Due quinte
L’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, del 30 novembre 20071 (da cui sono tratte le successive citazioni non altrimenti indicate in nota), è ricca di riferimenti a un’ampia bibliografia. Non cita, però, due testi, certamente presenti al Pontefice e che fanno per così dire da quinte che delimitano lo scenario su cui si svolge poi il dramma della speranza, in quattro atti, che l’enciclica ci presenta.
La prima quinta è costituita dalla più nota opera filosofica del secolo XX dove si metta a tema la speranza, Il principio speranza, pubblicata in tre volumi tra il 1954 e il 1959 dal filosofo marxista Ernst Bloch (1885-1977)2. In questo testo Bloch – ebreo di nascita e di cultura – riconosce che la nozione filosofica e teologica di speranza nasce propriamente con la Bibbia. Ma afferma che la speranza ebraica e cristiana rimane inguaribilmente soggettiva, individualistica, privata: quando cerca di cambiare la società e di instaurare la giustizia diventa mito o favola, tanto che può essere paragonata alla ricerca delle città perdute, dell’Eldorado o della fonte dell’eterna giovinezza. Soltanto il marxismo sarebbe stato capace di trasformare questa speranza illusoria in una speranza reale: e non tanto il marxismo di Karl Marx (1818-1883), che rimane ancora teoria, ma il comunismo pratico di Vladimir Il’ič Ul’janov “Lenin” (1870-1924). Per Bloch finalmente “è in vista una fine del tunnel che non proviene dalla Palestina ma da Mosca: ubi Lenin, ibi Jerusalem”, “dove è Lenin, lì è la Gerusalemme Celeste”3 . Naturalmente oggi sappiamo che nella Mosca comunista non c’era nessuna Gerusalemme Celeste; e tra poco a Mosca forse non ci sarà più neppure Lenin, se sono vere le notizie di stampa secondo cui la sua tomba potrebbe essere rimossa dalla Piazza Rossa… e magari trasferita in Italia, dove il segretario del Partito dei Comunisti Italiani, l’onorevole Oliviero Diliberto, si è dichiarato disponibile ad accoglierla mentre celebrava a Mosca il novantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre4. E tuttavia Il principio speranza ha avuto un ruolo fondamentale nella teologia cattolica postconciliare, dove molti hanno tentato di ritrasformare in cristiana la speranza della Bibbia che Bloch aveva trasformato in comunista, certo ottenendo risultati diversi dal punto di partenza, cioè dall’originaria speranza cristiana, nel quadro di quella ubriacatura marxista della teologia cattolica, anzitutto (ma non solo) tedesca, con cui il regnante Pontefice ha dovuto fare i conti quando insegnava in Germania, come racconta nella sua autobiografia5.
La seconda quinta dello scenario è costituita dal discorso tenuto a Ratisbona dallo stesso Benedetto XVI il 12 settembre 20066 che non è, come molti pensano, un discorso sull’islam. Il mondo musulmano è evocato inizialmente, come elemento di contrasto, per introdurre un’analisi di quello che l’Europa e l’Occidente avrebbero dovuto essere ma purtroppo da secoli non sono più. Nell’islam – nel momento in cui il Papa lo fissa in un’istantanea a Ratisbona, la fine del XIV secolo – il timore di derive verso l’ateismo aveva portato ad abbandonare la filosofia greca, con cui pure in altra stagione il pensiero musulmano aveva intrattenuto rapporti. Ma anche in Europa la sintesi di Grecia e cristianesimo (con la mediazione di Roma) è stata attaccata e gravemente ferita da successive “deellenizzazioni”7,che Benedetto XVI non condanna in quanto rinuncia a uno stile greco – quasi che qualcuno si limitasse a non apprezzare le colonne ioniche, doriche o corinzie – ma in quanto abbandono di un’idea di ragione come strumento inteso a (e, sia pure con limiti, capace di) conoscere la verità, sostituita prima con Martin Lutero (1483-1546) da una svalutazione della ragione in genere, quindi con l’Illuminismo e con il marxismo da una falsa nozione di ragione non più rivolta al vero, ma a quanto è tecnicamente o politicamente utile ovvero a quanto è capace di provare la sua superiorità nella storia attraverso la violenza.
