olinda e Recife diciassette vescovi firmano una dichiarazione contro il colpo di Stato. Il 18 aprile il cardinale de Vasconcelos Motta è trasferito da San Paolo alla sede arciepiscopale di Aparecida, certo illustre per il suo santuario mariano ma non paragonabile per importanza alla capitale paulista. Il 4 maggio muore inaspettatamente, all’età di 59 anni, il nunzio monsignor Armando Lombardi. Il 27 maggio, dopo contatti con Roma, la Commissione Centrale della CNBB pubblica una dichiarazione – da cui però mancano le firme di molti vescovi del «gruppo Dom Hélder» - «estremamente cauta e ambigua» (Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2032) in cui, pur invitando i militari alla moderazione, saluta la loro azione «che ha salvato il paese dal comunismo» e li invita a continuare «per consolidare la vittoria». Il 26 e 27 settembre Paolo VI convoca l’assemblea generale della CNBB a Roma, durante il Concilio. Il cosiddetto «gruppo della CNBB», raccolto intorno a Dom Hélder, «è escluso da tutte le posizioni chiave» (Bruneau 1974, 124). Segretario – una carica che lo stesso Dom Hélder aveva sempre occupato dalla fondazione della CNBB nel 1952 – è nominato Dom José Gonçalves da Costa (1914-2001), un uomo di fiducia del cardinale di Rio, e presidente l’arcivescovo, poi cardinale, Agnelo Rossi (1913-1995) di Ribeirão Preto, considerato un «centrista», che Paolo VI il successivo 1° novembre nomina pure nuovo arcivescovo di San Paolo. Soprattutto, gli statuti della CNBB, su specifiche e personali istruzioni di Papa Paolo VI, sono cambiati per trasformarla da piccola struttura permanente e movimentista in un’assemblea democratica di tutto l’episcopato brasiliano. Bruneau conclude che la CNBB come la conoscevano i media brasiliani, quella di Dom Hélder Câmara, era stata sostanzialmente «smantellata» o addirittura «sciolta» (Bruneau 1974, 139).

Si poteva ritenere che, nell’anno fatidico 1964, venuta meno la protezione del nunzio Lombardi, Roma avesse deciso di porre fine all’anomalia della CNBB riconducendo a un funzionamento normale e unitario la Chiesa brasiliana. Le cose erano destinate ad andare diversamente.

e) Dal 1968 al 1971

Le ragioni per cui il «gruppo Dom Hélder», dopo gli avvenimenti del 1964, riesce a riorganizzarsi e a riprendere un controllo della Chiesa brasiliana, che continuerà sostanzialmente fino alla seconda metà degli anni 1980 – anche al di là della figura dello stesso Dom Hélder Câmara, trovando nuovi leader – sono molte, complesse e controverse. Riguardano sia la Chiesa brasiliana sia la Chiesa universale. Estrapolando dalla letteratura storico-sociologica in materia, si possono indicare cinque cause.

La prima è la «vittoria» della fazione, su cui molto aveva influito lo stesso Dom Hélder, che al Concilio Vaticano II si era battuta contro l’inserimento di un paragrafo di condanna esplicita del comunismo nella Gaudium et spes. Come in altri casi, gli effetti sociali non sono prodotti tanto dai documenti del Concilio in sé, ma dalla presentazione dei relativi accadimenti. L’omissione – la non condanna del comunismo – è presentata come un «liberi tutti» per le posizioni più apertamente filocomuniste.

La seconda è che dopo il 1964 viene a maturazione l’opera del nunzio Lombardi di creazione di nuove sedi episcopali cui quasi sempre era riuscito a far nominare vescovi legati al «gruppo Dom Hélder». I «vescovi silenziosi» delle «grandi» diocesi, che negli anni 1950 si erano disinteressati della Conferenza episcopale, negli anni 1960 cominciano a fare qualcosa che oggettivamente favorisce il vecchio gruppo dirigente della CNBB: muoiono. I vescovi della «generazione Lombardi» sono così trasferiti a sedi più importanti. Giacché il Brasile è un Paese immenso, la nuova struttura democratica della CNBB voluta da Paolo VI nel 1964 non può prevedere riunioni troppo frequenti dell’intero episcopato nazionale, ma dà grande rilievo alle regioni ecclesiastiche, in cui hanno un ruolo-guida i vescovi delle diocesi più importanti, che negli anni 1970 sono ormai, per ragioni anagrafiche, quasi tutti vescovi della «generazione Lombardi».

La terza ragione si riferisce a una serie di rivolgimenti intra-ecclesiali nell’altro anno fatidico, il 1968. In quell’anno, anzitutto, si manifesta anche in Brasile una contestazione nei confronti dell’enciclica Humanae vitae, meno virulenta rispetto agli Stati Uniti ma ugualmente tollerata dalla maggioranza dei vescovi. In secondo luogo, prosegue un progetto di Dom Hélder inteso a «esportare» l’esperienza della CNBB pre-1964 su scala continentale attraverso il CELAM (Consiglio Episcopale Latino-Americano), che aveva contribuito a fondare a Rio de Janeiro nel 1955. Nel 1968 si riunisce a Medellín, in Colombia, la seconda Assemblea generale del CELAM alla presenza di Papa Paolo VI. In quegli anni Recife, dove risiede Dom Hélder, è un laboratorio per l’elaborazione della «teologia della liberazione» sotto la guida del teologo belga, poi naturalizzato brasiliano, José Comblin. Quest’ultimo prepara per Dom Hélder, in vista dell’Assemblea di Medellín, un memorandum che annuncia tutti i temi della teologia della liberazione d’impronta marxista degli anni 1970. Destinato a rimanere segreto, appare invece sulla stampa brasiliana e suscita grande scandalo (Bruneau 1974, 198-199). Questa pubblicità non voluta ha un peso nel far sì che la linea Comblin-Câmara non sia, sostanzialmente, quella che finalmente emerge dall’Assemblea di Medellín. Ma come sempre, anche per Medellín, altro sono i documenti e altro la loro eco nei media internazionali.

La quarta ragione risale sempre al 1968 ed è l’Ato Institucional Número Cinco del 13 dicembre, un decreto del regime militare brasiliano che – a fronte di minacce di tipo terroristico e della continua attività clandestina comunista – concede alla polizia poteri straordinari. Le minacce, almeno in buona parte, esistono davvero ma il regime militare è attrezzato per fronteggiarle quasi solo sul piano poliziesco. La sua politica culturale è, a fronte dell’enorme pressione di una cultura ostile nazionale e internazionale, insufficiente e quella economico-sociale consiste nel rendere omaggio verbale ai miti del populismo, riforma agraria compresa, nello stesso tempo correggendone le più evidenti storture economiche così da favorire un rilancio dell’economia lasciata in stato comatoso dal governo Goulart. Troppo poco, e troppo tardi per suscitare un profondo consenso nazionale, a fronte delle misure aspre che sono sempre tipiche del confronto fra una dittatura militare e tentativi insurrezionali, e dove raramente nella storia la repressione di questi tentativi riesce purtroppo a manifestarsi senza eccessi e violazioni, anche molto gravi, dei diritti umani.

