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Populismo, Chiesa e Contro-Rivoluzione nel Brasile degli anni 1950

di Massimo Introvigne

imgIl populismo: una definizione

Tutti gli studi della situazione politica e culturale latino-americana intorno alla Seconda guerra mondiale e nei decenni successivi fanno riferimento alla categoria di «populismo» (cfr., fra i molti, Conniff 1981; Conniff 1982; Conniff 1999; Drake 1978; Weffort 1978). La definizione della categoria si rivela però particolarmente elusiva. Anzitutto, mentre concetti come «socialismo» o «democratismo cristiano» sono definiti in prima istanza dai loro sostenitori – e solo in un secondo tempo dai critici – quasi nessun movimento si auto-definisce «populista». L’etichetta è applicata ex post da osservatori esterni, spesso critici. Si corre così il grave rischio che «populismo» – quando è applicato a qualunque esponente politico o leader culturale capace di ottenere un notevole successo e consenso personale, dal presidente della Repubblica Argentina Juan Domingo Perón (1895-1974) al presidente del Consiglio dei Ministri italiano Silvio Berlusconi – rischi, a rigore, di non significare più nulla. Non sembra tuttavia impossibile descrivere un genus «populismo» cui poi corrisponda una species latino-americana.

In generale il populismo è l’appello al «popolo» contro le élite politiche, religiose e culturali, fondato sull’argomento che i mali del «popolo» derivano dall’eccessivo potere e dalla malizia delle élite così che, trasferendo il potere dalle élite al «popolo», tutti i problemi saranno risolti. Il populismo intrattiene complessi rapporti con il socialismo, ma non è la stessa cosa. Mentre il socialismo ritiene che il popolo non sia sufficientemente cosciente dei suoi problemi e abbia bisogno di un’«avanguardia» che lo guidi, il populismo insiste sul fatto che il popolo è capace di guidarsi da solo, trovando nel suo seno leader carismatici che dichiarano di non fare parte delle élite e anzi di volerle combattere. Il leader carismatico non trae la sua legittimità da un maggiore sapere ma dal popolo, il quale glielo conferma tramite le elezioni, che assumono così un significato quasi sacrale (Conniff 1999b, 7) – e del cui potere salvifico il socialismo, specie quello «scientifico» marxista, è assai meno convinto. Il contatto diretto fra il leader e le masse è assicurato da una serie di elementi che negli anni intorno alla Seconda Guerra Mondiale rappresentano una novità nella politica mondiale: l’uso dell’aereo che permette tournée nazionali in Paesi piuttosto grandi come il Brasile o gli Stati Uniti dove molti elettori possono così vedere per la prima volta con i loro occhi un dirigente politico nazionale (e spesso anche un aereo), e il massiccio ricorso prima alla radio e poi alla televisione che consentono un discorso per slogan che supera la tradizionale carta stampata. Un altro elemento costitutivo del populismo è il «nuovismo»: il popolo, per definizione, rappresenta il nuovo e le élite rappresentano il vecchio. Infine, dal momento che le élite sono presentate come difficili da sconfiggere senza ricorrere all’apparato coercitivo dello Stato, il populismo (almeno quello «classico» degli anni 1940-1960) è statalista, e sostenitore di politiche economiche che – dietro lo slogan dello «sviluppo» – propongono formule «tassa e spendi», cioè elevata fiscalità e aumento della spesa pubblica. Su quest’ultimo elemento si basano le critiche degli economisti (Dornbusch e Edwards 1991) mentre anche autori più indulgenti riconoscono che le politiche populiste «hanno portato spesso inflazione, aumento del debito pubblico e accuse di corruzione» (Conniff 1999b, 6).

Tutto questo vale per il populismo «classico». Alcuni parlano di «neo-populismo» con riferimento a politici come Fernando Affonso Collor de Mello, presidente della Repubblica Federale del Brasile dal 1990 al 1992, o – appunto – Silvio Berlusconi, i quali hanno in comune con i populisti «classici» il fatto di non appartenere all’establishment politico tradizionale, l’uso sapiente dei mezzi di comunicazione di massa e un certo tipo di appello al «popolo». C’è tuttavia una differenza fondamentale, che rende l’uso del termine meramente analogico. I cosiddetti neo-populisti vivono in tempi, profondamente mutati rispetto agli anni 1950, in cui le élite e i «poteri forti» sono in gran parte politicamente orientate a sinistra e stataliste. L’appello «neo-populista» al «popolo» ha quindi un contenuto anti-statalista, mentre lo statalismo era intrinseco alla definizione del populismo classico.

Uno dei maggiori specialisti del populismo latino-americano, lo storico statunitense Michael L. Conniff, scrive a proposito dell’attuale presidente della Repubblica Federale del Brasile, Luiz Inácio «Lula» da Silva, che egli «non può neppure remotamente essere definito un populista» (Conniff 1999c, 59), giacché tutta la sua storia politica mostra chiaramente la sua appartenenza al campo socialista. Affermazioni di questo genere pongono il problema dei rapporti fra populismo e socialismo. Benché tra socialismo e populismo ci siano, come accennato, differenze concettuali, queste non sono sempre evidenti. Il socialismo – specie quello che non si presenta esplicitamente come marxista – utilizza spesso una retorica simile a quella del populismo. Per questa ragione, storicamente, non è raro il caso in cui il populismo faccia da apripista al socialismo e ne prepari i successi.

 

Il populismo in Brasile: gli anni 1950 e oltre

Non si esagera se si afferma che il Brasile è il Paese più importante del mondo per qualunque discussione sul populismo: la fase storica brasilana dal 1945 al 1964 è comunemente chiamata «Repubblica populista». Benché diversi uomini politici brasiliani siano stati chiamati «proto-populisti» l’epoca d’oro del populismo brasiliano inizia verso la fine della (seconda) dittatura di Getúlio Vargas (1882-1954), cioè del cosiddetto Estado Novo quando il dittatore, considerando inevitabile un prossimo avvento della democrazia, negli anni 1944-1945 si mette a organizzare partiti politici e «senza ancora abbracciare interamente lo stile populista, comincia ad adottarlo in via sperimentale» (Coniff 1999c, 48). Preoccupati dalla possibilità che il nuovo stile di Vargas apra la strada al socialismo o direttamente al comunismo, i militari reagiscono con il colpo di Stato del 29 ottobre 1945, che – a differenza di altri consimili – non priva Vargas della libertà né lo costringe all’esilio. Dalla cittadina nativa di São Borja, nel Rio Grande do Sul, dove si è ritirato, Vargas è anzi il principale artefice dell’elezione del maresciallo Eurico Gaspar Dutra (1883-1974) alla presidenza della Repubblica, assicurata dallo slogan «Vota Dutra, lo ha detto Lui», dove qualunque elettore brasiliano capisce facilmente che «Lui» è Vargas. Nel frattempo, Vargas (eletto comunque senatore nel 1946) è presente nella vita politica attraverso il potentissimo governatore dello Stato di San Paolo, Ademar Pereira de Barros (1901-1969), da molti considerato il vero fondatore del populismo brasiliano. Con il suo appoggio, Vargas è eletto nel 1950 nuovamente presidente della Repubblica, dopo avere «stabilito le sue credenziali come populista a tutto tondo» (Conniff 1999c, 48).