Primo atto. La nascita della speranza
È dunque su questo scenario che Benedetto XVI mette in atto una sorta di sacra rappresentazione, che ha per tema la storia della speranza. Il primo atto ci mostra la speranza in statu nascenti a partire da un’affermazione, che oggi suona certamente scandalosa, di san Paolo († 67 d.C.) il quale, scrivendo agli Efesini, ricorda loro che prima dell’incontro con Gesù Cristo i pagani erano “senza speranza e senza Dio nel mondo” (Ef 2, 12). Si può immaginare qui la reazione di uno studioso di religioni comparate: certamente prima del cristianesimo c’erano dei nel mondo, anzi forse ce n’erano perfino troppi. Ma forse l’ipotetica reazione andrebbe attribuita a uno studioso di qualche anno fa. Oggi gli studiosi – valgano per tutte le opere di sociologia storica del maggiore sociologo delle religioni vivente, lo statunitense Rodney Stark – sanno che la religione pagana ellenistica e romana era decaduta a mera religione di Stato, i cui riti erano celebrati stancamente da funzionari stipendiati, senza vera partecipazione popolare8.
Il Papa non cita Stark ma usa precisamente nella Spe salvi l’espressione “religione di Stato” (n. 5), ricordando come la ragione della filosofia greca era una forza capace di costruire ma anche di distruggere e di corrodere. Di costruire, quando si trovava di fronte a una religione forte e solida come il cristianesimo. Ma anche di corrodere una religione intellettualmente debole, com’era quella pagana. “Il razionalismo filosofico aveva confinato gli dèi nel campo dell’irreale” (n. 5); il mito della religione classica “aveva perso la sua credibilità” (ibidem); la religione romana “si era sclerotizzata in semplice cerimoniale” (ibidem). Corrosa dal razionalismo la fede negli dei, rimaneva – secondo una concezione che, nota Benedetto XVI, “in modo diverso, è nuovamente in auge anche oggi” (ibidem) – un rapporto con il sacro che divinizzava “gli elementi del cosmo” (ibidem) e si esprimeva in una cupa astrologia deterministica, in cui gli astri dominavano la vita degli uomini senza che questi potessero né impedire l’azione delle stelle, né comprendere appieno la sua dinamica. A questa paura delle forze cosmiche pone fine l’evento di Betlemme. Benedetto XVI cita san Gregorio di Nazianzo (330-390) per ricordare che “nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo” (ibidem).
E tuttavia, anche dopo il cristianesimo, non solo sopravvivevano ma potevano rinascere forme religiose dove la speranza nata dall’incontro fra ragione e fede si affievoliva o spariva. Il riferimento all’islam – appena accennato – nell’enciclica passa per il racconto della vita di santa Giuseppina Bakhita (1869-1947), una schiava di una terra la cui evocazione oggi non è casuale: il Darfur, nel Sudan, teatro di un genocidio in cui la schiavitù è ancora praticata ai nostri giorni, da musulmani arabi ai danni di altri musulmani che hanno il solo torto di non essere arabi. Giuseppina Bakhita, dopo un’esperienza particolarmente orribile della schiavitù – “ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici” (n. 3) – ha la fortuna di essere venduta a un padrone umano, italiano, che la porta a Verona dove conosce quello che “nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato” (ibidem) chiamava il “Paron”, il padrone per antonomasia: Dio. Nel 1896 pronuncia i voti come suora canossiana e inizia un cammino che la porterà fino alla gloria degli altari.