La quinta ragione è la reazione sia reale sia percepita della Santa Sede alle conseguenze per un piccolo numero di sacerdoti dell’Ato Institucional Número Cinco. Dopo il 1968 sorge un contenzioso fra alcuni grandi media internazionali e il regime militare brasiliano sulla questione della tortura, che il Brasile è accusato di adottare nei confronti di veri o presunti terroristi. Come dimostrano anche vicende recentissime in tema di detenuti accusati di terrorismo a Guantanamo e altrove, l’argomento «tortura» è più complesso di quanto sembri. Se da una parte la condanna morale e giuridica della tortura non può che essere severa e incondizionata, dall’altra le vicende di Guantanamo hanno mostrato che neppure nel 2008 – per non parlare del 1968 – i tribunali internazionali riescono a mettersi d’accordo su che cosa esattamente vada definito come tortura. Dal canto loro, gli accusati di terrorismo sono comunque spesso inclini a dichiarare di essere stati torturati, nella consapevolezza che – vera o no – l’accusa di tortura rovescia immediatamente la gerarchia della percezione morale pubblica e trasforma il terrorista (nella nuova veste di vero o presunto torturato) da assassino in vittima, mentre il ruolo dell’assassino è assunto nella nuova narrativa dallo Stato «torturatore». Comunque sia, nel corso del 1970 e degli anni precedenti alcuni sacerdoti brasiliani, accusati di complicità con gruppi comunisti armati, sono arrestati in base alle norme dell’Ato Institucional Número Cinco e lamentano di essere stati torturati. Il governo nega. Secondo Bruneau (1974, 213) la reazione dei cardinali Dom Agnelo Rossi di San Paolo, presidente della CNBB, e Dom Jaime de Barros Câmara, di Rio, è quella di persone che s’inducono a firmare documenti di protesta senza essere troppo convinti che la versione dei sacerdoti accusati sia vera e quella del governo falsa. «Si ha la sensazione che il loro cuore non batta davvero per i documenti, firmati piuttosto per preservare l’unità della Chiesa e per ragioni umanitarie» (Bruneau 1974, 213). Il governo, dal canto suo, che è al punto più basso della sua presentabilità internazionale, commette l’errore di utilizzare propagandisticamente il cardinale Rossi presentandolo sulla stampa locale come se fosse un suo sostenitore, il che rende a loro volta credibili le proteste che i vescovi del «gruppo Dom Hélder» fanno pervenire a Paolo VI. Il Papa all’udienza generale del 21 ottobre 1970 (e non 22 ottobre come scrive Bruneau 1974, 213: cfr. Paolo VI 1970) condanna la tortura con un riferimento non nominativo ma perfettamente comprensibile al Brasile.

Si tratta qui di un caso emblematico per mostrare come chi non risalga dai media (e purtroppo anche da testi accademici fra i più rispettati) alle fonti, quando si tratta di magistero pontificio, rischi spesso di commettere gravi errori. Se ci si limita a leggere il testo a suo modo certamente autorevole di Bruneau (1974, 213) o anche i grandi media internazionali dell’epoca si ha l’impressione che, nel discorso del 21 ottobre 1970, fra due narrative conflittuali – quella del «gruppo Dom Hélder», secondo cui coraggiosi sacerdoti e laici in lotta in modo del tutto legittimo per i «diritti umani» sono torturati da un regime spesso definito sbrigativamente «fascista», e quella del governo, sostenuta tacitamente e talora apertamente da altri vescovi, secondo cui gli arrestati sono effettivamente coinvolti in gruppi terroristici e violenti, e la tortura è tutta da dimostrare – Paolo VI dia decisamente credito alla prima, così sconfessando il governo brasiliano e i vescovi che non lo attaccano apertamente. Se però si va a leggere il discorso di Paolo VI (ma quanti lo fanno?) si scopre invece un testo assai più equilibrato, dove è certo denunciata con fermezza la tortura –distinguendo fra la condanna di principio e la necessità di stabilire la realtà di fatti talora oggetto di «smentite» da parte di «organi qualificati» – ma sono riprovate anche la «teologia della rivoluzione» e la partecipazione di cattolici ad attività terroristiche.

Vale la pena di leggere quello che insegna davvero Paolo VI in quel discorso che tanta influenza ha in seguito sull’evolversi della situazione brasiliana: «Se ne parla come epidemia diffusa in molte parti del mondo; e se ne indica, forse non senza qualche politica intenzione il centro in un grande Paese, teso in uno sforzo di progresso economico e sociale […]. Ebbene le torture, cioè i mezzi polizieschi, crudeli, e inumani, per estorcere confessioni dalle labbra di prigionieri, sono da condannarsi apertamente. Non sono ammissibili oggi, nemmeno col fine di esercitare la giustizia, e di difendere l’ordine pubblico. Non sono tollerabili, nemmeno se praticate da organi subalterni, senza mandato, né licenza delle superiori Autorità, sulle quali può ricadere la responsabilità di simili abusive e disonoranti prepotenze. Sono da sconfessarsi e da abolirsi. Offendono non solo l’integrità fisica, ma altresì la dignità della persona umana. Degradano il senso e la maestà della giustizia. Ispirano sentimenti implacabili e contagiosi di odio e di vendetta […]. Queste categoriche affermazioni hanno ragione di principio, perché sulla realtà di certi fatti noi non abbiamo titolo di pronunciarci, specialmente dopo smentite e rettifiche, che sono spesso date da organi qualificati e da indagini particolari. Come pure queste affermazioni non intendono coonestare violazioni private, o collettive dell’ordine pubblico, che possono aver dato pretesto a tali eccessi da parte dei tutori dell’ordine stesso. Anzi qui si presenta un’altra categoria di misfatti, che il senso cristiano della vita sociale non può ammettere come leciti. Diciamo della violenza, del terrorismo, impiegati come mezzi normali per rovesciare l’ordine stabilito […]. Anche questa mentalità e questi metodi sono da deplorarsi. Essi producono danni ingiusti e provocano sentimenti e metodi deleteri della vita comunitaria, e sfociano logicamente nella diminuzione o nella perdita della libertà e dell’amore sociale. La teologia, così detta, della rivoluzione non è conforme allo spirito del Vangelo. Voler ravvisare in Cristo, riformatore e rinnovatore della coscienza umana, un sovversivo radicale delle istituzioni temporali e giuridiche, non è interpretazione esatta dei testi biblici, né della storia della Chiesa e dei Santi» (Paolo VI 1970).

Si vede qui tutta la prudenza con cui Papa Paolo VI evita di assumere semplicemente una delle narrative sui fatti del Brasile come «vera» e l’altra come «falsa» e condanna insieme la tortura e il terrorismo, tanto più se perpetrato in nome di una figura del Cristo come «sovversivo radicale delle istituzioni temporali», che è precisamente l’immagine che di Gesù Cristo presenta la «teologia della liberazione» allora emergente. Ma non importa: ancora una volta la presentazione mediatica del documento sommerge il testo, e lo stesso New York Times «sbatte il Papa in prima pagina» il 23 ottobre presentando il suo discorso come una condanna del regime brasiliano. Così, il fatto che il 22 ottobre, un giorno dopo il discorso sulla tortura, Paolo VI richiami a Roma come prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli il cardinale Agnelo Rossi – di cui un certo clero di San Paolo racconta che abbia festeggiato la vittoria del Brasile sull’Italia nella finale dei campionati mondiali di calcio del 1970 in Messico in compagnia del governatore dello Stato, additato come complice dei torturatori – e lo sostituisca con il vescovo ausiliare Dom Paulo Evaristo Arns (creato poi cardinale nel 1973), dà l’impressione che il Papa intenda favorire un confronto più duro con il governo brasiliano. L’arcivescovo Arns in effetti adotta rapidamente la narrativa anti-governativa sulla tortura e la diffonde collaborando, a differenza del suo predecessore cardinale Rossi, con il New York Times all’epoca impegnato a farne una causa di carattere internazionale (Bruneau 1974, 213-214). È in questo clima che si svolge l’assemblea del febbraio 1971 della CNBB in cui la sconfitta del «moderato» cardinale Dom Alfredo Vicente Scherer (1903-1996), arcivescovo di Porto Alegre, e l’elezione alla presidenza dell’organismo episcopale del vescovo (poi cardinale) Dom Aloísio Lorscheider (1924-2007), noto per le sue posizioni antigovernative – per di più con il fidato cugino Dom Ivo Lorscheider (1927-2007) come segretario della stessa CNBB – segna la vittoria di una nuova generazione, che mette insieme la «linea Dom Hélder» con i nuovi strumenti della teologia della liberazione (anche se questa si presenta con sfumature diverse, non tutte esplicitamente marxiste).

f) Gli anni 1970: apogeo e crisi della «linea Dom Hélder»