Il periodo conclusivo della carriera di Vargas s’inserisce pienamente nel quadro del populismo: polemica contro le élite tradizionali economiche, culturali e militari (con qualche colpo anche a quelle ecclesiastiche); nazionalizzazioni (fra cui quella del petrolio) e statalismo; tassazione elevata e misure demagogiche come l’aumento del 100% di tutti i salari proposto dal Ministro del Lavoro João «Jango» Goulart (1919-1976); mito dello sviluppo, uso accorto dei media e culto della personalità. Con questi sistemi Vargas ottiene un indubbio successo popolare, ma i risultati della sua politica di «tassa e spendi» sono, come spesso capita, rovinosi. Tra gli oppositori di Vargas emerge una nuova generazione di populisti, che criticano anche il suo passato di dittatore. Fra questi c’è il giornalista Carlos Lacerda (1914-1977), passato dalla militanza comunista a una conversione al cattolicesimo, ma sempre rimasto populista. Il 5 agosto 1954 Carlos Lacerda è ferito (o così sembra, perché sulla reale dinamica dell’incidente si discute accanitamente ancora oggi) nel corso di un attentato, il «crimine della Rua Tonelero», in cui rimane ucciso il maggiore dell’aereonautica Rubens Florentino Vaz (1922-1954), in circostanze mai veramente chiarite. Le indagini puntano il dito contro Gregório Fortunato (1900-1962), l’«angelo nero» di Vargas, compaesano di São Borja e da sempre capo della sua guardia del corpo, che confessa il crimine dichiarando di avere agito senza informare il presidente (morirà in carcere nel 1962, assassinato da un altro detenuto).  

In questo clima, con l’appoggio dell’esercito, i membri del governo chiedono le dimissioni del presidente, che preferisce suicidarsi nella notte fra il 23 e il 24 agosto 1954. Il suo elogio funebre è letto da Goulart, anche lui del gruppo di São Borja degli intimi del presidente, che aveva dovuto dimettersi da Ministro del Lavoro dopo i risultati fallimentari della sua politica, ma era la figura centrale di quella nuova generazione di populisti che intendeva rimanere leale alla memoria di Vargas. Goulart diventa due volte vice-presidente, prima con Juscelino Kubitschek (1902-1976), poi con il rivale di quest’ultimo Jânio Quadros (1917-1992), all’epoca esponente del Partito Democratico Cristiano (e nello stesso tempo membro della massoneria brasiliana) ma che in seguito avrebbe aderito al partito «laburista» PTB (Partido Trabalhista Brasileiro) fondato a suo tempo da Vargas. Con i «giovani populisti» nell’epoca di Quadros si compie la transizione dal populismo classico al socialismo. Quadros è costretto alle dimissioni nel 1961 poco dopo avere concesso la massima onoreficenza brasiliana, la Gran Croce dell’Ordine Nazionale della Croce del Sud, al rivoluzionario argentino Ernesto «Che» Guevara (1928-1967), simbolo della rivoluzione castrista che aveva trionfato a Cuba nel 1959 e del comunismo latino-americano. Con le dimissioni di Quadros, sale alla presidenza – superando le obiezioni dei militari – il vice-presidente Goulart, che – pur negando di essere personalmente comunista – avvia una politica di collaborazione con i Paesi comunisti e annuncia riforme sempre più radicali. Insieme con una «economia ridotta a un cumulo di rovine» (Conniff 1999c, 57) queste aperture al comunismo di Goulart provocano – in un paese dove l’anticomunismo continua a essere maggioritario – un’ampia protesta popolare, che culmina nella «Marcia della famiglia con Dio per la libertà» che riunisce oltre un milione di persone a Rio de Janeiro il 13 marzo 1964. Il successivo 31 marzo l’Esercito rompe gli indugi e con un colpo di Stato pone fine non solo alla presidenza Goulart, ma all’epoca del populismo in Brasile.

Vargas, almeno fino agli ultimi anni di vita, era veramente popolare in Brasile e contava numerosi sostenitori entusiasti. Era un uomo politico di un calibro superiore ai suoi successori, anche se verso la fine della carriera sembrava «avere perso il suo tocco magico» (Conniff 1999c, 50). Vargas, qualunque fossero le sue idee personali, per molti anni era riuscito a non perdere di vista il fatto che la maggioranza dei brasiliani era di sentimenti cattolici e anticomunisti. Non così i suoi successori, la seconda generazione di populisti al potere nel decennio 1954-1964. Alle incaute aperture alle forze socialiste e comuniste corrisponde un disprezzo per il «vecchio Brasile» e un generale involgarimento della vita sociale e culturale. Nulla testimonia meglio l’idea di fare piazza pulita della storia e di ricominciare ex novo tipica del populismo come la decisione del presidente Kubitschek di costruire dal nulla una nuova capitale, Brasilia («inaugurata» il 21 aprile 1960), abbandonando la capitale storica Rio de Janeiro. Qualunque cosa si pensi del valore artistico dei suoi principali edifici, Brasilia resta un simbolo sia della volontà della «Repubblica populista» di rompere con il passato e la storia sia della cattiva amministrazione dei populisti, che pagano le immense spese per la costruzione di una capitale artificiale con un vertiginoso aumento dell’inflazione.

Se per la volgarità culturale degli anni 1950 il quadro di riferimento non può essere solo quello nazionale del populismo brasiliano, ma si deve tenere conto anche della situazione internazionale – negli Stati Uniti gli anni 1950 sono quelli di una nuova popular culture generalmente considerata di livello più discutibile di quella dei decenni precedenti (per i cui rapporti conflittuali con la religione cfr. Ellwood 1997), la cui icona di riferimento è il cantante Elvis Presley (1935-1977) – un aspetto tipico del Brasile è il mito della riforma agraria, che diventa onnipervasivo verso la fine del decennio. Gli autori che notano come i grandi progetti populisti di riforma agraria non abbiano portato nessun beneficio reale all’agricoltura brasiliana – e neppure agli agricoltori – sono molti (cfr. Dornbusch ed Edwards 1991) e hanno certamente ragione, ma talora rischiano di passare accanto all’aspetto principale della questione. La riforma agraria in Brasile non è principalmente un progetto economico, ma è un mito populista destinato a rendere permanente l’agitazione contro le élite e il «vecchio Brasile» in favore del «nuovo», dello «sviluppo», del «popolo»: quindi della classe politica populista, che afferma di rappresentarlo. Da questo punto di vista la riforma agraria brasiliana non è tanto un insieme di leggi quanto un mito in cui si racchiudono tutta la mistica del populismo e la sua lenta evoluzione verso il socialismo, qualche cosa di simile al mito dello sciopero generale nel pensiero di Georges Sorel (1847-1922). Per questa ragione, gli stessi militari al potere per ventun anni dopo la caduta di Goulart saranno spesso tentati dall’evocare il mito della riforma agraria e di proporre «un progetto politico dotato di sorprendenti somiglianze con il progetto precedente», inteso – pur separando il populismo dall’appello salvifico alle elezioni – a «rendere ancora più profonda la presenza dello Stato come agente economico» (Reis 2000, 175). Ancora più curiosamente, gli stessi miti populisti contagiano una parte non irrilevante della gerarchia cattolica brasiliana.

 

La Chiesa e il populismo: la curiosa avventura della «prima» Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB)

Del populismo brasiliano «il vertice della Chiesa cattolica brasiliana fu cooperatore e legittimatore» (Coppe Caldeira 2005, 78). Ma quale «vertice»? La Chiesa cattolica brasiliana, come ho illustrato in un altro articolo, esce dalla Seconda Guerra Mondiale e affronta gli anni 1950 in uno stato di crisi che non si aspettava, empiricamente misurabile nel declino delle vocazioni e della partecipazione religiosa, cui fa da contrappunto una rilevante crescita protestante. Come ha notato lo storico e teologo statunitense Ralph Della Cava (1976, 31) il vertice del mondo cattolico risponde con due strategie. La prima ha il suo centro a Rio de Janeiro intorno a un veterano del Risveglio Cattolico tra le due guerre mondiali, Alceu Amoroso Lima (1893-1983), che scrive con lo pseudonimo Tristão de Ataíde e che cerca di lanciare anche in Brasile la Democrazia Cristiana che aveva contribuito a fondare in Cile, con il nome di Partido Democratico Cristão (PDC). Ma la Democrazia Cristiana, a differenza di quanto avviene in altre nazioni, in Brasile sostanzialmente fallisce: il suo miglior risultato elettorale, cui arriverà nel 1962, sarà del 5,7% (anche se servirà da supporto pressoché occasionale per l’ascesa alla presidenza di Jânio Quadros, un uomo politico peraltro – come accennato – membro della ultra-anticlericale massoneria brasiliana). Il cattolicesimo democratico di Tristão de Ataíde è troppo a sinistra per la maggioranza dei cattolici brasiliani, e troppo a destra per quel «vertice della Chiesa» che sceglie prima il populismo e poi la collaborazione con il socialismo.