Solo l’incontro fra fede e ragione permette di riconoscere quella fondata sulla schiavitù come una “società impropria” (n. 4), che può essere al massimo accettata provvisoriamente, già nella prospettiva di cambiarla. Peraltro, se sapeva parlare agli schiavi, il cristianesimo delle origini – come oggi sa bene la scienza storica – contava anche “conversioni nei ceti aristocratici e colti” (n. 5). Questa capacità dei primi cristiani di attirare convertiti di diversi ceti è illustrata dal Pontefice con un riferimento iconografico ai sarcofaghi dei primi secoli. “La figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore” (n. 6). Entrambe queste figure, nella crisi della religione e della stessa cultura classica, avevano assunto aspetti caricaturali. Molti presunti filosofi “erano soltanto dei ciarlatani” (ibidem); quanto ai pastori, la letteratura bucolica di genere li rappresentava con le loro pastorelle intenti sempre e comunque a godere di una vita “serena e semplice” (ibidem), ben poco realistica se paragonata all’esperienza concreta della pastorizia, che conosce anche i momenti difficili e gli assalti dei lupi. Alle persone colte Gesù appare come il vero filosofo, che a differenza dei ciarlatani non esibisce la sua maestria come capacità di sostenere a turno una tesi e il suo contrario, ma mostra la verità, anzi è la verità. Ai poveri e agli oppressi, Gesù si presenta come il vero pastore che non solo difende le pecore dai lupi ma perfino cammina con il suo gregge sulla “via che passa per la valle della morte” (ibidem), un nemico assai peggiore dei lupi e che però il Signore – e Lui solo – ha affrontato e sconfitto. Così, davvero, è propriamente con Gesù Cristo che nasce la speranza nella storia.
Secondo atto. La definizione della speranza
Il secondo atto della sacra rappresentazione della Spe salvi è un momento pedagogico. I personaggi principali ci sono mostrati mentre riflettono sulla domanda: che cos’è precisamente questa speranza che è apparsa nella storia degli uomini con il cristianesimo? È una riflessione che impegna i cristiani, confortati dal dono della speranza che con Gesù Cristo ha fatto irruzione nella storia, al confronto evocato a Ratisbona fra la loro fede e la ragione, fra l’eredità biblica e la filosofia greca. La speranza era stata ricevuta in dono, ma occorreva rendersi ben conto di che cos’era, attraverso un processo che va dalla patristica alla scolastica del Medioevo.
Dal momento che fede e speranza sono strettamente collegate, Benedetto XVI parte da una definizione famosa della fede, che san Paolo propone in Ebrei 11,1 e di cui – per impostare adeguatamente il discorso – due sostantivi fondamentali vanno per il momento lasciati in greco (forse chiedendo scusa anticipatamente ai lettori minores – tra cui la proverbiale vecchietta che ha acquistato l’enciclica in edicola come supplemento di qualche giornale cattolico – ricordando però che nella Chiesa il magistero ai minores non va nascosto ma spiegato). La fede dunque per san Paolo è “hypostasis delle cose che si sperano, elenchos delle cose che non si vedono” (Eb 11,1): e chi sbaglia traduzione finisce per sbagliare teologia. Hypostasis va tradotto come “sostanza”: e quello di sostanza è un concetto fondamentale di tutta la filosofia greca e medioevale tanto cara a Benedetto XVI. La sostanza è quanto vi è di più importante in ogni realtà. È la sostanza che fa del foglio che stiamo leggendo un foglio, e fa sì che un foglio sia diverso da una nave, da un gatto o da un pensiero – ma, nello stesso tempo, abbia qualche cosa di essenziale in comune con ogni altro foglio, anche lontanissimo nel tempo e nello spazio, rispetto al quale non cambierà la sostanza, ma muteranno quelli che la filosofia classica chiama accidenti. La sostanza delle cose che si sperano è dunque qualche cosa di molto concreto. Non uno stato d’animo, un desiderio, una passione, un’emozione: ma una cosa. La speranza (e così si comincia anche a rispondere a Bloch) non è un’illusione: certo, si riferisce in buona parte al futuro ma una parte di questo futuro è già dentro di noi, non come fantasia ma come realtà. Veramente dentro di noi c’è “già ora qualcosa della realtà attesa” (n. 7), e solo la parola “sostanza” ci permette di dare all’espressione “qualcosa” tutta la sua realtà, sottraendola definitivamente al regno del vago, dell’indefinito e dell’illusorio.