Dunque, una serie di ragioni – dalla demografia all’interno del corpo episcopale agli incidenti in tema di tortura – portano a una nuova svolta nella CNBB, che nel 1971 assomiglia nuovamente a quella del periodo precedente al 1964, ancorché con un personale rinnovato e in una situazione politica diversa. Se prima del 1964 governi populisti e CNBB si muovevano quasi sempre all’unisono, negli anni 1970 il regime militare tiene la CNBB in sospetto e preferisce negoziare direttamente con singoli vescovi. La stessa CNBB si affida più volentieri a documenti che non impegnino l’intera istituzione in scontri con il regime, ancorché i media li presentino senza troppe distinzioni come testi «dei vescovi». È il caso di due famosi documenti del 1973, che in un certo senso definiscono il decennio e che adottano senza mezzi termini il marxismo come strumento di analisi della situazione brasiliana. Il primo – Ho ascoltato il grido del mio popolo – è sottoscritto da tredici vescovi, primo firmatario Dom Hélder Câmara, e da cinque superiori religiosi. Vi si legge tra l’altro che «il processo storico della società delle classi e la dominazione capitalista conducono fatalmente alla lotta di classe. Benché questo fatto sia ogni giorno più evidente, è negato dagli oppressori ma, con la stessa negazione, si auto-afferma. Le masse oppresse degli operai, dei contadini e dei numerosi sotto-occupati prendono coscienza della lotta di classe e assumono progressivamente una nuova coscienza liberatrice. La classe dominata non ha altra via d’uscita per liberarsi da quella che nasce dalla lunga e difficile marcia verso la proprietà sociale dei mezzi di produzione, che è già cominciata» (Eu ouvi os clamores do meu povo 1973, 29). Naturalmente nel XXI secolo un’applicazione così rigida e anacronistica della teoria della lotta di classe marxista-leninista metterebbe in imbarazzo anche molti esponenti dell’estrema sinistra, ma nel Brasile del 1973 poteva suscitare notevole impressione, tanto più se presentata come «la» posizione dei «vescovi».

Nello stesso anno 1973 un altro documento presentato come «più popolare» – dunque, con minore uso del linguaggio «scientifico» marxista – sottoscritto da cinque vescovi e ampiamente diffuso, Marginalizzazione di un popolo, grido delle Chiese, proclama: «È necessario sconfiggere il capitalismo perché rappresenta il peggior male, il peccato accumulato, la radice deteriorata, l’albero che produce i frutti che tutti noi conosciamo: la povertà, la fame, il dolore e la morte per la grande maggioranza. Per questo è necessario che la proprietà privata dei mezzi di produzione (della fabbrica, delle terre, del commercio, delle banche, delle fonti di credito) sia sconfitta» (cit. in Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2039). A queste prese di posizione collettive si affiancano interventi di singoli vescovi, da quelli sistematici di Dom Hélder e del cardinale Arns alle intemperanze più colorite di personaggi come il già citato «Monsignor Falce e Martello» (l’auto-definizione è sua) Dom Pedro Casaldáliga Plà, CFM, nominato vescovo-prelato di São Félix do Araguaia nello stesso fatidico anno 1971, il quale – preferendo d’abitudine esprimersi in poesia – esclama: «Maledette tutte – le proprietà private – che c’impediscono – di vivere e di amare!» (Casaldáliga 1974, 129).

Si avrebbe però torto se s’immaginasse che questa linea episcopale – che cerca di diffondersi attraverso le «comunità ecclesiali di base» e una serie di commissioni della CNBB per la terra, i popoli indigeni e così via – avanzi nel Paese senza problemi. Un suo ammiratore come Bruneau attraverso lo studio empirico di quattro diocesi brasiliane (fra cui Olinda e Recife, l’arcidiocesi retta da monsignor Câmara) mostra come la «linea Dom Hélder» sia percepita come un’imposizione dall’alto e incontri sostanziali resistenze nel popolo cattolico e nello stesso clero (Bruneau 1974, 166-174). Nel frattempo, l’emorragia di cattolici a favore del protestantesimo pentecostale non si ferma. Come è stato osservato, mentre la Chiesa brasiliana proclama l’opzione preferenziale per i poveri, i poveri proclamano la loro opzione preferenziale per i pentecostali (Freston 2008). Le comunità di base – la cui espansione sembrava inizialmente inarrestabile – in realtà hanno sempre avuto meno membri di quanto i teologi della liberazione hanno sostenuto, spesso sono state create dai parroci e non dalla «base» e, non appena è apparsa, la concorrenza del Rinnovamento nello Spirito cattolico ha rapidamente mostrato di poter contare su numeri di tutt’altra dimensione (Chesnut 1997; Freston 2008). Se nel suo libro del 1974 Bruneau concludeva che la Chiesa brasiliana «potrebbe in effetti trasformarsi in una forza rivoluzionaria» (Bruneau 1974, 240), quattordici anni dopo nel 1988 lo stesso politologo concludeva che questo non era avvenuto. La causa andava certo cercata in avvenimenti nella Chiesa universale (il pontificato di Giovanni Paolo II) ma anche – come avevano nel frattempo dimostrato numerosi studi empirici – nel fatto che le comunità di base o non avevano avuto successo ovvero, dove lo avevano avuto, questo era avvenuto («contro quanto ci si sarebbe atteso sulla base di una prospettiva derivata dalla teologia della liberazione») nei luoghi dove erano rimaste più legate alla Chiesa istituzionale e alle parrocchie, fino a quando negli anni 1980 «più che essere le comunità di base a reinventare la Chiesa», come sognavano i loro fondatori, erano stati i vescovi a reinventare un ruolo, assai più pastorale e meno politico, per le comunità di base in crisi (Bruneau 1988, 105).

In realtà, erano stati anche fattori interni alla politica brasiliana a mettere in crisi la «linea Dom Hélder». Alla crisi del 1971 e alle polemiche internazionali sulla tortura il regime militare aveva risposto – certo in modo molto lento, così che violazioni dei diritti umani erano state denunciate ancora a lungo – con la politica prima di distensão durante la presidenza (1974-1979) del generale Ernesto Geisel (1907-1996), quindi di abertura con il mandato presidenziale (1979-1985) del generale João Baptista de Oliveira Figueiredo (1918-1999), l’ultimo presidente militare. A mano a mano che si compiva la lenta transizione verso la democrazia, non erano solo le comunità di base a doversi «reinventare». In effetti negli anni della dittatura i partiti di sinistra e di estrema sinistra erano vietati, e le uniche istituzioni dove i relativi militanti potevano operare legalmente erano quelle della Chiesa cattolica legate alla «linea Dom Hélder» e alla teologia della liberazione. Con l’abertura e la democrazia sul mercato politico brasiliano chi cercava luoghi dove impegnarsi a sinistra ne trovava ormai, in quantità, fuori della Chiesa (Bruneau 1988, 96). Nel 1973 un marxista brasiliano poteva inneggiare all’abolizione della proprietà privata e alla lotta di classe, correndo rischi limitati di farsi arrestare, solo in parrocchia e citando documenti episcopali. Nel 1985 poteva farlo liberamente in una varietà di partiti non religiosi, e si chiedeva perché mai dovesse andare in parrocchia (dove, inoltre, le cose stavano a loro volta cambiando).

Riassumendo, il periodo postconciliare in Brasile ha dei ritmi propri. Molti fenomeni che abbiamo descritto come caratteristici della crisi postconciliare si erano già manifestati in Brasile negli anni 1950, così che «paradossalmente» durante il Concilio, con la riforma romana della CNBB del 1964, la Santa Sede si preoccupa piuttosto di frenare il processo (Bruneau 1974, 139). Quest’opera di freno ha a sua volta per una molteplicità di ragioni un successo limitato nel tempo, e all’inizio degli anni 1970 il «gruppo Dom Hélder», che nel 1964 a Roma era stato escluso dai vertici della CNBB, si ritrova di nuovo in sella. Le condizioni del mercato politico brasiliano – più che di quello religioso, dove la Chiesa cattolica negli anni 1970 continua a perdere colpi a vantaggio soprattutto dei protestanti pentecostali – assicurano a questo gruppo un’audience e un potere che si estendono al di là del termine del periodo che abbiamo preso qui particolarmente in esame, e che va fino al 1978, per arrivare fino alla fine della dittatura militare nel 1985. Un elemento cruciale che non va mai dimenticato per intendere tutta questa vicenda è la mancata condanna esplicita del comunismo da parte del Concilio Vaticano II, un risultato per cui lo stesso Dom Hélder Câmara opera con particolare zelo durante il Concilio e che in Brasile negli anni 1970 è presentato (a torto, ma con indubbia efficacia «politica») come una licenza per l’uso aperto di categorie, programmi e stili di linguaggio marxisti in documenti episcopali.

