[Nota: Dal momento che Ariel Toaff ha dichiarato di seguire nel suo libro, quanto alla valutazione delle confessioni rese sotto tortura, non il metodo adottato dalla maggioranza degli storici ma quello "alternativo" usato in tema di stregoneria da Carlo Ginzburg, sapere che cosa pensa Ginzburg del libro di Toaff è particolarmente interessante]
Le accese discussioni suscitate dal libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue, continuano, ma concentrate su un unico punto: la decisione dell'autore di ritirare la propria opera dal commercio. Del libro non si parla più. Ma le due questioni vanno tenute distinte. Lo fa anche, nel suo comunicato, l'Associazione Il Mulino, dichiarando che «al di là del giudizio di merito che solo la comunità scientifica ha il compito di formulare... non può esimersi dal manifestare il più netto rifiuto degli appelli alla censura e delle espressioni di linciaggio morale che sono state indirizzate all'autore».
Personalmente ritengo che chi ha condannato il libro di Toaff prima di averlo letto abbia fatto un gesto stupidamente intollerante. Ma il ritiro del libro voluto dall'autore, che si è ritenuto travisato dai recensori, non può certo essere paragonato ai roghi di libri degli inquisitori e dei nazisti evocati da Franco Cardini sull'Avvenire (16 febbraio). «Un libro ritirato dal commercio, a pochi giorni dalla sua uscita, equivale a un libro distrutto. A un libro bruciato», ha scritto Cardini. Non è vero. La prima tiratura (ne ignoro la consistenza) è andata subito esaurita, acquistata da privati e da biblioteche. Un libro pubblicato è di per sé un oggetto pubblico. La sua sconfessione, a quanto pare solo parziale, da parte dell'autore non può impedire agli studiosi di continuare a discuterlo.
Nel 1914 La Civiltà cattolica pubblicò un lungo articolo su un processo che si era svolto l'anno prima nella Russia zarista, a Kiev.
Un bambino di dodici anni era stato torturato e ucciso; un ebreo era stato accusato e portato in tribunale; il processo aveva suscitato una vasta eco in tutto il mondo. Da più parti si era parlato di omicidio rituale: la consuetudine infame, di cui gli ebrei erano stati accusati periodicamente fin dal Medioevo, di impastare il pane azzimo preparato alla vigilia di Pasqua con il sangue di bambini cristiani uccisi. Il processo si era concluso con un'assoluzione. La Civiltà cattolica prendeva atto a malincuore della sentenza, ma ribadiva che essa non scalfiva affatto l'esistenza di omicidi rituali dettati dal «fanatismo religioso» ebraico: «quel fanatismo è la sola spiegazione che si possa dare di un delitto così caratteristico, così esclusivamente loro proprio (degli ebrei) ». Qualche altro ebreo era certamente colpevole, così come lo erano gli ebrei in generale.
Convinzioni incrollabili come quelle esibite dall'articolista della Civiltà cattolica costarono, nel corso dei secoli, la vita a moltissimi innocenti. Ma si trattava poi sempre di innocenti? Nel suo libro Ariel Toaff, professore all'università israeliana di Bar-Ilan, si è posto questa domanda: e ha risposto sostenendo che in qualche caso le accuse di omicidio rituale erano fondate. Questa tesi stupefacente ha suscitato un gran numero di commenti, generalmente assai critici: ricordo in particolare quelli, stringenti, di Adriano Prosperi sulla Repubblica e di Anna Esposito e Diego Quaglioni su queste pagine. A questi interventi aggiungo il mio. Esso è dettato da motivi anche (ma non solo, ovviamente) personali. Alla fine della sua prefazione Ariel Toaff dichiara di aver letto i documenti sugli omicidi rituali ispirandosi a un principio di metodo che aveva ispirato molti anni fa una mia ricerca sullo stereotipo del sabba stregonesco ( Storia notturna, 1989). Si tratta di un richiamo abusivo: Ariel Toaff ha seguito una via completamente diversa dalla mia. Ma il confronto tra le due vie è illuminante perché mostra con quali criteri egli abbia letto i documenti.
Nel passo citato da Ariel Toaff io sostenevo che nei processi di stregoneria uomini e donne, sottoposti a tortura e a pressioni psicologiche, finivano molto spesso con l'introiettare stereotipi ostili suggeriti dai giudici. Quando però ci imbattiamo in una divergenza tra le dichiarazioni degli imputati e le aspettative dei giudici possiamo dire di trovarci di fronte a «frammenti relativamente immuni da deformazioni della cultura che la persecuzione si proponeva di cancellare». Più avanti precisavo che questi frammenti potevano riferirsi sia a miti, sia a riti: e optavo, riguardo al sabba stregonesco, per la prima alternativa. Nella prefazione al suo libro Ariel Toaff ha richiamato implicitamente questa distinzione aderendo all'alternativa opposta: «Volendo... concludere che gli omicidi, celebrati nel rito di Pasqua, non fossero soltanto miti, cioè credenze religiose diffuse e strutturate in maniera coerente, ma piuttosto riti effettivi propri di gruppi organizzati e forme di culto realmente praticate, saremo chiamati a una doverosa prudenza metodologica» (pp. 12-13).