Non solo: la fede – che qui si fa anche e nello stesso tempo speranza – è “elenchos delle cose che non si vedono”. Elenchos deve essere tradotto con “prova”: la prova che sostiene un’affermazione vera e la distingue da una falsa, ma anche la prova cui sta appeso il discorso giuridico, dell’avvocato e del giudice, che fa la differenza fra la ragione e il torto, fra la colpevolezza e l’innocenza. Dunque, ancora, quanto di più concreto e di meno vago e sentimentale possibile. Le “cose che non si vedono” non sono sostenute da semplici aspirazioni soggettive, ma da prove.
Ancora, il carattere veramente “sostanziale” e concretissimo della speranza emerge dal capitolo precedente, rispetto all’undicesimo dove è offerta la definizione, della Lettera agli Ebrei: il decimo, dove san Paolo ci propone quasi un gioco di parole fra le sostanze, intese nel senso di beni materiali, e la sostanza, cioè la speranza. Ai cristiani perseguitati san Paolo dice: “Avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi” (Eb 10, 34). Ma nella traduzione latina della Vulgata quei beni migliori sono resi con substantiam, così che alle sostanze dei beni economici e materiali è contrapposta una “sostanza”, la speranza appunto, che sembra meno concreta ma per chi sa vedere è invece più concreta, sembra meno duratura ma al contrario è “più duratura”.
Benedetto XVI mostra come non sia neppure completamente soddisfacente definire questo “qualcosa” che è dentro di noi come un germe della “vita eterna”. Perché “vita eterna”, a pensarci bene, è espressione in sé contraddittoria. La vita non è eterna: ha un inizio e una fine; quindi, l’eternità è a rigore cosa diversa dalla vita. Si rischia allora di comprendere la “vita eterna” come una semplice durata indefinita e ripetitiva. In questo senso, la prospettiva può apparire come non particolarmente entusiasmante: “vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile” (n. 10). Oggi, anzi, “continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono” (ibidem). Dubito che il Papa intenda alludere in esplicito a questo riferimento letterario, ma queste parole catturano l’essenza di uno dei grandi archetipi della letteratura moderna, il mito del vampiro. Dracula, il personaggio creato dal romanziere irlandese Abraham “Bram” Stoker (1847-1912), non è affatto contento del suo “vivere senza fine” e, nel profondo del suo essere, aspira alla fine della sua esistenza di vampiro come a una liberazione9. Ma, appunto, la vita “senza fine” del vampiro non ha niente a che fare con la misteriosa e sublime realtà cui allude il cristianesimo quando parla di “vita eterna”. Attraverso un’analisi degli scritti di sant’Agostino (354-430), Benedetto XVI mostra come quella che chiamiamo “vita eterna” è propriamente la “vita vera” (n. 11). Tutti in qualche modo percepiamo – anche se non tutti ne attribuiamo, correttamente, la causa al peccato originale – che questa vita, quella di tutti i giorni in cui si mangia, si beve, si dorme, si fa e si subisce violenza e si pecca non è la vita vera: “ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è” (n. 11). Ma ogni tanto brilla nella nostra consapevolezza – fosse pure per un breve momento – un’altra vita, più reale della vita “reale”. “Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere” (ibidem). Di questa “vita vera” la speranza non è semplice aspirazione, ma anticipazione: substantia che dentro di noi già vive, anche se solo in certi rari momenti ne percepiamo la presenza e lo splendore.
Terzo atto. L’attacco contro la speranza
Nel terzo atto, Benedetto XVI – riprendendo ampiamente temi già trattati a Ratisbona così che, in un certo senso, qui il discorso si fa enciclica – mostra come la speranza, nata con Cristo e precisata nei suoi termini concettuali attraverso un saldo ancoraggio tanto alla fede quanto alla ragione, è stata attaccata nella storia moderna dell’Europa e dell’Occidente, attraverso i passaggi della Riforma protestante, dell’Illuminismo e del comunismo.