Plinio Corrêa de Oliveira e il Concilio

Quale ruolo ha il Concilio nel pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira? Per affrontare con rigore un tema che è stato all’origine di molte polemiche, occorre ritornare alla distinzione fra quattro elementi diversi, che non devono essere assolutamente confusi: le attività dei padri conciliari e la loro presentazione mediatica durante i giorni dell’assise romana, le quali costituiscono insieme un fatto sociale – un insieme di azioni e di omissioni – che può e deve essere distinto dai documenti del Vaticano II; i documenti conciliari; le riforme postconciliari; l’ermeneutica del Concilio e dei suoi testi durante gli anni 1966-1978 (e oltre, particolarmente in Brasile dove si verifica un postconcilio «lungo» a causa delle specificità che abbiamo segnalato). Confondere questi quattro elementi fra loro comporta, come si è visto, equivoci molto gravi.

a) Il Concilio come evento e l’omissione della condanna esplicita del comunismo

Come si è accennato, Plinio Corrêa de Oliveira è a Roma durante la prima sessione del Vaticano II e cerca di dare il suo contributo al modo in cui il Concilio-evento è percepito – in Brasile e non solo – come fatto sociale globale. In particolare, in chiave apologetica, egli si sforza di attirare l’attenzione su un elemento dimenticato : «per il semplice fatto di riunirsi» il Concilio impartisce al mondo una lezione sulla struttura della Chiesa – che è diversa da un semplice Parlamento – e sul ruolo unico e necessario del Romano Pontefice. Nello stesso tempo, l’attenzione che i media di tutto il mondo riservano all’evento non è, di per sé, negativa e anzi può essere il punto di partenza per riflettere sul fatto che gli stessa media laicisti riconoscono la rilevanza particolarissima di quanto avviene nella Chiesa cattolica, mentre non si comportano certo nello stesso modo di fronte alle assise di altre religioni. Così, con la sua stessa attualità di evento che «accade» quotidianamente per diversi anni, il Concilio è preziosa occasione di apologetica e di apostolato (Corrêa de Oliveira 1962).

Nel corso del Concilio, Corrêa de Oliveira e l’associazione da lui fondata, la TFP, collaborano con il Coetus Internationalis Patrum e si battono in particolare perché la costituzione Gaudium et spes contenga una condanna esplicita del comunismo, temendo – e i loro timori risulteranno fondati – che in tutto il mondo, ma in modo particolare in Brasile a causa della peculiare situazione locale, l’omissione di tale esplicita condanna sia percepita come licenza per i cattolici di adottare il marxismo come strumento di analisi sociale e politica e di collaborare con partiti comunisti in nome di una malintesa «opzione per i poveri».

La sconfitta del Coetus in questa battaglia segna profondamente Corrêa de Oliveira, e il suo giudizio sull’evento Concilio. Nel 1977, in occasione della pubblicazione della terza edizione italiana accresciuta di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, in una sezione dedicata ai progressi della III Rivoluzione, quella comunista, il pensatore cattolico brasiliano scrive la pagina forse più controversa e polemica dell’intera sua pluridecennale produzione. In essa denuncia «il silenzio enigmatico, sconcertante e spaventoso, apocalitticamente tragico, che il Concilio Vaticano II ha osservato a proposito del comunismo». «Il suo silenzio sul comunismo ha lasciato tutta la libertà ai lupi. L’opera svolta da questo concilio non può essere scritta come realmente pastorale né nella storia né nel Libro della Vita. È duro dirlo. Ma l’evidenza dei fatti indica, in questo senso, il Concilio Vaticano II come una delle maggiori calamità, se non la maggiore, della storia della Chiesa» (Corrêa de Oliveira 1977, 181-182).

Chi ha cercato di descrivere con rigore accademico – sia pure con tutte le difficoltà che derivano dal tentativo di narrare e analizzare avvenimenti mentre, per così dire, ancora stanno accadendo – le vicende di diverse associazioni e movimenti, tra loro oggi separati, che «procedono» nella loro genealogia dall’opera di Plinio Corrêa de Oliveira dopo la morte del pensatore brasiliano ha riportato diverse testimonianze secondo cui autorità ecclesiastiche degli anni 1990 e 2000 avrebbero chiesto, prima di ogni riconoscimento o collaborazione, un esplicito ripudio di questo «giudizio» sul Concilio (Altoé 2006, 73). Si può forse sgomberare il campo da qualche polemica inutile, dichiarando subito e senza riserve che, se la pagina di Plinio Corrêa de Oliveira che abbiamo citato implicasse un incitamento ai fedeli cattolici perché rifiutino l’insegnamento del Concilio quale si esprime nei suoi testi e documenti – in quanto appunto «non realmente pastorale» e «calamità» storica per la Chiesa –, allora questa pagina non potrebbe essere accettata e fatta propria in coscienza da nessun cattolico cui sia cara la sua fede. Il cattolico che cavillasse e iniziasse a distinguere fra Concilio dogmatico e pastorale, fra magistero infallibile e magistero non infallibile si porrebbe nella stessa posizione dei dissidenti «progressisti» le cui posizioni abbiamo discusso a partire dal rifiuto dell’enciclica Humanae vitae. Come nota Papa Benedetto XVI, «anticonciliarismo» e «progressismo sbagliato», che pure sono su posizioni opposte quasi su tutto, a proposito del Vaticano II commettono precisamente lo stesso errore (Benedetto XVI 2007). I documenti del Vaticano II, in quanto espressione del magistero ordinario e universale, obbligano in coscienza tutti i fedeli cattolici. È una conclusione che dovrebbe essere ovvia per qualunque cattolico, e su cui chi scrive non ha il minimo dubbio.

Qui, tuttavia, non si tratta tanto di esporre o testimoniare posizioni teologiche quanto di comprendere nel loro contesto storico e sociologico le valutazioni di Plino Corrêa de Oliveira, che non riguardano solo la sua persona o quella di chi per lui ha avuto sentimenti di devozione e stima ma le decine di migliaia di persone che ne sono state a diverso titolo influenzate. Quello che Corrêa de Oliveira pensava del Vaticano II deve essere quindi – prima che valutato (e i criteri di valutazione possono essere molteplici) – precisato. Il giudizio del 1977, anzitutto, è stato pronunciato in un contesto storico che non può essere ignorato. Si situa un anno prima della morte di Papa Paolo VI, in un momento in cui – secondo il giudizio che era stato appena espresso da specialisti autorevoli e rispettati nella Chiesa cattolica come padre Ulisse Alessio Floridi, S.J. (1920-1986) – era evidente che la politica diplomatica della Segreteria di Stato vaticana nei confronti dei Paesi comunisti, la cosiddetta Ostpolitik (contro cui la TFP si era e si sarebbe a sua volta espressa in termini molto critici) non stava dando, per usare un eufemismo, i frutti sperati (Floridi 1976). Le dichiarazioni di vescovi brasiliani sulla lotta di classe e l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione – parole d’ordine in cui si riassume il comunismo – erano di quattro anni prima, del 1973, e la maggiore raccolta di poesie «falce e martello» del vescovo Casaldáliga del 1974. In quella situazione sembrava davvero che la mancata condanna del comunismo al Concilio avesse avuto l’effetto di una palla di neve che rotolando a valle diventa valanga.

Se queste circostanze «colorano» il giudizio di Plinio Corrêa de Oliveira (che egli peraltro non ha mai rinnegato, anzi ha ribadito nell’Autoritratto filosofico del 1976 rivisto nel 1994: Corrêa de Oliveira 1996), le questioni fondamentali da porsi sono però due. La prima, se il giudizio si riferisca semplicemente all’omessa condanna del comunismo da parte del Concilio, o al Concilio-evento in quanto fatto sociale e mediatico oppure ancora ai testi del Concilio. A una prima lettura, alcune affermazioni potrebbero apparire piuttosto generali. Tuttavia, sembra invece certo che il giudizio non si riferisca ai testi e documenti del Concilio Vaticano II, e del resto il pensatore brasiliano in corrispondenze e incontri personali ha sempre risposto in questo senso a quesiti specifici (Cantoni 2003, 5). Se Corrêa de Oliveira avesse considerato tali testi e documenti come «catastrofici» e avesse opposto loro un rifiuto globale e di principio, non li avrebbe in altri contesti citati come fonti autentiche e autorevoli del magistero, come fa nelle sue opere successive all’edizione del 1977 di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, fino all’ultima Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al patriziato e alla nobiltà romana (Corrêa de Oliveira 1993, 54 e 154-155) passando per un testo del 1985 che difende la TFP contro un libello calunnioso (Corrêa de Oliveira 1985, 112-113: cfr. Cantoni 2003, 3-4).