La strategia alternativa è elaborata da Dom Hélder Câmara (1909-1999). Uomo del Nordeste (nato a Fortaleza, nel Ceará), si rende noto nella sua regione natale come militante delle «camicie verdi» dell’Azione Integralista Brasiliana (AIB) di Plínio Salgado (1895-1975), spesso presentata come l’equivalente brasiliano del fascismo. Benché egli abbia in seguito cercato di «minimizzare un collegamento divenuto imbarazzante» (Todaro Williams 1974, 450), Câmara – che amava definirsi negli anni 1930 «un semplice prete del Ceará in camicia verde» (ibid., 444) – non era un semplice militante, ma uno dei principali gerarchi dell’Integralismo. «[…] Dom Hélder è uno dei due leader dell’AIB nel Nordeste dal 1932 al 1934. Nel 1934 su invito di Plínio Salgado si trasferisce a Rio dove diventa l’uomo di fiducia e il segretario personale di Salgado. Come aveva fatto nel Ceará, continua a guidare riunioni integraliste e perfino marce. Sull’organo del partito A Ofensiva e altrove, pubblica vibranti difese della causa integralista. Discorsi, comizi, riunioni di partito sono il suo pane quotidiano, Nonostante le obiezioni del cardinale [arcivescovo di Rio de Janeiro, Sebastião] Leme [da Silveira Cintra, 1882-1942] al suo incessante attivismo integralista nell’arcidiocesi di Rio, Dom Hélder rifiuta di fermarsi. E nonostante due burrascosi incontri personali con il cardinale Leme, diventa segretario generale nazionale dell’AIB» (ibid., 444-445).

Per la verità l’intera questione dei rapporti tra il cardinale Leme, principale artefice del Risveglio Cattolico in Brasile dopo la Prima Guerra Mondiale e leader indiscusso della Chiesa cattolica brasiliana negli anni 1930, e l’Integralismo è controversa. Pur comprendendo gli aspetti di oggettivo contrasto fra la dottrina della Chiesa e l’Integralismo, documenti emersi dagli archivi solo vent’anni dopo i fatti (cfr. Todaro Williams 1974, 448-449) mostrano come il cardinale si sia mosso per evitare una condanna pubblica del movimento di Plínio Salgado che era richiesta da altri presuli, in particolare da Dom Gastão Liberal Pinto (1884-1945), vescovo di São Carlos, nello Stato di San Paolo. Il cardinale era consapevole del fatto che centinaia di migliaia di cattolici militavano o almeno simpatizzavano per l’AIB e che una condanna avrebbe sia rischiato di provocare uno scisma, sia privato la Chiesa dell’alternativa – nel ventaglio delle opzioni politiche su cui poteva contare – rappresentata dalla possibile alleanza con un movimento che aveva posizioni vicine a quelle dell’episcopato su diverse questioni che a quest’ultimo stavano a cuore. In questa chiave – nell’ambito di vicende che non mancano di ricordare i rapporti in Francia fra la Chiesa e l’Action Française – lo stesso Dom Hélder Câmara fu ammonito ma mai sanzionato (Todaro 1971, 395-397). Tutto questo non toglie il carattere unico del suo caso: se in Italia, per esempio, ci furono sicuramente ecclesiastici che simpatizzavano per il fascismo, non ci fu però un sacerdote nominato segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista. Mentre esattamente questa era la posizione di Dom Câmara: segretario nazionale dell’AIB. Si comprende come – mentre di Câmara sono state pubblicate numerose agiografie – il suo amico Otto Engel ricevette nel 1968 dall’arcivescovado di Olinda e Recife (allora retto da Dom Hélder) «ordini sommari» di non pubblicare la sua biografia «frutto di una lunga e faticosa ricerca» a causa dell’«ansia dell’Arcivescovo di mettere tra parentesi certe fasi politiche della sua carriera, in particolare la fase integralista. In realtà il volume di Engel trattava questi argomenti tabù in modo aperto e onesto senza, d’altro lato, esagerare la loro importanza» (così Todaro 1971, 396; la storica americana ha potuto usare le bozze del libro mai pubblicato di Engel per la sua tesi di laurea). Le altre biografie ripetono la tesi ufficiale sempre sostenuta da Dom Hélder: si trattava di un modesto «peccato di gioventù», dovuto solo al fatto che l’AIB era l’unico ambiente dove si potessero portare avanti alcune rivendicazioni sociali per «i poveri»…

La «questione integralista» si risolve da sola con lo scioglimento dell’AIB da parte del regime di Vargas nel 1937 e la fallita insurrezione integralista contro Vargas del 1938, che porta prima all’arresto e poi all’esilio di Plínio Salgado. Dom Hélder Câmara mantiene per qualche anno un profilo basso, ma resta un sacerdote abile e carismatico, capace di reinventarsi una carriera ecclesiastica dopo quella politica che lo aveva portato ai vertici del partito integralista.  Nel 1947 diventa assistente generale dell’Azione Cattolica Brasiliana. Nel 1950 inizia a proporre – presentandola come una semplice struttura amministrativa – una conferenza episcopale. La Confêrencia Nacional de Bispos Brasileiros (CNBB) vede la luce nel 1952 con l’approvazione della Santa Sede e con Dom Hélder, nominato nello stesso anno vescovo ausiliare di Rio de Janeiro, alla testa di un segretariato che diventa una struttura permanente. Benché strutture con nomi simili fossero state fondate in precedenza in altri Paesi, «l’apparente modestia degli scopi della Conferenza Episcopale non deve oscurare il significato, che non trova paralleli altrove, della decisione vaticana. Da nessuna parte nel diritto canonico […] e nella pratica cattolica c’erano precedenti per creare una struttura permanente del tipo della CNBB e del suo segretariato»: «il segretario generale della CNBB, Dom Hélder Câmara, era presentato come il leader di fatto della Chiesa cattolica brasiliana» (Della Cava 1976, 32-33); la CNBB e il suo segretariato acquisivano un «semi-monopolio sulle comunicazioni fra la Chiesa e il potere civile, e fra la Chiesa e l’esterno» (Moreira Alves 1973 [di cui Moreira Alves 1974, che è la base delle successive traduzioni portoghesi, è edizione parziale e con qualche modifica], 85).