Lutero, “al quale la Lettera agli Ebrei non era in se stessa molto simpatica” (n. 7) e cui – dopo la radicale “deellenizzazione” e svalutazione della ragione e del fondamento filosofico greco – “il concetto di «sostanza» […] non diceva niente” (ibidem), compie il primo, ma decisivo, passo traducendo (e anche qui porgiamo scuse anticipate alla vecchietta che vuole leggere l’enciclica, ma non pensa d’iscriversi a una scuola di lingue) hypostasis non con “sostanza” ma con Feststehen, “stare saldi”, ed elenchos non con “prova” ma con Überzeugtsein, “essere convinti” (n. 7). Qui non si tratta di filologia, ma di filosofia. Notiamo subito infatti che da sostantivi siamo passati a verbi, da “cose” ad atteggiamenti della persona, che “sta salda” – qualche cosa che evoca immediatamente, se non un pugno sul tavolo, una forma di volontarismo -, ed “è convinta”, che è evidentemente cosa diversa dall’avere delle “prove”. Le prove sono oggettive, le convinzioni soggettive: dopo tutto, ci sono anche convinzioni sbagliate. Invece in san Paolo “il termine greco usato (elenchos) non ha il valore soggettivo di «convinzione», ma quello oggettivo di prova»” (ibidem).
Naturalmente il volontarismo e il soggettivismo possono anche sentirsi molto forti, riparati come stanno in Lutero sotto l’ombrello della fede. Senonché, come era stato mostrato a Ratisbona, la fede separata dalla ragione esercita il suo dominio su un campo piuttosto ristretto, strettamente teologico. La piazza pubblica, per usare un’espressione della lingua inglese, denudata dalla presenza cristiana10, è lasciata ad altri, che non si servono della fede, né di una ragione che dialoga con la fede e cerca la verità (perché questa è stata sistematicamente svalutata ed emarginata da Lutero), ma di una ragione strumentale, la “ragione del potere e del fare” (n. 23). Mentre “non è che la fede […] venga semplicemente negata” (n.17) – non ancora – ma “viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo” (ibidem). E questi “altri” si presentano rapidamente a occupare la piazza pubblica, sotto la bandiera della scienza innalzata da Francesco Bacone (1561-1626). Il vero è sostituito dall’utile; la speranza, dalla “ideologia del progresso” (ibidem). Quando gli “altri” si accorgono che tutta la piazza pubblica è libera, cercano d’impadronirsi di tutta la cultura e la politica con l’Illuminismo, che mostra il suo aspetto violento con la Rivoluzione francese. Certo, alla bandiera della scienza si affianca qui quella della libertà: ma anche “libertà” è una parola dai molteplici significati, che si presta agli inganni. Non si tratta, nell’Illuminismo in marcia verso la Rivoluzione francese, di una libertà per la verità ma di una libertà dal limite, dai “vincoli” della fede e della stessa vita politica come allora la si concepiva, una “libertà” che portava in sé un sinistro “potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva” (n. 18).
La critica della Rivoluzione francese è condotta da Benedetto XVI analizzando due scritti del filosofo principe dell’Illuminismo, Immanuel Kant (1724-1804), separati da soli due anni ma molto diversi nel giudizio sugli eventi di Francia. Il primo, del 1792, s’intitola La vittoria del principio buono su quello cattivo e la costituzione di un regno di Dio sulla terra: già il titolo dice molto. Niente di meno dell’instaurazione del regno di Dio sulla Terra sembra possibile a Kant tramite la sostituzione, certo dolorosa ma provvidenziale, della “fede ecclesiastica”, incrostata di vecchiume e superata dall’Illuminismo, con la “pura fede religiosa” che sarebbe “semplice fede razionale” (n. 19), religione nei limiti della sola ragione secondo la formula celebre dello stesso filosofo. Tuttavia, passano solo due anni e Kant in un nuovo scritto, La fine di tutte le cose, del 1794, paventa addirittura il regno dell’“Anticristo”, “fondato presumibilmente sulla paura e sull'egoismo”: “la fine (perversa) di tutte le cose” (ibidem). Qualcuno meno caritatevole del Papa potrebbe fermarsi a osservare che a questa “fine (perversa) di tutte le cose” Kant ha portato il suo neppure troppo modesto contributo, ma non è l’accertamento delle responsabilità dei singoli protagonisti della storia culturale dell’Europa che sta a cuore al Pontefice.
