Si sentono molto più vicini alla Cina che all’Italia. Leggono prevalentemente giornali cinesi e frequentano poco gli italiani. Sono grandi lavoratori e per quanto possano apparire una comunità particolarmente coesa non hanno dato vita a una Chinatown: questa la fotografia che emerge da un’ampia ricerca sulla comunità d’immigrati cinesi presente nel capoluogo piemontese, promossa dal Centro Studi sulle Nuove Religioni (Cesnur) e dall’Università di Torino, con il titolo “Cinesi a Torino. Storia/storie e identità. Attività economiche. Vita culturale, strutture religiose”. La ricerca, una delle più ampie in Europa e di prossima pubblicazione presso il Mulino, ha visto impegnati per un anno sei ricercatori che hanno interpellato attraverso dei questionari e la collaborazione di mediatori culturali circa 300 cinesi. L’obiettivo è quello di ricostruire le modalità di integrazione, i comportamenti della vita quotidiana, le dinamiche interne e le prospettive per il futuro di una comunità formata da poco più di 4 mila persone (su una popolazione straniera complessiva di 90 mila unità), al quinto posto nella graduatoria delle nazionalità dopo Romania, Perù, Albania e Marocco.
Una presenza, quella dei cinesi in Piemonte, che risale al 1917, quando a migliaia vennero reclutati dai francesi per la costruzione delle trincee e per le esigenze dell’industria bellica, ma divenuta particolarmente significativa nell’ultimo decennio. “Nel 1990 sotto la Mole”, spiega Luigi Berzano, ordinario di Sociologia generale all’Università di Torino, “c’erano 828 cinesi, oggi sono oltre 4.081, ovvero il 57% dei cinesi presenti in Piemonte (anche in Provincia di Cuneo c’è una presenza significativa, in particolare a Barge e Bagnolo intorno alla lavorazione della pietra di Luserna). Il 90% dei cinesi di Torino viene dalla stessa regione, lo Zhejiang, nel Sud-est della Cina. Il 48% sono donne e il 30% sono minorenni. Si tratta dunque di un’immigrazione di famiglie, non di singoli uomini che lavorano come nel caso dei marocchini o degli albanesi”.
La ricerca ha confermato come a Torino non esista una concentrazione abitativa e lavorativa tale da configurare quella che comunemente viene chiamata Chinatown, il ghetto mono-etnico: infatti l’immigrazione cinese si è dispersa territorialmente in più poli, da Borgo Dora (dove vive il 14,1%) a San Salvario, da Borgo San Paolo a Barriera di Milano. Il 37% lavora nel settore della ristorazione, più del 20% nel settore del commercio. Ben 543 cinesi sono titolari di attività commerciali (in cui lavorano molti altri cinesi), il che dimostra un rapporto davvero straordinario fra cinesi e lavoro (in maggioranza lavorano più di 50 ore settimanali). I ristoranti cinesi non paiono conoscere la crisi, le licenze aumentano (oggi sono 411, mentre al 2001 erano 135) e se originariamente si trovavano nel centro cittadino (Mister Hu apre nel 1966 in via dei Mercanti) progressivamente si sono allontanati in direzione delle periferie. Laboriosi, dotati di un eccellente spirito imprenditoriale, relativamente benestanti, mobili dal punto di vista abitativo come da quello lavorativo, poco visibili… ma in quanto a integrazione?
A fronte di una evidente integrazione economica attraverso l’imprenditoria etnica (ristoranti e market), dove prevale il realismo dei cinesi (la stessa estetica della ristorazione sta mutando profondamente, l’arredamento tipico sta cedendo sempre più il passo ad altri stili e così anche le proposte enogastronomiche che sono sempre più varie), quella socio-culturale è assai scarsa. “Il 90% lavora con connazionali”, afferma la ricercatrice Roberta Ricucci, “e quando il lavoro è totalmente all’interno della comunità, questo è già un dato che indica una debole integrazione. Inoltre le catene migratorie dei cinesi sono tipicamente familiari: il network familiare e parentale è la vera ossatura della comunità e il lavoro come il tempo libero e la ritualità sono vissuti tutti all’interno della medesima. Il fattore più evidente di questa scarsa integrazione sociale è la debole competenza linguistica che caratterizza anche quei cinesi che da tanti anni risiedono a Torino”.
Un terzo di loro, in effetti, non parla l’italiano. Tra di loro utilizzano prevalentemente i dialetti locali e solo quando necessario il cinese ufficiale. Inoltre, a differenza di altre realtà migratorie l’associazionismo è assai debole. Però c’è da sottolineare come l’integrazione scolastica sia avanzata. I bambini cinesi sono alunni preparati, studiosi e bene educati. Molti hanno difficoltà linguistiche, è vero. Ma queste sono superate più facilmente dai cinesi di seconda generazione, quelli nati in Italia, che a Torino sono il 30% dell’intera comunità. E se è vero che il 26% dei cinesi a Torino dichiara di voler rientrare in patria (e oltre il 65% invia beni in Cina), la maggior parte pensa di rimanere in Italia in maniera definitiva.
E la religione? Per Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, è difficile rispondere, perché le ricerche condotte in Cina “dimostrano come la religione istituzionale e l’aggregazione in luoghi religiosi riguardano una minoranza della popolazione, ma esiste una maggioranza di cinesi che pratica una serie di comportamenti e credenze che noi definiremmo come tipicamente religiosi. Se si chiede ai cinesi se sono religiosi, solo il 5% risponde di sì, ma il 23% dichiara di essere buddhista. Il 5% dice di credere in Dio, ma il 26% crede in un potere celeste. Il 35% prega e il 38% ricorre a pratiche di divinazione o astrologiche”.
Esiste dunque una “religione cinese” che consiste in un insieme di credenze private vissute in famiglia e non ascrivibili a una religione organizzata e che si manifesta attraverso quattro comportamenti: l’uso degli oroscopi e la pratica della divinazione (come il Feng shui); preghiere e offerte rivolte a statue o dipinti che raffigurano divinità; l’uso di simboli (il dragone, la fenice, il colore rosso, ecc.); le feste (le feste stagionali, quella delle tombe degli antenati, il Capodanno).
Stesso ragionamento si applica ai cinesi di Torino. Massimo Introvigne: “La maggior parte (58%) non si riconosce in nessuna religione organizzata. Il 31% è buddhista e l’8% ha aderito a una religione cristiana (a Torino esistono due chiese pentecostali e una congregazione di testimoni di Geova frequentate da poche decine di persone). Ma attenzione: proprio come in Cina la mancata adesione a una religione organizzata non significa che i cinesi-torinesi siano atei (anche se molti sono arrivati in Italia da adulti e quindi hanno studiato ai tempi della rivoluzione culturale quando la pressione anti-religiosa e l’educazione ateistica era particolarmente forte). Conservano tutta una serie di credenze, di feste, di ritualità tradizionali che da secoli connotano la religiosità cinese al di fuori di ogni affiliazione istituzionale a una religione o chiesa”.