Per la verità tutto questo succede effettivamente a partire non dal 1952 ma dal 1954 quando arriva in Brasile come nunzio apostolico  l’arcivescovo italiano (nato a Cercepiccola, in provincia di Campobasso) Armando Lombardi (1905-1964). Figura enigmatica ma decisiva per la storia della Chiesa cattolica in Brasile, monsignor Lombardi secondo il politologo americano Thomas C. Bruneau «considerava come la sua missione il rinnovamento della Chiesa brasiliana. E il suo canale di rinnovamento era la CNBB. Il nunzio incontrava Dom Hélder tutte le settimane ed elaborava con lui strategie di cambiamento; era presente a tutti gli incontri della CNBB dove vennero elaborate dichiarazioni sociali di tipo progressista […] e dove sostenne pubblicamente questo orientamento. Monsignor Lombardi fu coinvolto nella nomina come vescovi di un gran numero di giovani sacerdoti evidentemente progressisti che sarebbero diventati i leader dell’attivismo episcopale dopo il 1964. Il nunzio difese pure gli “eccessi” [filo-socialisti] dell’Azione Cattolica Brasiliana e in numerosi incontri affermò chiaramente il suo sostegno per tale organizzazione» (Bruneau 1974, 117). Se a Roma si comprendesse esattamente che cosa stava succedendo in Brasile è un quesito che per Bruneau è destinato a rimanere aperto. Quello che è certo è che «dalla data dell’arrivo di monsignor Lombardi in Brasile nel 1954 (e non dalla data di fondazione della conferenza nel 1952) la CNN divenne la voce presentata come più autorevole della Chiesa cattolica in Brasile» (Della Cava 1976, 33).

Lo stesso Bruneau, che è un ammiratore sia di Dom Hélder sia di monsignor Lombardi, mostra però come sia fuorviante parlare di «maggioranza» dei vescovi con riferimento alla CNBB e ai suoi documenti, e di «minoranza» con riferimento ai suoi oppositori, se si tratta della «prima» CNBB, la cui storia va dal 1954 al 1964. Quest’ultimo è l’anno in cui monsignor Lombardi muore mentre è ancora nunzio in Brasile e, dopo la sua morte, Papa Paolo VI (1897-1978) convoca a Roma (non in Brasile) una riunione della Conferenza che elegge un nuovo segretario generale, Dom José Gonçalves da Costa (1914-2001), ostile a Dom Hélder Câmara e alla sua linea: un evento che secondo Bruneau equivale addirittura alla «eliminazione» della prima CNBB, che – a prescindere da qualunque dibattito sulla natura delle Conferenze Episcopali – con il suo enorme potere concentrato nel segretariato costituiva «un’anomalia all’interno della Chiesa universale» (Bruneau 1974, 127). Nel periodo 1954-1964 lo stesso autore rileva che le decisioni rilevanti della CNBB erano prese da monsignor Lombardi, Dom Hélder e una decina di vescovi, tutti del Nordeste, un’infima minoranza rispetto agli oltre 250 vescovi brasiliani, la quale riusciva a prevalere grazie «al timore di alcuni vescovi e all’ignoranza del resto» (Bruneau 1974, 114), laddove «ignoranza», nel contesto del lavoro di Bruneau, va interpretato nel senso che nell’immenso Paese la maggioranza dei vescovi si curava degli affari della sua Diocesi e «ignorava» la Conferenza Episcopale. Di fatto, la «prima» CNBB rivela un triplice distacco. Dalla maggioranza dei cattolici brasiliani, dove il numero dei praticanti nel «decennio Lombardi» continua a calare (e quello dei protestanti pentecostali a salire). Dalla maggioranza dei vescovi, che peraltro non reagiscono se non verso la fine degli anni 1950, con l’inizio delle attività in Brasile del teologo della liberazione belga, poi naturalizzato brasiliano, don José Comblin (nato nel 1923 e tuttora vivente), sostenuto da Dom Hélder e teorico della svolta radicale dell’Azione Cattolica, e con l’adozione da parte della CNBB del mito della riforma agraria il che determina «il deteriorarsi delle relazioni di Dom Hélder con diversi membri della gerarchia, compreso il cardinale arcivescovo di Rio [Dom Jaime de Barros Câmara, 1894-1971, omonimo ma non parente dello stesso Dom Hélder]” (Bruneau 1974, 114). Comblin, tra l’altro, veniva dall’Università Cattolica di Lovanio: e secondo Della Cava una delle strategie della CNBB consisteva nel privilegiare per i ruoli dirigenti nella Chiesa, fino all’episcopato, chi aveva studiato una sociologia fortemente influenzata dall’ideologia dello «sviluppo» a Lovanio rispetto a chi si era specializzato in teologia a Roma vivendo al Pio Collegio Latino Americano, come era invece avvenuto in passato in Brasile (Della Cava 1976, 22).

In terzo luogo, infine, la CNBB degli anni 1950 era di fatto distante dal magistero di Papa Pio XII (1876-1958). Per quanto sia sempre difficile fare emergere gli aspetti «essenziali» del magistero di un Pontefice, su quali fossero le priorità di Pio XII passata la tempesta della Seconda Guerra Mondiale vi è sostanziale consenso fra gli storici. Si tratta, sostanzialmente, di tre punti: la difesa dell’integrità della fede cattolica – in particolare su temi quali il peccato originale e la natura della grazia – di fronte alle diverse «nuove teologie» che andavano emergendo (gli anni 1950 non a caso s’inaugurano con la densa enciclica dottrinale Humani Generis); la condanna – ferma fino alla scomunica – del comunismo nel contesto internazionale della Guerra Fredda e della persecuzione della «Chiesa del silenzio» nell’Europa dell’Est e in Cina; l’antidoto ai mali del tempo attraverso la devozione al Sacro Cuore di Gesù (cui è consacrata l’enciclica Haurietis Aquas del 1956) e al Cuore Immacolato di Maria nella prospettiva del messaggio delle apparizioni mariane di Fatima del 1917. Tra l’altro, come è confermato e descritto nei dettagli in un appunto manoscritto di Pio XII reso pubblico solo nel 2008, il Pontefice riteneva che la Madonna di Fatima lo avesse fatto beneficiare dello stesso «miracolo del sole» che si era verificato al termine delle apparizioni del 1917 in Portogallo proprio alla vigilia della proclamazione, da parte sua, del dogma dell’Assunzione in Cielo della Vergine Maria, avvenuta il 1° novembre 1950 (Tornielli 2008).

Sullo sfondo di queste priorità – ma, per così dire, sempre presenti nello stile e nel modo di affrontare i problemi di Pio XII – stanno due meditazioni di fondo. La prima è una critica del populismo (senza usare questo termine, che, va sempre ricordato, è una costruzione ex post degli storici) fondata sulla distinzione, enunciata nel celebre Radiomessaggio natalizio ai popoli del mondo intero del 24 dicembre 1944, fra il «popolo», realtà positiva ma diversa e armonica, e la «massa» dove scompaiono le differenze in una falsa unità amorfa e plasmabile dalla politica totalitaria. L’atteggiamento anti-populista di Pio XII emerge anche nelle ripetute allocuzioni al patriziato e alla nobiltà romana, dove difende il ruolo sia storico sia attuale delle élite – non, evidentemente, l’eventuale manipolazione e cattivo uso di questo ruolo da parte di élite immorali e prevaricatrici – a fronte di ogni critica preconcetta di tipo populista. La seconda è una meditazione teologica sulla storia occidentale, riassunta nel celebre discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12 ottobre 1952, in una formula che descrive la sequenza dell’allontanamento dell’Occidente dalla verità cattolica attraverso tre tappe che corrispondono al protestantesimo che nega la Chiesa, al deismo illuminista e all’ateismo marxista: «[…] Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato».