Benedetto XVI è disposto a prendere in considerazione la critica dell’Illuminismo che nel XX secolo è venuta dalla Scuola di Francoforte, in particolare da Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) – il quale “ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba” (n. 22) – e da Max Horkheimer (1895-1973). Una critica significativa, perché nata dal cuore stesso di un pensiero post-illuminista, nella sua parte negativa, ma incapace di restaurare la speranza. Per Adorno e Horkheimer infatti i drammi del Novecento non ci permettono più di credere nell’Illuminismo; ma la critica che l’Illuminismo ha svolto del cristianesimo e della fede in Dio è a sua volta definitiva. Da questa critica non si può più tornare indietro, e Dio “rimane inaccessibile” (n. 42). Nonostante il rigore concettuale, che Benedetto XVI sembra apprezzare, dell’analisi dell’Illuminismo nella Scuola di Francoforte, di fronte a pensatori che “hanno criticato in ugual modo l'ateismo come il teismo” (ibidem) rimane come prospettiva soltanto il nichilismo; non la speranza, ma la disperazione.
Prima dello sbocco nichilista – che in altra occasione il Papa ha riferito al 1968 e ai suoi postumi, “l’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente” e insieme appunto “una caduta, potremmo dire, nel nichilismo”11, a proposito del quale potremmo interrogarci sul ruolo giocato dalla stessa Scuola di Francoforte nella formazione almeno di una parte dell’ideologia “sessantottina” – c’è però un terzo passaggio: dopo l’autentica rivoluzione costituita dal protestantesimo, e dopo la Rivoluzione francese, la Rivoluzione bolscevica. Qui il rovesciamento della ragione cognitiva, cioè orientata alla conoscenza della verità, in ragione strumentale si disvela nel modo più brutale. Non l’utilità per il genere umano in marcia sulla via del progresso delle utopie scientiste e illuministe è il criterio cui tutto è subordinato, ma l’utilità per la classe sociale, per il partito, per chi in definitiva è capace di afferrare la storia nelle sue mani e prevalere con la violenza. Per Marx il regno di Dio sulla Terra s’instaura non grazie alla scienza, ma grazie alla politica. “La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose” (n. 20).
C’è però in Marx un “errore fondamentale” (n. 21), e insieme una vera e propria menzogna. La sua teoria si presenta come pensata per la “Nuova Gerusalemme”del comunismo realizzato (ibidem, con un riferimento almeno implicito a Bloch), sulla cui via la “dittatura del proletariato” dovrebbe essere solo uno stadio intermedio e transitorio. Ma del marxismo, che ci promette concretezza mentre accusa le religioni di essere vaghe, si può affermare precisamente che “non dica nulla” (ibidem) di questo terreno regno di Dio senza Dio. Finisce per parlare solo della dittatura del proletariato: ma su questo punto, ormai, il comunismo è sconfitto perché ormai questa cosiddetta “«fase intermedia» la conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante” (ibidem). Distruzione, desolazione e menzogna.
L’itinerario attraverso il quale la speranza è erosa e decostruita nella storia dell’Occidente – che sbocca, partendo dagli errori di Lutero, nella Rivoluzione francese, nella Rivoluzione bolscevica e nel nichilismo che segue il fallimento delle ideologie – permette di chiudere questo terzo atto con una morale. Il Papa non afferma affatto che la scienza e la politica siano realtà inutili e dannose. Lo diventano soltanto quando pensano di potere instaurare paradisi in Terra e regni di Dio intramondani. “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa” (n. 24). Chi annuncia il Paradiso sulla Terra, sulla Terra costruisce invece l’Inferno. Invece, una scienza e una politica che sappiano essere modeste, consapevoli che il Paradiso è una realtà di altra natura e che sfugge completamente al loro orizzonte, non solo non sono dannose ma sono gli umili, necessari mattoni per “la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane [che] è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso” (n. 25).