Del resto, il pensatore brasiliano dopo il Concilio ha tranquillamente continuato a citare, senza che neppure lo sfiorasse il dubbio che si trattasse di magistero autentico della Chiesa cattolica, i Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II, e nella terza edizione portoghese del 1993 di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, integrata da ulteriori Commenti, per illustrare la parte relativa al giudizio sul Concilio si serve precisamente di citazioni di questi due Pontefici nonché del cardinale Ratzinger intervistato da Vittorio Messori (Messori 1985; nell’edizione italiana Corrêa de Oliveira 1998, 168-170). Tutto questo non è ovvio. Chi non considera espressione autentica del magistero cattolico il Concilio Vaticano II non ne cita i documenti, né cita Paolo VI e Giovanni Paolo II che sono, in tutti i sensi del termine, «Papi del Concilio». Né le citazioni del magistero, nel contesto di pensatori di scuola cattolica contro-rivoluzionaria, sono mai semplici strategie discorsive: il significato e il destino della scuola si gioca, appunto, sul magistero (Cantoni 2003, 4). A contrario, il mondo cosiddetto «tradizionalista» raccolto intorno a monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991) – sulle cui divergenze con Corrêa de Oliveira dovremo tornare –, che considera almeno sospetti i testi del Concilio Vaticano II, certamente non li cita né li illustra come fonti di magistero. Ma appunto, come sottolineava Corrêa de Oliveira nel 1991 in occasione della morte di monsignor Lefebvre ricordando sia l’antica collaborazione nell’ambito del Coetus Internationalis Patrum sia le più recenti divergenze, nella sua rottura con la Santa Sede não o acompanhei, «non l’ho seguito» (Corrêa de Oliveira 1981).

Dunque, il giudizio di Corrêa de Oliveira non si riferisce ai testi e documenti del Concilio, e certamente si riferisce al fatto dell’omissione della condanna esplicita del comunismo e alle sue notevolissime conseguenze. Tra queste due conclusioni certe c’è spazio per un’ulteriore indagine. Il giudizio negativo, infatti, dal fatto dell’omissione relativa al comunismo si muove in direzione di un certo aspetto del Concilio-evento, di un certo modo di presentare il Concilio all’opinione pubblica e ai media che durante le assise romane già prepara il successivo «spirito del Concilio» e che, come qui si è più volte accennato, è un elemento che è possibile e sociologicamente fecondo tenere distinto sia dai documenti sia dalla loro interpretazione, due elementi rispetto ai quali costituisce un tertium genus con caratteristiche in parte autonome. E su questo terzo elemento, il Concilio-evento e la sua presentazione mediatica internazionale, la valutazione di Corrêa de Oliveira rimane perplessa e riservata.

La seconda domanda è se il giudizio di Plinio Corrêa de Oliveira sul carattere catastrofico dell’omissione di una condanna esplicita del comunismo al Vaticano II sia storicamente condivisibile. La risposta dovrebbe anche qui tenere conto del contesto brasiliano e non solo di quello internazionale. Vista dall’Italia la situazione poteva apparire lievemente diversa. In Italia, per esempio, per il suo esplicito sostegno al marxismo nel 1976 Dom Giovanni Franzoni, S.D.B., abate benedettino di San Paolo fuori le Mura a Roma e già padre conciliare, è ridotto allo stato laicale. In Brasile le teorie di Dom Franzoni sulla lotta di classe sono proposte, negli stessi anni e quasi negli stessi termini letterali, come documenti del magistero episcopale. Che le vicende non solo brasiliane ma internazionali che si sono sviluppate dopo il Concilio in tema di comunismo e «teologia della liberazione» abbiano un rapporto diretto con l’omissione della condanna è ormai opinione diffusa e autorevolmente insegnata. Lo stesso monsignor Walter Brandmüller, presidente del Pontificio Consiglio di Scienze Storiche, scrive che «come noi sappiamo quarant’anni dopo la sua conclusione sarebbe stata una pagina gloriosa per il concilio se, seguendo le orme di Papa Pio XII (1939-1958), avesse trovato il coraggio di condannare espressamente e di nuovo il comunismo» (Brandmüller 2005, 6).

Forse si può dire anche qualche cosa di più. La terza edizione italiana del 1977 di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione è soprattutto importante per l’aggiunta alle categorie di I, II e III Rivoluzione di una nuova IV Rivoluzione, che si manifesta essenzialmente come rivoluzione culturale in interiore homine pur avendo anche manifestazioni sociali nelle leggi, per esempio, che pretendono di legalizzare la droga o l’aborto. Tra questa rivoluzione culturale e il comunismo – fra la IV e la III Rivoluzione – intercorre tutto un intreccio di complessi rapporti. Se la data emblematica della IV Rivoluzione è il 1968, si tratta anche di un anno – e di una stagione – in cui i fermenti terroristici che operano all’interno del comunismo italiano ed europeo e gli echi mondiale della rivoluzione culturale cinese (1966-1969) permettono forse di parlare, se si adottano le categorie di Corrêa de Oliveira, anche di una IV Rivoluzione all’interno della III.

Ora, questo complicato 1968 come intreccio di rivoluzione culturale e di marxismo, esercita la sua influenza anche all’interno della Chiesa, dove la vigilanza anti-marxista evidentemente non era stata sufficiente. Al di là dell’asprezza di qualche espressione, è difficile non vedere nella terza parte di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione – che ha natura come sottolinea Giovanni Cantoni di work in progress, di «lavoro in corso», più che di testo dove si propongono conclusioni definitive (Cantoni 2008, 236) – una prima analisi che va nella stessa direzione di altre, anche autorevolissime, che saranno svolte a maggiore distanza cronologica dai fatti. Nel 2007 Papa Benedetto XVI spiegherà che dopo la «rivoluzione culturale» del 1968 nella Chiesa «una parte era del parere che questa rivoluzione culturale era quanto aveva voluto il Concilio, identificava questa nuova rivoluzione culturale marxista con la volontà del Concilio; diceva: questo è il Concilio. Nella lettera [si diceva] i testi sono ancora un po’ antiquati, ma dietro le parole scritte sta questo spirito, questo è la volontà del Concilio, così dobbiamo fare» (Benedetto XVI 2007). È difficile separare la questione del cedimento di tanti teologi dopo il 1968 alla «nuova rivoluzione culturale marxista» e alla sua «identificazione con il Concilio» dalla questione del rapporto – ancora una volta non tanto nei testi, quanto negli atteggiamenti, nelle omissioni e nella comunicazione – fra comunismo e Concilio in genere. Per dirla con monsignor Brandmüller, forse non si ebbe sufficiente «coraggio».

b) I documenti conciliari

Come si è accennato, solo una lettura isolata dal contesto della famosa pagina del 1977 di Plinio Corrêa de Oliveira può fare ritenere che essa si riferisse ai documenti del Vaticano II. Per il pensatore brasiliano quei documenti erano atti del magistero autentico; come tali li citava nelle sue opere. Peraltro, gli atti del magistero – beninteso, senza che per questo il magistero diventi meno autentico – possono essere formulati in termini più o meno chiari, precisi e bisognosi d’interpretazione. Se, come insegna Papa Benedetto XVI, « la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile» e «i problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro» (Benedetto XVI 2005), questo significa anzitutto che i testi erano in effetti, almeno a una prima lettura, potenzialmente aperti a diverse ermeneutiche.