Se si esaminano le grandi dichiarazioni pubbliche della CNBB – o delle sue articolazioni regionali, sempre strettamente controllate dal segretariato – negli anni 1950 (a partire da quella famosa di Campina Grande, del 1956) si ha la netta impressione che, al di là dell’omaggio di rito al Pontefice, il suo magistero fosse completamente ignorato nei suoi aspetti essenziali. Invano si cercherebbero riferimenti alla teologia della storia, alla salvaguardia della dottrina del peccato originale, al Sacro Cuore o alla Madonna di Fatima, e quanto al comunismo – che era stato ancora duramente condannato nei documenti collettivi dei vescovi precedenti alla fondazione della CNBB (Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981) – predomina un atteggiamento ambiguo, che culmina nel 1957 nella dichiarazione dei vescovi e arcivescovi brasiliani che partecipano alla Settimana Nazionale dell’Azione Cattolica, preparata nella solita «officina» del segretariato della CNBB e passata alla storia come la condanna dell’anticomunismo. La dichiarazione chiede ai cattolici di «evitare e fare evitare ogni apparenza di compromesso della Chiesa con le strutture capitaliste; evitare, di fronte al comunismo, un atteggiamento negativo di semplice anticomunismo, senza combattere anche il materialismo capitalista che genera la rivolta e quindi il comunismo» (cit. in Coppe Caldera 2005, 78).

Perché la CNBB – che, come si è accennato, non era la Chiesa brasiliana ma faceva il possibile per farsi percepire come tale – si comportava in questo modo? La risposta emerge dalla stessa dichiarazione sull’anticomunismo del 1957. I vertici della CNBB degli anni 1950 non erano comunisti, anche se alcuni loro esperti e consulenti avevano sul punto un atteggiamento per dire il meno ambiguo. La loro analisi del comunismo sarebbe però stata già vecchia nei primi decenni del secolo XX, e negli anni 1950 si avvicinava più a prese di posizione militanti che allo stato della ricerca accademica. Per quest’ultima era più o meno noto allora (ed è scontato oggi per la maggioranza degli specialisti: cfr. Service 2007) che il marxismo non parte dai bisogni degli oppressi per elaborare la sua ideologia ma, cercando militanti per realizzare il suo progetto ideologico, incontra la miseria (reale) degli oppressi e la utilizza per i suoi fini. Sul punto si era già espresso correttamente lo storico comunista, poi ex-comunista, Arthur Rosenberg (1889-1943): «Marx non si rifece […] dal proletariato, dai suoi bisogni e dalle sue sofferenze, dalla necessità di liberarnelo, per trovare poi, come unica via della salvezza del proletariato, la Rivoluzione. Al contrario, egli camminò proprio all'inverso […]. Nel cercare la possibilità della Rivoluzione, Marx trova il proletariato» (Rosenberg 1969, 3). E aveva ragione anche il cardinale di Rio de Janeiro Dom Jaime de Barros Câmara il quale, nella lettera pastorale Não transigir del 1949, pubblicata tre anni prima della fondazione della CNBB e il cui titolo invitava a «non transigere» in materia di comunismo, affermava che proprio dei comunisti è «sfruttare la miseria materiale e morale» e che lo stesso comunismo, proprio in quanto intende servirsi della miseria per i suoi fini, «non muove un dito per migliorare la situazione del popolo ma solo cerca di fomentare il malcontento e l’odio» (cit. in Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2007). Alcuni fra coloro che elaboravano le dichiarazioni della CNBB negli anni 1950 pensavano davvero che nella popolazione brasiliana ci fosse una domanda di comunismo, e che potesse venire contrastata solo con un’offerta della Chiesa che si ponesse sullo stesso terreno. Probabilmente era questa anche la convinzione del nunzio Lombardi.

Al di là della questione comunista, la CNBB degli anni 1950 era meno «rivoluzionaria» di quanto possa sembrare leggendo oggi i suoi documenti. Il segretariato generale della CNBB era convinto che il populismo fosse l’ideologia della maggioranza dei brasiliani – non lo testimoniavano forse i suoi successi elettorali? – e non dettava tanto la linea ai governi populisti quanto seguiva e approvava le loro politiche. Con poche eccezioni, «le dichiarazioni della CNBB sui problemi sociali o coincidono cronologicamente o vengono subito dopo i progetti e le dichiarazioni programmatiche dei governi» (Moreira Alves 1973, 47). In realtà le idee «innovative» della CNBB di regola seguivano di qualche giorno o qualche settimana i proclami dell’onnipresente Goulart (sempre al governo come ministro, vice-presidente o presidente, con rari e relativamente brevi intervalli, dalla Seconda Guerra Mondiale al 1964). Così facendo, la CNBB non si comportava diversamente rispetto a come aveva agito la gerarchia cattolica degli anni 1940 – con cui pure Dom Hélder voleva segnare una discontinuità – nei confronti dell’Estado Novo di Vargas. Ma andava oltre: agli incontri regionali dei vescovi del Nordeste della CNBB (cioè del nucleo che con Dom Hélder di fatto controllava la CNBB) che elaborarono i documenti di Campina Grande del 1956 e di Natal del 1959 partecipò personalmente il presidente della Repubblica Kubitschek (Ferreiras de Camargo, Muñiz de Sousa, Pierucci e Jasís 1981, 2016). Anche questa era «un’anomalia all’interno della Chiesa universale» (Bruneau 1974, 127): difficilmente altrove si sarebbe visto il capo del governo – e di un governo la cui dottrina, per usare un eufemismo, non coincideva con quella della Chiesa –  partecipare a riunioni dove si elaboravano documenti episcopali.

Come sul comunismo, il vertice della CNBB si sbagliava anche sul populismo. La capacità di vincere elezioni non equivaleva a un consenso popolare profondo sui valori e sulle idee. Di fatto, un buon numero di vescovi degli anni 1950  non solo, come si è visto, ignorava la CNBB – che peraltro la stampa non solo brasiliana prendeva in considerazione come se fosse l’unica voce ufficiale della Chiesa cattolica in Brasile – e amministrava le diocesi in sintonia con il magistero di Pio XII. Basterebbe citare lo straordinario successo nel Brasile degli anni 1950 della Crociata per il Rosario in Famiglia del sacerdote statunitense di origine irlandese padre Patrick Peyton, CSC (1909-1992), ignorata o avversata dalla CNBB ma appoggiata da molti vescovi, a torto ma a lungo considerata dalla classe politica brasiliana un’organizzazione meramente devozionale prima del contributo decisivo alla «Marcia della famiglia con Dio per la libertà» del 1964, che segna o almeno prepara la fine della «Repubblica populista».

 

Catolicismo e l’opposizione al populismo secondo il magistero di Pio XII

Come abbiamo illustrato altrove, a San Paolo un gruppo collegato alla rivista O Legionário aveva contrastato negli anni 1940 la crisi dell’Azione Cattolica brasiliana, che precede e prepara la successiva crisi degli anni 1950. «Epurati» dai loro incarichi arcidiocesani a San Paolo a causa delle critiche all’Azione Cattolica, non gradite all’entourage del cardinale Carlos Carmelo de Vasconcelos Motta (1890-1982), due dei tre principali membri del «gruppo di O Legionário», erano in seguito stati nominati vescovi da Pio XII: monsignor Antonio de Castro Mayer (1904-1991) vescovo di Campos, nello Stato di Rio de Janeiro, e padre Geraldo de Proença Sigaud, SVD (1909-1999) vescovo di Jacarezinho, nello Stato di Paranà. Nel 1951 monsignor de Castro Mayer fonda a Campos il mensile di cultura cattolica Catolicismo, che sarà di fatto diretto dal principale membro laico del «gruppo di O Legionário», il professore universitario (nonché ex-deputato all’Assemblea Costituente del 1933-1934 ed ex-presidente della Giunta Arcidiocesana di Azione Cattolica di San Paolo) Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995).