Quarto atto. La restaurazione della speranza
Benedetto XVI descrive spesso la crisi dell’Europa e dell’Occidente, ma non lo fa per convocarci a un funerale. Vuole invece mostrare come, quando si tocca il fondo, nasce anche la possibilità di risalire e riemergere12. Ma dal fondo del processo rivoluzionario moderno sorge anche per gli stessi cristiani il dovere di un’autocritica. “Bisogna che nell'autocritica dell'età moderna confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno” (n. 22). Il dramma è più complesso di una semplice divisione fra “noi” e “loro”, fra le ideologie della modernità che hanno demolito la speranza e i cristiani che hanno tentato di conservarla. Qualche volta gli stessi cristiani, secondo un’espressione famosa di Papa Paolo VI (1897-1976), hanno purtroppo dato il loro contributo con un’opera di “autodemolizione”13.
Ci sono, anzitutto, i cristiani che si sono senz’altro schierati con l’avversario e si sono fatti compagni di strada dell’Illuminismo o del marxismo. Dopo la fragorosa caduta delle ideologie del XX secolo, la critica di costoro è facile e quasi scontata sul piano dottrinale, anche se nella realtà concreta della storia si tratta di correnti e personaggi che non sono affatto scomparsi14. L’enciclica si concentra però su un errore più sottile, che trova le sue radici nella penetrazione nella Chiesa cattolica dell’errore di Lutero, il quale trasforma la speranza da oggettiva in soggettiva. La concezione luterana “nel XX secolo si è affermata – almeno in Germania – anche nell'esegesi cattolica” (n. 7) – paradossalmente, mentre “la recente esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa” (ibidem), convincendosi che l’interpretazione di Lutero è filologicamente “insostenibile” (ibidem) – così che, per esempio, l’attuale “traduzione ecumenica in lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai Vescovi” (ibidem) riprende le traduzioni del padre della Riforma di hypostatis e di elenchos, offrendo qualcosa che “in se stesso non è erroneo” (ibidem) ed è certo suscettibile di un’interpretazione ortodossa, ma “non è però il senso del testo” (ibidem). Ed è proprio qui che i cattolici rischiano di cadere sotto la critica di Bloch: una volta ridotta alla sua dimensione soggettiva, la vostra bella speranza non cambia il mondo e non crea la giustizia.
Benedetto XVI mostra, anzitutto, che in questa critica si nasconde un inganno, così che la risposta non può essere soltanto difensiva. Quegli stessi che hanno operato, mediante un processo secolare, per cacciare i cristiani dalla piazza pubblica dove pensavano di edificare gioiosamente il loro “regno dell’uomo” (n. 30) senza essere disturbati da Dio, quando la piazza si riempie di rovine vanno a rimproverare i cristiani per essere rimasti a occuparsi della loro salvezza eterna in casa o in chiesa – dove però li avevano confinati loro. E tuttavia il bisogno di “autocritica” rimane. I cristiani qualche volta dalla piazza pubblica si sono lasciati escludere senza reagire, quasi compiacendosi di lasciarla ad altri, di cui si pensava che ne avrebbero avuto miglior cura (è quella che in Italia è stata chiamata a lungo “scelta religiosa”). C’è davvero un cristianesimo che – secondo l’espressione critica del romanziere francese Jean Giono (1895-1970), che Benedetto XVI cita da un’opera del cardinale Henri de Lubac, S.J. (1896-1991) – ha ridotto “la gioia di Gesù” a un’esperienza meramente “individuale” che, incurante dei drammi della società e della storia, “nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano” (n. 13).