Nelle grandi strutture sociali in genere, come illustra l’ampia letteratura sociologica che esiste a partire dagli anni 1960 sul fenomeno del cosiddetto whistle-blowing («soffiare nel fischietto», con riferimento all’atteggiamento dei poliziotti inglesi quando segnalano che qualcosa non va), nascondere l’esistenza di problemi che i membri rilevano nella loro attività quotidiana è nocivo all’organizzazione. In un’organizzazione sana, questi problemi sono portati all’attenzione dell’autorità sotto forma di domande. La patologia nasce quando chi formula le domande – talora perché spazientito dai tempi lunghi nei quali l’organizzazione risponde – comincia a darsi da solo le risposte che spetterebbe all’autorità fornire. A questo punto chi aveva formulato la domanda – ma ora ha dato anche la risposta – cerca di associarsi con altri creando un centro di autorità alternativo, dannoso per l’organizzazione, la quale non può funzionare bene con centri di autorità multipli (quello che nella Chiesa abbiamo incontrato come «magistero parallelo»), ovvero lascia l’organizzazione («defettore»), talora diventandone un critico militante («apostata», parola che in questa discussione ha un preciso significato sociologico, distinto dal comune significato teologico o morale). La categoria del whistle-blower comprende in realtà figure diverse: ci sono «apostati» che fanno del whistle-blowing cercando di attirare l’ira dei media o della legge sull’organizzazione che hanno lasciato, mentre altri sono leali all’organizzazione di cui fanno ancora parte e attraverso l’esposizione, per usare un’espressione non sociologica, di panni sporchi in pubblico sperano di affrettare il momento in cui l’organizzazione risponderà alle domande che hanno formulato (Bromley 1998).

A proposito dei documenti del Vaticano II, altro è il chiaro insegnamento magisteriale sulle «due ermeneutiche» e la condanna della «ermeneutica della discontinuità e della rottura» (Benedetto XVI 2005) nel 2005, altra è la situazione degli anni 1970 in cui quella ermeneutica sembrava dominante. All’epoca, che qualcuno ponesse domande su come i testi dovessero essere interpretati era non solo legittimo, ma necessario al corretto funzionamento dell’organizzazione. Va però distinta, appunto, la formulazione anche energica e reiterata di domande – perfino con fenomeni di whistle-blowing che rimangono però nella sfera della lealtà alla Chiesa – dalla pretesa di dare risposte sostituendosi all’autorità e al magistero. Si è visto come a partire almeno dalla contestazione dell’Humanae vitae un certo numero di teologi progressisti si costituiscano in «magistero parallelo». Come nota Richard John Neuhaus, gli stessi argomenti sono però utilizzati anche da «tradizionalisti». Pure costoro, dopo avere formulato legittime domande su testi e documenti del Vaticano II, iniziano a darsi da soli le relative risposte e adottano una «ermeneutica della discontinuità e della rottura», proclamando che il Concilio ha rotto con tutta la tradizione precedente e dunque non deve essere seguito dai fedeli «tradizionali».

Secondo Neuhaus la distinzione giornalistica comune fra «progressisti» e «conservatori», a proposito dell’atteggiamento di fronte ai testi del Vaticano II, non è sufficiente. «Anche se si deve tenere conto di sfumature, eccezioni e complessità c’è il partito della continuità e il partito della discontinuità. Il partito della discontinuità ha una branca di destra e una di sinistra, divise su tutto ma unite sul punto che il Vaticano II rappresenta una rottura decisiva nella storia della Chiesa cattolica. La branca di destra vede il Concilio come deviazione, o persino apostasia; la branca di sinistra lo vede come liberazione, o persino rivoluzione. Ma entrambe vedono il Concilio come rottura rispetto a tutta la situazione precedente. Entrambe parlano come se esistessero due Chiese diverse, una preconciliare e una postconciliare» (Neuhaus 2007, 177).

Beninteso, le due branche non hanno avuto lo stesso potere nei media, nei seminari e nelle università teologiche, né – quindi – le stesse responsabilità. «Io sono convinto – scrive Neuhaus – che la branca di destra del partito della discontinuità abbia torto quando dà la colpa al Concilio. Dire che un Concilio è infallibile, e lo è, non significa dire che il Concilio è onnisciente, e non lo è. Negli anni successivi molti padri conciliari non hanno fatto mistero di come avrebbero preferito che alcuni documenti fossero stati scritti con parole diverse, in modo da evitare gli equivoci e le deliberate falsificazioni degli anni successivi. Ma la responsabilità per quanto è andato storto […] va attribuita per la maggior parte alla branca di sinistra del partito della discontinuità» (ibidem, 180-181).

L’atteggiamento di Plinio Corrêa de Oliveira rispetto ai documenti del Concilio si precisa in una stagione in cui da una parte domina la scena ecclesiastica e teologica, tanto più in Brasile, la «branca di sinistra del partito della discontinuità», dall’altra la «branca di destra» dello stesso partito trova la sua identità passando, precisamente, dal ruolo di chi pone domande all’interno della Chiesa cattolica, attendendo la risposta dall’autorità, al ruolo di chi si dà direttamente le risposte, uguali quanto al fatto ma opposte quanto al giudizio rispetto alla «branca di sinistra». Non è questa la sede per ricostruire l’itinerario – su cui esiste del resto ormai ampia letteratura – di monsignor Marcel Lefebvre e della sua Fraternità Sacerdotale San Pio X, che segue precisamente questo schema. Un cammino, come accennato, su cui Plinio Corrêa de Oliveira «non ha seguito» monsignor Lefebvre. Tuttavia – tanto più negli anni 1970 – il pensatore cattolico brasiliano non pensa neppure che non ci siano domande da porre, o che tutte le risposte siano già state date. Si situa qui la ragione di una evidente riservatezza e cautela. per cui l’uso dei testi del Vaticano II negli scritti di Corrêa de Oliveira – pure, come si è mostrato, non assente – non è così sistematico come era stato negli anni 1950, per esempio, il riferimento al magistero di Pio XII.

Una vicenda interna alla TFP – nonostante la sua natura controversa – può servire a illustrare ulteriormente quale fu, e soprattutto quale non fu, la posizione del pensatore brasiliano e della sua associazione a proposito dei testi del Concilio. Atila Sinke Guimarães nel 1985 è descritto da Plinio Corrêa de Oliveira come «un giovane il cui nome menziono con affetto e apprezzamento» (Corrêa de Oliveira 1985, 245), «al quale la TFP già deve lavori intellettuali di rilevante valore, che ne fanno presagire altri ancora maggiori» (ibidem, 244), ma anche come un personaggio talora troppo entusiasta che è stato all’origine di ipotesi avventurose contro le quali il fondatore della TFP sarebbe stato costretto a intervenire «qualora queste ipotesi avessero rischiato di mettere radici durevoli all’interno dell’organizzazione [TFP]» (ibidem, 244-245). Secondo quanto egli stesso riferisce, Atila Sinke Guimarães è incoraggiato da Plinio Corrêa de Oliveira nella sua intenzione di studiare sistematicamente i documenti del Concilio, il che egli fa fra il 1982 e il 1995 producendo il manoscritto di una monumentale opera in undici volumi, più tardi intitolata Eli, Eli, Lamma Sabachtani? Secondo Guimarães l’opera avrebbe dovuto essere riesaminata da Corrêa de Oliveira e pubblicata «verso la fine del 1995. Ma egli [Corrêa de Oliveira] morì poco prima» («Questions about the Past and Present Day Relations between TIA and TFP» 2008).

Nel 1997 Guimarães pubblica negli Stati Uniti il primo volume del suo studio, con il titolo In the Murky Waters of Vatican II («Nelle acque torbide del Vaticano II»: Guimarães 1997) senza l’autorizzazione degli organi direttivi della TFP, che lo avevano anzi diffidato dal procedere alla pubblicazione e lo espellono dalla stessa TFP nel 1998. Benché, come vedremo in un prossimo articolo, all’epoca la dirigenza della TFP sia scossa da un profondo conflitto tra due diverse anime, sembra che uno dei pochi punti su cui tutti sono d’accordo sia precisamente l’espulsione di Guimarães («Questions about the Past and Present Day Relations between TIA and TFP» 2008).