Senza mandati ufficiali che vadano al di là della diocesi di Campos – ed evitando qualunque critica esplicita a vescovi brasiliani – Catolicismo costituisce di fatto negli anni 1950 il principale veicolo in Brasile della presentazione articolata e apologetica del magistero di Pio XII, e di una critica cattolica sistematica (anche qui, senza che siano attaccati in esplicito singoli uomini politici né che si usi l’espressione «populismo») alle idee populiste sul piano sia culturale sia politico. Catolicismo valorizza anche le posizioni di quella minoranza di vescovi che si oppone esplicitamente al populismo e implicitamente alle posizioni della CNBB. In questo caso è corretto parlare di «minoranza», dal momento che la maggioranza dei vescovi su questi punti rimane silenziosa. Plinio Corrêa de Oliveira è così considerato da qualche studioso come il principale esponente di un «ultramontanismo» brasiliano (Coppe Caldeira 2005). L’«ultramontanismo», il guardare ultra montes, «al di là delle montagne» (verso l’Italia e verso Roma), era la posizione attribuita in Francia nel Settecento e nell’Ottocento (con un’applicazione retrospettiva al Seicento) a quella parte del mondo cattolico che rivendicava con vigore il primato del Papa contro le correnti gallicane e gianseniste che insistevano sull’autonomia della Chiesa di Francia. Il fatto che in Brasile negli anni 1950 ci fosse bisogno di un «ultramontanismo» (che per guardare a Roma avrebbe dovuto peraltro superare, più che montagne, una buona quantità di mare) è la conferma che altri segmenti della Chiesa brasiliana in effetti ignoravano il magistero di Pio XII.

Catolicismo pubblica sistematicamente brani scelti del magistero del Pontefice, e Plinio Corrêa de Oliveira li spiega e li commenta. Già nel primo anno di vita, 1951, è così offerto ai lettori, per esempio, un articolato commento in quattro articoli del discorso Très sensible,rivolto da Pio XII il 6 aprile di quell’anno ai congressisti del Movimento universale per una confederazione mondiale fondato nel 1947 dall’abbé Pierre (Henri Grouès, O.F.M. Cap., 1912-2007). La scelta non è casuale, dal momento che offre a Corrêa de Oliveira l’occasione di fare rilevare come il Papa condanni «il culto cieco del numero» e il «trionfo della quantità sulla qualità», aspetti tipici del populismo (tutti gli articoli di Corrêa de Oliveira su Catolicismo sono disponibili, con indicazione del numero, mese e anno di pubblicazione ma non delle pagine sul sito www.pliniocorreadeoliveira.info). Questi commenti continuano a essere pubblicati con regolarità, insieme ad articoli su altri aspetti dell’attività del Papa, dalla canonizzazione il 29 maggio del 1954 del Papa San Pio X (1835-1914) all’ottantesimo compleanno del Pontefice. Insieme, Catolicismo pubblica articoli di carattere anticomunista e sulla devozione mariana, commentando le apparizioni di Fatima e gli insegnamenti di san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716), il grande apostolo della devozione mariana canonizzato dallo stesso Pio XII nel 1947 (e da cui Giovanni Paolo II, 1920-2005, trarrà poi il suo motto ufficiale Totus tuus, «Tutto tuo», riferito alla Madonna). I laici del «gruppo di O Legionário» avevano cominciato a studiare sistematicamente Fatima e san Luigi Maria già negli anni 1940, negli incontri che tenevano con frequenza (quasi sempre) quotidiana a San Paolo dopo la fine della loro esperienza nell’Azione Cattolica paulista.

Alla linea rigorosamente anticomunista corrisponde anche un atteggiamento sui temi economici che, studiato con attenzione, smentisce qualche stereotipo che nascerà successivamente sulle posizioni di Plinio Corrêa de Oliveira, presentato come difensore incondizionato dello status quo socio-economico brasiliano, particolarmente in tema agrario. Certamente verso la fine del decennio 1950 Catolicismo si oppone al mito populista della riforma agraria, e questa diventerà una sua battaglia centrale nel decennio successivo. Ma nel febbraio 1952, recensendo in un articolo sul numero 14 di Catolicismo – «Reflexões à margem da Pastoral Coletiva» – l’ultima lettera pastorale collettiva dei vescovi brasiliani prima della fondazione della CNBB, Plinio Corrêa de Oliveira la qualifica come documento che «sarà registrato nei fasti della storia nazionale» e definisce in particolare «giudiziosi» i nove principi per una riforma agraria proposti nel documento, che distinguono fra una riforma agraria confiscatoria e socialista e una in armonia con la dottrina sociale della Chiesa. Progredendo il decennio, però, dei «nove principi» enunciati dai vescovi fuori delle colonne di Catolicismo non si sarebbe sentito più parlare

Nel clima del populismo, Catolicismo svolge pure un’opera sistematica di difesa del ruolo delle élite e di lotta contro l’involgarimento della cultura. Vanno in questa direzione anzitutto i commenti sistematici di Plinio Corrêa de Oliveira alle allocuzioni alla nobiltà e al patriziato romano di Pio XII, i quali suscitano fra l’altro l’interesse di Dom Pedro Henrique de Orléans e Bragança (1908-1981), capo della Casa Imperiale del Brasile due dei cui figli diventeranno poi stretti collaboratori dell’autore. Dom Pedro Henrique e i suoi successori rappresentano i pretendenti legittimi al trono del Brasile secondo la grande maggioranza dei monarchici brasiliani , i quali considerano valida la rinuncia ai diritti di successione firmata il 30 ottobre 1908 da Dom Pedro de Alcântara de Orléans e Bragança (1875-1940) per potere sposare senza il permesso della madre Isabel de Bragança e Borbone (1846-1921), figlia dell’ultimo imperatore del Brasile Pedro II (1825-1891), la contessa Elisabeth Dobrzensky de Dobrzenicz (1875-1951), rinuncia in seguito alla quale il titolo passa dal ramo di Petrópolis della famiglia de Orléans e Bragança, di cui era esponente Dom Pedro de Alcântara, al cosiddetto ramo di Vassouras (un’altra città, come Petrópolis, sita nello Stato di Rio de Janeiro), nella persona del fratello dello stesso Dom Pedro, Dom Luís Maria Filipe de Orléans e Bragança (1878-1920) cui succede appunto il figlio Dom Pedro Henrique. Tuttavia, dalla rinuncia del 1908 nasce una «questione dinastica brasiliana» perché alcuni discendenti di  Dom Pedro de Alcântara considerano tale rinuncia estorta e invalida, così che una minoranza del movimento monarchico brasiliano sostiene tuttora il ramo di Petropolis (e una parte lo fa per ragioni ideologiche, all’insegna di un ideale monarchico illuminista e laico che non accetta, precisamente, la scelta cattolica e legata al pensiero di  Plinio Corrêa de Oliveira dell’attuale capo della Casa Imperiale del Brasile, Dom Luiz de Orléans e Bragança, figlio di Dom Pedro Henrique).