Di questa doverosa prudenza Ariel Toaff si è dimenticato subito. In alcuni casi, egli ha scritto, è possibile arrivare a «riscontri obbiettivi», come nei processi celebrati a Endingen in Alsazia nel 1470. Ma poi si scopre che questi riscontri riguardano soltanto i «significativi particolari sulle cerimonie religiose in cui ( gli imputati) intendevano impiegare il sangue che si erano procurati» (p. 78). In altre parole, gli ebrei sottoposti a tortura confessavano quello che i giudici cercavano, ossia il racconto degli omicidi rituali: tra le aspettative dei giudici e le risposte degli imputati non c'era, su questo punto, divergenza alcuna. Ma quei racconti venivano inseriti in descrizioni di cerimonie familiari agli imputati come, prevedibilmente, la Pasqua ebraica. Per Ariel Toaff l'autenticità di queste descrizioni costituisce un «riscontro puntuale» dalle conseguenze imprevedibili: «proprio i riscontri puntuali, posti in luce almeno per una parte di quelle testimonianze, dovrebbero indurci a non squalificare aprioristicamente e senza persuasive giustificazioni, la realtà, magari esagerata o travisata, di eventi sui quali non siamo ancora riusciti a ottenere i riscontri necessari» (p. 79). «Ancora», ma per poco. Basta voltare pagina e i riscontri, anzi i «precisi riscontri», saltano fuori. Parlando degli ebrei mandati al rogo a Landshut attorno al 1440 Ariel Toaff scrive che «sia l'infanticidio di Landshut che il successivo massacro degli ebrei trovano precisi riscontri nei documenti dell'epoca» (p. 90). Ma che cosa c'entra tutto ciò con la presunta partecipazione degli ebrei agli omicidi rituali? Come si fa ad estendere l'autenticità di circostanze marginali (o ovvie, come quella sul massacro degli ebrei) al punto centrale, e controverso, su cui si concentravano le pressioni, fisiche e psicologiche, dei giudici? Giudici che condividano quest'idea di riscontro farebbero paura a chiunque Ariel Toaff compreso, immagino. È pur vero che questo cumulo di illogicità e di strafalcioni è stato salutato con entusiasmo da Franco Cardini: «una ricerca storica metodologicamente esemplare...un atto di onestà intellettuale» ( Avvenire, 7 febbraio). «Magnifico libro di storia» aveva esclamato Sergio Luzzatto su queste pagine. Ma per fortuna gli studiosi hanno scritto di questo libro quello che si merita.
Il procedimento per contagio che ho appena descritto dilaga a proposito dei processi celebrati a Trento nel 1475, ai quali è dedicata la maggior parte del libro. Un gruppo di ebrei confessarono sotto tortura di aver ucciso un bambino di due anni, Simonino. Ariel Toaff si chiede «se quelle descrizioni o quei resoconti, estorti con la tortura, fossero autentici e reali o piuttosto costituissero il frutto delle pressioni suggestive degli inquisitori». La risposta si snoda in due tempi: anzitutto, le confessioni vengono spogliate «dell'elemento più problematico, costituito dall'ammissione dell'uso del sangue del bambino cristiano, sciolto nel vino e mescolato all'impasto delle azzime» (p. 163). Poi si esaminano le descrizioni della Pasqua ebraica contenute nelle confessioni degli imputati. Esse, conclude Ariel Toaff, «si rivelano precise e veritiere. A parte i particolari sull'uso del sangue nel vino e nelle azzime, di cui parleremo in seguito e il cui sporadico inserimento nel testo non vale a modificare il quadro generale, i riscontri sono sempre puntuali» (p. 170). Ancora una volta l'autenticità delle descrizioni della Pasqua ebraica rese da ebrei dimostrerebbe la veridicità delle confessioni sull'omicidio rituale. In particolare, la presenza di elementi anticristiani nel rituale descritto, sotto tortura, dagli imputati sarebbe un «riscontro» che dimostrerebbe la colpevolezza degli imputati. L'esistenza di eventi specifici viene provata sulla base di un contesto culturale generico: un'assurdità che salta agli occhi.
Che un tema così grave sia stato affrontato con tanta superficiale irresponsabilità lascia sgomenti. Eppure un libro come questo ha trovato un editore (che si credeva rispettabile) e degli estimatori. Naturalmente nessuno discute il diritto di scrivere, pubblicare o lodare un libro pessimo: ognuno è responsabile delle proprie scelte. Certo, questa mancanza di discernimento critico (per non parlar d'altro) è penosa. A che cosa attribuirla? In qualche caso s'intravede la seduzione del rumore mediatico, che è per molti irresistibile. Ma forse dietro la disponibilità a prendere per buone le confessioni degli ebrei accusati di omicidio rituale agisce un elemento più oscuro: la convinzione strisciante che la tortura (una pratica percepita come diffusa, inevitabile, in fondo normale) sia una via per arrivare alla verità. Qualche volta la sordità morale e quella intellettuale s'intrecciano, rafforzandosi a vicenda.