Dal punto di vista formale, Guimarães riferisce che secondo i dirigenti della TFP il suo libro contrastava con la posizione ufficiale dell’associazione sui testi del Concilio, che sarebbe stata trasmessa al cardinale Lucas Moreira Neves (1925-2002), il quale aveva accusato la TFP di essere «in opposizione al Concilio», con una lettera datata 18 settembre 1995. Secondo Guimarães questa lettera sarebbe stata «scritta e spedita senza il consenso del professor Plinio, che era allora in ospedale e morì due settimane dopo il 3 ottobre 1995» («Questions about the Past and Present Day Relations between TIA and TFP» 2008). Tuttavia, al di là di alcune espressioni di circostanza, il contenuto della lettera del 18 settembre 1995 riproduce in modo identico parte di un testo del 1989 (che risale, cioè, a un’epoca in cui il pensatore brasiliano non era sul letto di morte) pubblicato dalle TFP statunitense e canadese in rapporto ad attacchi del periodico Fidelity, scritto «di cui il professor Plinio non è estensore materiale, ma da lui accuratamente riveduto, sì da poterlo considerare un testo che lo impegna, di cui è – per così dire – autore “morale”» (Cantoni 2003, 22). In questo testo, le due associazioni nordamericane consorelle della TFP brasiliana dichiarano la loro «perplessità», «non comprensione» e «confusione» a proposito, a rigore, non di testi del Concilio in specie ma di «certe riforme e di avvenimenti che si sono verificati nella Chiesa a partire dal pontificato di Giovanni XXIII» in genere (The American Society for the Defense of the Tradition, Family and Property e The Canadian Society for the Defense of the Tradition, Family and Property 1989, 78, nella traduzione di Cantoni 2003, 22).

«Questa perplessità – continuano sia il testo del 1989 sia la lettera del 1995 – non equivale a un’affermazione che vi fosse errore in tali accadimenti e in tali riforme, né equivale a un’affermazione che non vi fosse errore. Quanti fanno parte della TFP sono cattolici informati e colti, ma non sono specialisti e non sono in grado di risolvere tutte le questioni teologiche, morali, canoniche e liturgiche, estremamente complesse, che sono alla radice di questa perplessità. In considerazione di questo i membri delle TFP cercano di seguire le discussioni su queste questioni che sorgono qua e là nel mondo ecclesiastico, nella speranza che l’argomento venga debitamente chiarito» (ibidem [Cantoni 2003, 23 per la traduzione]). I testi ricordano poi il dialogo fra la Santa Sede e monsignor Lefebvre e il protocollo firmato il 5 maggio 1988 in cui l’arcivescovo francese s’impegna a «un atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica», e notano come – benché lo stesso monsignor Lefebvre abbia poi fatto un passo indietro rispetto alla sottoscrizione del protocollo – queste condizioni rimangano aperte ai gruppi «tradizionalisti» che intendano ritornare o rimanere nella piena comunione con la Santa Sede in base alla lettera apostolica Ecclesia Dei del 2 luglio 1988. Nella sostanza la posizione della TFP, retrospettivamente ricostruita nel 1989 e nel 1995 anche rispetto agli anni precedenti, s’inquadra nello schema che ho delineato come quella di chi ritiene che vi siano domande serie da porre, e attende risposta da chi ha l’autorità di «chiarire», ma non cede alla tentazione di darsi da solo le risposte, il che provoca la rottura con monsignor Lefebvre (e quella, assai dolorosa, con l’amico di sempre di Plinio Corrêa de Oliveira, monsignor Antonio de Castro Mayer, che segue monsignor Lefebvre ed è scomunicato insieme a lui nel 1988).

La stessa posizione di Atila Sinke Guimarães è a suo modo indicativa. La sua opera monumentale – tuttora in corso di traduzione in inglese e pubblicazione negli Stati Uniti – è stata definita da uno scrittore controverso ma certamente influente negli ambienti «tradizionalisti», l’ex-gesuita Malachi Martin (1921-1999), come «destinata probabilmente a sostituire Iota Unum del professor [Romano] Amerio [1905-1997] come il più importante manuale globale sul Concilio [di parte «tradizionalista»]» (Martin 1997, 13). Benché alcune singole affermazioni risultino particolarmente polemiche, Guimarães non sostiene apertamente e con certezza che i documenti del Concilio siano eterodossi. L’aggettivo più utilizzato per definirli è «ambigui». Anche quando un documento sembra eterodosso, si può trovare secondo Guimarães un altro testo del Vaticano II che espone la posizione ortodossa sullo stesso punto, così che il magistero conciliare sarebbe in sé «contraddittorio» (Guimarães 1997, 87). Qui, però, Guimarães va oltre la posizione di chi pone domande, o anche lamenta imprecisioni nella redazione dei testi, perché ritiene che «il linguaggio impreciso, esitante e provvisorio che non può che generare interpretazioni disparate e spesso contraddittorie» non sia casuale ma «deliberato» (Guimarães 1997, 349), cioè sia stato immesso volutamente nei testi dalla maggioranza dei padri conciliari, fra i quali i cardinali Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, che sarebbero poi diventati i Pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per interpretare il Concilio secondo Guimarães occorrerebbe dunque procedere in modo esattamente contrario rispetto a quanto insegna lo stesso Benedetto XVI: ricavare lo «spirito del Concilio» da dichiarazioni private e scritti teologici di padri conciliari della corrente «progressista» (ritenuta dall’autore brasiliano maggioritaria) e quindi procedere a interpretare i testi «ambigui» del Vaticano II alla luce di questo «spirito del Concilio». Testi che di per sé sarebbe possibile interpretare anche in senso ortodosso verrebbero così esplicitati nel loro senso chiaramente eterodosso, che corrisponderebbe all’intenzione della maggioranza dei padri conciliari.

Una posizione siffatta, che attribuisce a due Papi se non a quattro (le critiche coinvolgendo anche Giovanni XXIII e Paolo VI) un animus delendi, un «desiderio di distruggere» la Chiesa (Guimarães 2000, 2002) dovrebbe portare ragionevolmente l’autore verso la posizione di quei «sedevacantisti» secondo cui i Papi, divenuti eretici, non sono più veramente Papi e la sede di Pietro è «vacante»: posizione che però Guimarães si rifiuta di sostenere, criticando anzi i «sedevacantisti» con argomenti che circolano anche in altri ambienti «tradizionalisti» (Matt 2001). Se, una volta poste le premesse di Guimarães, sia poi davvero facile resistere alle conclusioni «sedevacantiste» è un problema interessante, che rischia però di allontanarci dal nostro tema. Quello che emerge dalla vicenda Guimarães è che, formato alla scuola di Plinio Corrêa de Oliveira, l’autore brasiliano di fronte ai testi del Concilio non va al di là di una censura di ambiguità e di apertura a diverse interpretazioni. Nel momento in cui aggiunge che l’ambiguità è deliberata, e «immessa» nei testi ad arte dai padri conciliari come una bomba a orologeria, il passaggio a questo genere di teorie del complotto porta Guimarães alla rottura con la dirigenza della TFP, che unanimemente lo esclude dall’associazione.

Quanto a Plinio Corrêa de Oliveira, si può aggiungere – sulla scorta di osservazioni di Giovanni Cantoni – che egli non si limita ad annotare le difficoltà d’interpretazione di qualche testo, e a rimanere per così dire fermo attendendo chiarimenti. Negli scritti del pensatore brasiliano è pure presente un’analisi che contribuisce a illustrare perché i testi del Vaticano II siano esposti a interpretazioni diverse. Il Vaticano II, infatti, ha voluto essere ed è stato diverso da tutti i Concili che lo hanno preceduto. Al momento della chiusura dell’assise romana, nel 1966, in un articolo pubblicato senza firma su Catolicismo ma certamente di suo pugno (cfr. Cantoni 2003, 10-11) Corrêa de Oliveira scrive che «l’augusta Assemblea […] ha deciso di fare una mossa senza precedenti. Infatti in tutte le deliberazioni conciliari si nota l’impegno a fare le maggiori concessioni, i maggiori sacrifici al fine di attirare la benevolenza di quanti si trovano separati dalla Chiesa […] In questo modo i Padri Conciliari hanno sperato di aprire la via affinché la verità finalmente penetri nelle zone ideologiche in cui domina l’errore. E affinché l’umanità riconciliata possa godere dei benefici della pace. Indubbiamente il Concilio non ha concepito quest’opera come tale da poter produrre tutti i suoi effetti da un momento all’altro. Esso non ha fatto altro che aprire una via d’accesso, con un gesto di un’ampiezza tale che, da un certo punto di vista, si potrebbe definire inimmaginabile» (Corrêa de Oliveira 1966, 6).