Lontano da qualunque progetto velleitario di restaurazione immediata della monarchia brasiliana – anche se, nel 1993, in Brasile la raccolta di oltre un milione di firme portò alla celebrazione di un referendum popolare sulla questione istituzionale, dove i monarchici raccolsero il 7,5% dei voti e i repubblicani il 49,2% (nei referendum brasiliani si conteggiano anche gli astenuti) – Corrêa de Oliveira si era interessato al legittimismo fin dagli anni del liceo, e considerava l’avversione di principio per la monarchia come un aspetto fra i più deteriori dell’odio per le élite. Prima dell’esperienza della Lega Elettorale Cattolica aveva aderito alla SEP (Sociedade de Estudios Politicos), da molti considerata come l’antenata dell’Integralismo di Plínio Salgado ma che in realtà constava di due componenti distinte: una raccolta intorno a Salgado, da cui origina il partito integralista, e una cattolica e monarchica, collegata al «patrianovismo» (Zanotto 2003, 30), cioè al maggiore movimento monarchico brasiliano del secolo XX, fondato da Arlindo Veiga dos Santos (1902-78). A smentita di certi stereotipi, Arlindo Veiga dos Santos – poeta di valore, che terminerà una complessa carriera culturale e politica come professore presso la Pontificia Università Cattolica di San Paolo – era un afro-brasiliano, un attivista per i diritti della popolazione di colore e il fondatore nel 1931 di un’organizzazione chiamata Frente Negra Brasileira (non esente, come consimili organizzazioni statunitensi della stessa epoca, da un certo antisemitismo). Del resto, era stata la principessa Isabel de Bragança e Borbone, in qualità di reggente del Brasile, ad abolire la schiavitù con la Lei Áurea del 13 maggio 1888: un gesto suggerito e altamente elogiato da Papa Leone XIII (1810-1903) e ancor oggi rivendicato con orgoglio dai suoi discendenti (Dom Luiz de Orléans e Bragança 2006), ma che probabilmente contribuì a farle perdere il trono. Arlindo conosce il giovane Plinio Corrêa de Oliveira perché entrambi fanno parte delle Congregazioni Mariane di San Paolo, organismo di cui l’intellettuale afro-brasiliano diventerà presidente nel 1940 (Domingues 2006, 521), ed entrambi simpatizzano per la causa monarchica, il che porta il poeta a fondare nel 1928 il Centro Monarquista de Cultura Social e Política Pátria-Nova, che diventa nel 1932 la Ação Imperial Patrianovista Brasileira, con l’appoggio del pretendente Dom Pedro Henrique (Malatian 1978; Malatian 1988; Malatian 2001). La componente monarchica e cattolica della SEP non solo non aderisce all’Azione Integralista di Plínio Salgado ma si rifiuta di appoggiarla in qualsiasi modo (Domingues 2006, 526). Con una significativa eccezione: un sacerdote, che aveva aderito al patrianovismo delle origini, all’inizio degli anni 1930 rinnega la causa monarchica e passa al movimento di Plínio Salgado. Si tratta di Dom Hélder Câmara (Domingues 2006, 526).

Sempre nel filone anti-populista di Catolicismo si situa la serie Ambientes, costumes, civilizaçoes in cui partendo da immagini, fotografie, opere d’arte, episodi storici e film il pensatore brasiliano mostra l’influsso delle tendenze, dell’ambiente, dei colori e del gusto nella formazione della mentalità e della cultura. In un Auto-retrato filosófico scritto nel 1976  e rivisto nel 1994, Corrêa de Oliveira descrive i testi di questa serie come una «analisi comparativa di aspetti del presente e del passato, avendo come oggetto monumenti storici, fisionomie caratteristiche, opere d’arte o di artigianato, presentati al lettore attraverso fotografie» e analizzati alla luce della dottrina cattolica allo scopo di «mostrare che la vita di tutti i giorni, nei suoi momenti straordinari o correnti, è suscettibile di essere penetrata dai più elevati principi della filosofia e della religione» (Corrêa de Oliveira 1996, 29-30) – oppure, evidentemente, dai principi contrari. Le serie consacrate ai discorsi al patriziato di Pio XII e agli ambienti – che non sono dunque accessorie, ma essenziali per l’azione di contrasto al populismo svolta dalla rivista – saranno poi all’origine di volumi: uno che riproduce in anastatica i testi di Ambientes, costumes, civilizaçoes (Corrêa de Oliveira 1987) e l’altro dove l’autore, nell’ultima opera pubblicata prima di morire, nel 1993, tornerà in modo molto articolato – ma partendo appunto dalle riflessioni sviluppate su Catolicismo negli anni 1950 – sul tema delle élite (Corrêa de Oliveira 1993).

 

Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (1959)

Nel 1959 Catolicismo arriva al numero 100, che è un numero speciale dove è pubblicata la prima edizione dell’opera di Plinio Corrêa de Oliveira Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cui è indissolubilmente legata la fama del pensatore brasiliano nella storia sia del pensiero cattolico sia del pensiero politico latino-americano. Esaminare quest’opera nel contesto della riflessione storico-sociologica esposta nei paragrafi precedenti espone a un rischio. Come nota Giovanni Cantoni (2005, 41) – e come ho fatto notare in un testo che precede logicamente il presente articolo – la «formazione remota» di Corrêa de Oliveira, quando si legge Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, emerge come più importante della sua «formazione e […] informazione prossime». In altre parole, l’opera non può essere compresa se non come frutto di quasi due secoli di riflessione, a partire almeno dalla Rivoluzione francese, della scuola cattolica contro-rivoluzionaria sulla storia dell’Occidente sulla base di una visione drammatica delle vicende storiche che ha le sue radici nella teologia delle due città di sant’Agostino ((354-430) e ultimamente nel riferimento a «due vie» e «due porte» nella stessa Sacra Scrittura (Mt 7, 13-14; Lc 13, 24). Nello stesso tempo, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione può essere compresa anche come un’eco particolarmente fedele, e in questo caso sistematica, del pensiero di Pio XII in un contesto brasiliano dove, come si è visto, la trasmissione di quel magistero era – per dire il meno – insufficiente, così inserendosi nella missione che negli anni 1950 si era data Catolicismo. Infine – sotto un profilo che in ordine d’importanza viene dopo gli altri due, ma che nella letteratura consacrata al pensatore brasiliano è meno frequentemente presentato, mentre è al centro di queste riflessioni – il testo del 1959 può essere letto nel contesto del Brasile della «Repubblica populista».

Anzitutto, dunque, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione può essere considerata una sintesi particolarmente fedele allo spirito del Pontefice appena scomparso (nel 1958) certo non di tutto il magistero di Pio XII, ma degli aspetti che Papa Pacelli stesso considerava prioritari. Nella prima parte del testo, Plinio Corrêa de Oliveira presenta l’assalto delle forze anti-cattoliche alla Cristianità occidentale, cioè la Rivoluzione, come un processo dove si distinguono una I Rivoluzione (protestante), una II (illuminista) e una III (comunista): uno schema dove non è difficile ritrovare l’attenzione di Pio XII alla teologia della storia e l’articolazione delle tre tappe dell’allontanamento dell’Occidente dalla verità cattolica nel discorso pontifico – esplicitamente richiamato (Corrêa de Oliveira 1972, 65) – Nel contemplare del 1952 («Cristo sì, Chiesa no»; «Dio sì, Cristo no»; «Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato»; di una ulteriore IV Rivoluzione Corrêa de Oliveira parlerà solo negli anni 1970). Afferma quindi che la Rivoluzione non si riduce alla sua parte più visibile, i fatti: contrariamente a quanto afferma la teoria marxista del primato della prassi, dietro i fatti ci sono le idee. Non è la prassi a produrre le dottrine, ma sono le dottrine a produrre la prassi. Me neppure le dottrine costituiscono la radice ultima del processo rivoluzionario. Dietro le idee ci sono quelle che il pensatore brasiliano chiama «tendenze», rappresentate principalmente dall’orgoglio e dalla sensualità. Secondo una citazione prediletta da Corrêa de Oliveira, tratta dal romanzo del 1914 Le Démon de midi di Paul Bourget (1852-1935), «bisogna vivere come si pensa se no, prima o poi, si finisce per pensare come si è vissuto» (Bourget 1956, 395). La stessa fase dominante (all’epoca) del processo rivoluzionario – la III Rivoluzione comunista – è ricondotta non soltanto (come in certi documenti della CNBB) a una problematica socio-economica ma ai frutti malsani dell’orgoglio e dell’invidia. Il comunismo – come aveva ripetuto Pio XII – è un vizio e un peccato prima di essere una dottrina politica. Questo non significava in nessun modo trascurare «i bisogni materiali, generatori di tanta rivolta nelle masse. Ma lo spirito della Rivoluzione non nasce soprattutto dalla miseria. La sua radice è morale e quindi religiosa» (Corrêa de Oliveira 1972, 146).