Certamente Corrêa de Oliveira non pensava di proporre nel 1966 un’analisi sociologica, né questa sarebbe stata davvero possibile «a caldo», appena chiuso il Concilio. Tuttavia, la descrizione della «mossa senza precedenti» del Concilio come «fuoriuscita della Chiesa dal ghetto in cui era stata rinchiusa dal “mondo” nei secoli della modernità: e nel quale ghetto, talora, i suoi stessi uomini l’avevano rinchiusa per “proteggerla”» (Cantoni 2003, 20) – e dei relativi rischi sotto forma di esposizione a ermeneutiche diverse e contraddittorie – anticipa in modo perfino sorprendente tutta una serie di analisi (per esempio in tema di spostamenti da una nicchia all’altra del mercato religioso) che la sociologia formulerà, certo con un linguaggio molto doverso, qualche decennio dopo il Vaticano II, per non parlare delle valutazioni non strettamente sociologiche che emergeranno nel magistero di Giovanni Paolo II e, particolarmente, di Benedetto XVI.

c) Le riforme postconciliari

Nonostante l’attenzione tutta particolare che, come si è visto, i sociologi portano alla riforma dell’astinenza dalle carni al venerdì, tra le riforme postconciliari quella che ha generato maggiori polemiche – anche in relazione al giudizio di Plinio Corrêa de Oliveira – ha per oggetto la liturgia. Sul punto emergono due conclusioni. La prima è che il pensatore cattolico brasiliano non ama la «nuova Messa» detta di Paolo VI. Pur non essendo uno specialista di liturgia – anzi, ripetutamente dichiarando di non essere tale – ha letto numerose opere critiche sul Novus Ordo Missae, alcune delle quali opera di teologi e anche di vescovi particolarmente autorevoli di cui condivide le preoccupazioni. Sulla base di queste preoccupazioni, per quanto è dato sapere, Plinio Corrêa de Oliveira nel corso della sua vita si astiene costantemente dal partecipare alla Messa secondo il Novus Ordo, tanto più che a San Paolo – dove vive e da dove si sposta raramente, soprattutto dopo un grave incidente automobilistico del 1975 – può facilmente frequentare sia la Messa tradizionale detta «di San Pio V» celebrata da sacerdoti in piena comunione con la Chiesa cattolica sia Messe celebrate secondo i riti cattolici orientali che non sono stati oggetto di riforma post-conciliare. Molti soci e collaboratori della TFP imitano il suo esempio.

La seconda conclusione è che, anche sulla riforma liturgica, l’atteggiamento di Plinio Corrêa de Oliveira è quello di chi pone domande e chiede chiarimenti, non di chi si sostituisce alla legittima autorità pensando di poter fornire tutte le risposte. Come scrive Roberto de Mattei, «su questo delicato punto, non assunse mai una posizione pubblica, né volle in alcun modo impegnare la sua associazione, lasciando l’ultima decisione alla coscienza dei singoli. Si trattava infatti di un campo strettamente teologico al di fuori della competenza specifica della TFP» (de Mattei 1996, 307), organismo specificamente civico-culturale e non direttamente impegnato o competente nelle questioni liturgiche. Per comprendere questo atteggiamento è necessario riflettere sul fatto che Corrêa de Oliveira, come testimonia chiunque lo abbia conosciuto, manifestava comunque sempre una «fermissima volontà di non “uscire” dalla comunione della Chiesa cattolica» (Cantoni 2003, 22) – da cui le rotture con i vescovi Lefebvre e de Castro Mayer. La distinzione, che potrebbe sembrare a prima vista capziosa, fra posizioni «private» dei dirigenti della TFP e assenza di posizione «pubblica» dell’associazione in materia di Novus Ordo Missae in realtà preserva la grande maggioranza dei membri della TFP dalla tentazione di seguire monsignor de Castro Mayer – che per loro era stato per anni punto di riferimento – sulla strada dello scisma e della scomunica.

Tutto questo è confermato dalla vicenda di uno studio che un socio della TFP, Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira, prepara negli anni 1970-1971 in Brasile e diffonde poi internazionalmente con l’edizione francese del 1975 (Vidigal Xavier da Silveira 1975), in cui si mette in dubbio il carattere pienamente cattolico del Novus Ordo Missae. Plinio Corrêa de Oliveira apprezza il volume e lo invia personalmente a vescovi ed autorità ecclesiastiche perché lo esaminino, ma non lo fa mai pubblicare dalla TFP né lascia che sia presentato come una posizione «ufficiale» della stessa associazione. Né considera mai motivo di rottura la posizione di chi, pure apprezzando in genere le attività della TFP e il suo pensiero, contesta però le tesi del libro di Vidigal Xavier da Silveira (il riferimento, in particolare, è qui a Cantoni 1988). Si può qui condividere la conclusione di de Mattei secondo cui – a differenza di altri – Corrêa de Oliveira non considera il problema della riforma liturgica separandolo da quello più generale dell’interpretazione del Concilio Vaticano II. Piuttosto, il suo atteggiamento era orientato dalla «convinzione che il problema andasse inquadrato nella più ampia crisi della Chiesa postconciliare, e solo in questo quadro potesse un giorno essere risolto» (de Mattei 1996, 308).

d) Lo «spirito del Concilio»

Un tema su cui Plinio Corrêa de Oliveira non si è certamente risparmiato è la denuncia dello «spirito del Concilio», che è cosa – come ormai sappiamo, secondo una tesi che è divenuta magistero con Benedetto XVI – diversa dai testi del Concilio. L’«ermeneutica della discontinuità», infatti, «asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità » (Benedetto XVI 2005).

La chiara denuncia pontificia del 2005 non fa venire meno il fatto che nel periodo che qui prendiamo in esame lo «spirito del Concilio» sembra dominare non solo l’ermeneutica dei testi conciliari, ma anche la vita della Chiesa. In Brasile, come si è accennato, questo avviene in particolare nel campo politico e della dottrina sociale, con il dilagare di una «teologia della liberazione» d’impronta marxista. Plinio Corrêa de Oliveira non confonde mai questo «spirito del Concilio» con i testi conciliari. Ma non ritiene che l’appello al Concilio sia una difesa sufficiente per giustificare gesti e insegnamenti portatori, per dirla con Benedetto XVI, di «ogni estrosità». Soprattutto nel campo di cui è specialista, quello della dottrina socio-politica e socio-economica, Corrêa de Oliveira continua a denunciare incessantemente le prese di posizione di teologi, associazioni cattoliche ed anche vescovi – che, come si è visto, soprattutto in Brasile non mancano – quando su temi come la riforma agraria, l’autogestione, Cuba o l’Unione Sovietica manifestano una singolare vicinanza alle posizioni socialiste e comuniste. La tesi secondo cui queste prese di posizione trasmettono il vero «spirito del Concilio» è sistematicamente usata contro Plinio Corrêa de Oliveira e la TFP. Soltanto con il pontificato di Giovanni Paolo II – ma, anche durante quest’ultimo, in Brasile più tardi che altrove, e non senza strascichi che perdurano ancora oggi – la cultura che fa sistematicamente passare una «teologia della liberazione» d’ispirazione marxista come genuina manifestazione dello «spirito del Concilio» è progressivamente smantellata dall’autorità ecclesiastica.

Il ruolo assunto da Plinio Corrêa de Oliveira nei confronti di questa teologia e delle sue conseguenze pratiche è quello del whistle-blower. Egli denuncia le deviazioni alle autorità competenti. Quando l’autorità sembra tardare a reagire, porta le denuncie in pubblico attraverso le grandi campagne della TFP, sempre senza però sostituirsi all’autorità stessa. Il ruolo del whistle-blower non è mai comodo, e ricorda quello del grillo parlante nella favola di Pinocchio il quale, occasionalmente apprezzato per la sua saggezza, più spesso finisce preso a martellate. Si spiegano così le difficoltà che la TFP e Plinio Corrêa de Oliveira continueranno a incontrare negli anni 1980 e 1990, di cui tratteremo in un prossimo testo.

 

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