Il ruolo fondamentale delle tendenze permette a Corrêa de Oliveira di riprendere tutta la tematica di Ambientes, costumes, civilizaçoes – il ruolo della cultura, dell’arte, degli ambienti, dell’educazione, del gusto e dell’amore per le cose belle, e i danni arrecati dalla volgarità rivoluzionaria – insieme alle riflessioni sul carattere malsano dell’avversione di principio per le élite, e insieme di ricondurle al fondamentale insegnamento di Pio XII sulla distinzione fra «popolo» e «massa», illustrata dal Pontefice nel suo radiomessaggio del 1944. Per diametrum la seconda parte del volume, dedicata alla Contro-Rivoluzione, mette in luce come un processo di riconquista della verità cattolica non possa partire semplicemente dalla politica, ma debba rifare tutto il cammino all’inverso: restaurare buone tendenze, perché ne nascano buone idee e quindi buone pratiche tanto nella vita personale come in quella culturale, sociale e politica. La questione fondamentale non è – come pensavano i populisti – quella delle strutture sociali, ma quella del peccato, della conversione e della grazia, come insegnava Pio XII. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione invita a «insistere sugli effetti del peccato originale nell’uomo e sulla sua fragilità […] come pure sulla necessità della grazia» (Corrêa de Oliveira 1972, 144) – come si è visto, un aspetto essenziale dell’enciclica Humani generis di Pio XII – nella prospettiva della restaurazione di una chiara distinzione fra bene e male. E – se la Chiesa è presentata come l’anima della Contro-Rivoluzione – perché il processo contro-rivoluzionario possa davvero maturare, anzitutto nei singoli e quindi nella società, è dichiarata indispensabile la conversione personale alimentata dalla pietà e dalla devozione, in particolare da quella mariana alla luce del messaggio di Fatima, che aveva – come si è visto – per così dire personalmente coinvolto Papa Pio XII.

Un’altra delle possibili chiavi di lettura – non principale e certamente non unica, ma non irrilevante – di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione potrebbe fare riferimento al contesto del Brasile degli anni 1950, segnato dai due elementi principali del dominio del populismo e dell’ascesa del comunismo (il 1959, in cui è pubblicato il testo, è anche l’anno della rivoluzione di Fidel Castro a Cuba), nonché all’interazione di Plinio Corrêa de Oliveira con il mondo cattolico brasiliano. Lo spirito dell’opera è nettamente anti-populista. L’appello al «popolo» dei populisti (sempre senza usare questa espressione) è implicitamente smascherato, secondo la distinzione di Pio XII, come mera manipolazione della «massa». L’avversione alle radici storiche – cristiane – della nazione, alle élite e allo stesso mondo militare in quanto tali (ancora una volta, non ai loro eventuali abusi) è denunciata come frutto non dello «sviluppo» o del progresso ma del disordine morale e dell’invidia, che – continuando ad alimentarli anziché frenarli – non potranno che condurre dal populismo al socialismo e al comunismo.

Insieme, se – al di là dei programmi politici – un aspetto essenziale del populismo è l’involgarimento degli ambienti e dei costumi, al cuore di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione si situa l’idea che, nella logica del partire dalle tendenze per arrivare alle idee e ai fatti, un processo contro-rivoluzionario non potrà che muovere da una riforma dei gusti, dell’educazione, dell’arte, degli ambienti e della cultura. Mentre il populismo – attaccando e deridendo le élite – proclamava di volere abbassare la cultura di élite al livello della cultura di massa, la Contro-Rivoluzione secondo Corrêa de Oliveira doveva piuttosto mirare ad elevare la moderna cultura di massa, per quanto possibile, al livello della cultura delle élite. Non si trattava di riflessioni nostalgiche o di retroguardia. Al contrario, il dibattito sul ruolo negativo o positivo della popular culture era in quegli anni al centro della riflessione della Scuola di Francoforte con Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) e Max Horkheimer (1895-1973), mentre la sociologia lentamente – ma riprendendo intuizioni di uno dei suoi padri, Émile Durkheim (1858-1917) – andava riscoprendo la nozione di «rituali della vita quotidiana» funzionali alla quotidiana riaffermazione implicita di quelle gerarchie strutturali che, piaccia o no, sono presenti in ogni società umana (Collins 2004), così integrando nella macro-sociologia una indispensabile micro-sociologia dei gesti e degli ambienti.

Come ho illustrato in un precedente articolo, nella tradizione del Risveglio Cattolico brasiliano queste tematiche avevano cominciato a emergere nell’opera del letterato decadentista Jackson de Figueiredo (1891-1928), la cui conversione al cattolicesimo aveva entusiasmato la generazione di giovani di cui faceva parte Plinio Corrêa de Oliveira. In Jackson, tuttavia, la difesa del buon gusto del «vecchio Brasile» si esprimeva – non senza reminiscenze del decadentismo abbracciato dallo scrittore prima della conversione – con un tono estetizzante, e la sua trascrizione politica era un’avversione al «meticciato» che, seguendo alcuni spunti di Charles Maurras ((1868-1952,) attribuiva gran parte della responsabilità per il prevalere del cattivo gusto agli «stranieri», in particolare statunitensi, e agli immigrati, in particolare ebrei e italiani (Todaro 1971, 80). Corrêa de Oliveira, pure appassionato lettore di Jackson, lo legge alla luce di Pio XII (e della tragedia della Seconda Guerra Mondiale), evitando accuratamente di attribuire il cattivo gusto a uno o più singoli gruppi etnici. Qualunque popolo, manipolato dalla Rivoluzione, può diventare massa e il problema non è etnico, ma spirituale (nonché, se si vuole, micro-sociologico).

Nell’opera postuma, pubblicata per la prima volta nel 1998, in italiano, Note sul concetto di Cristianità, Corrêa de Oliveira ritorna su questo aspetto essenziale di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione: «le forme, i colori, i suoni, gli odori e i sapori» e «gli oggetti di cui [l’uomo] si circonda» sono elementi essenziali nella formazione delle tendenze: «Un mobile comodo è quello che serve solo al corpo: un mobile elegante è quello che serve anche all’anima. Un tessuto resistente, gradevole al tatto, adatto al clima, soddisfa il corpo. Ma l’anima ha esigenze proprie e chiede che sia bello». La Chiesa, arricchendo i luoghi di culto di opere d’arte e di arredi anche esteticamente apprezzabili, servendosi «della musica per educare la nostra pietà» e accompagnando la preghiera solenne con «l’aroma austero dell’incenso» mostra, nella sua secolare sapienza, di sapere bene come la forma, il colore, il suono e perfino l’odore siano modi di comunicare talora non meno efficaci delle parole (Corrêa de Oliveira 1998, 28-29).

Secondo Giovanni Cantoni, è questo «forse il principale aspetto di novità» di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (Cantoni 2005, 40). Se la tematica delle tendenze e della loro formazione trova antecedenti remoti nel dibattito antico e medioevale sulle inclinationes e in quello sociologico sulla ritualità della vita quotidiana a partire da Durkheim, precedenti e contesti più prossimi potrebbero fare riferimento alla polemica di Jackson de Figueiredo contro l’imbarbarimento della cultura in Brasile, al populismo degli anni 1950 e alle controversie suscitate da scelte di organismi e dirigenze ecclesiastiche che avevano aderito toto corde al populismo. Le conseguenze di queste scelte diventeranno ancora più evidenti negli anni 1960.

 

Riferimenti bibliografici

Bourget, Paul. 1956. Il demone meridiano. Trad. it. Salani, Firenze.

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