Affrontando la questione in un modo che può apparire a prima vista sorprendente, il Papa insiste sul fatto che questi cristiani, questi cattolici hanno cominciato con lo sbagliare escatologia. “Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell'anima” (n. 42). Naturalmente, non vi è nulla di sbagliato e vi è tutto di giusto e di doveroso nel preoccuparsi della salvezza della propria anima. Ma gli antichi sapevano meglio di noi che non ci si salva da soli. L’espressione cristiana secondo cui non c’è salvezza che non passi per la Chiesa significa anche che non c’è salvezza che non abbia una dimensione sociale. E molto aiutava a ricordare questa dimensione uno sguardo volto al Giudizio universale, non solo al giudizio particolare che attende ogni anima dopo la morte.
In effetti, secondo Benedetto XVI, senza il Giudizio universale non si risponde veramente né all’obiezione di Bloch né alla domanda di giustizia che sale da tutta la storia umana. “Io sono convinto – confida il Papa – che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna” (n. 43). Se apriamo le nostre finestre e guardiamo il dramma del mondo, non occorre essere pessimisti inguaribili per concludere che sembra proprio che spesso i buoni perdano e i cattivi vincono. Se questa ingiustizia fosse l’ultima parola della storia, la stessa storia non avrebbe ultimamente senso. Deve esistere invece una “riparazione che ristabilisce il diritto” (ibidem) verso cui orientare una speranza “la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli” (ibidem). Già uno dei principali esponenti di quella filosofia greca più volte evocata, Platone (427-347 a.C.) nel suo dialogo Gorgia aveva intuito che per dare senso alla storia doveva esserci, alla fine, un giudice che mandava qualcuno “nel carcere, dove subirà le punizioni meritate” e altri “alle isole dei beati” (n. 44). Gesù va oltre, con la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31), a proposito della quale si deve però sottolineare che in realtà “non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora” (ibidem).
Già l’ebraismo del Vecchio Testamento intuisce – spingendosi al di là di Platone – che non ci sono solo il “carcere” e le “isole dei beati”. Certo, Benedetto XVI ribadisce che l’inferno c’è, e non è vuoto come vorrebbe qualche teologo. È la condizione che si preparano quelle “persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere” (n. 45). Così come, fortunatamente, incontriamo “persone purissime” (ibidem) che non abbiamo difficoltà a immaginare come destinate immediatamente al Paradiso. Ma “secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana” (n. 46): nella maggioranza delle persone “molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima” (ibidem), il che rende non solo scritturalmente e teologicamente fondata ma eminentemente ragionevole la prospettiva del Purgatorio. L’amore di Dio, infatti, è insieme giustizia e misericordia. Se fosse solo misericordia, e salvasse tutti senza guardare al bene o al male che hanno compiuto, se fosse “una spugna che cancella tutto” (n. 44) quanto si è fatto nella vita, si esporrebbe alla protesta cui ha dato voce, fra gli altri, Fjodor Dostoëvskij (1821-1881) ne I fratelli Karamazov, un romanzo esplicitamente citato dall’enciclica (ibidem). No: “I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato” (ibidem). “Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso” (n. 47). D’altro canto, “se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura” (n. 48). È nella prospettiva che tiene fermo lo sguardo sul Giudizio universale e che nel giudizio particolare discerne come possibilità l’inferno, il Purgatorio e il Paradiso che giustizia e misericordia si collegano strettamente, come eminentemente avviene nella persona stessa di Gesù Cristo. E acquistano un senso più profondo anche la preghiera di suffragio per le anime dei defunti e l’offerta delle proprie sofferenze per gli altri, pratica quest’ultima che certo in passato può avere incluso “cose esagerate e forse anche malsane” (n. 40) ma in cui forse “era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale” (ibidem) che non dovrebbe essere lasciato cadere con leggerezza.
“Ma ora sorge la domanda: in questo modo non siamo forse ricascati nuovamente nell'individualismo della salvezza?” (n. 28). Bloch incalzerebbe: il Giudizio universale non è una semplice remota cornice per giustificare la nostra preoccupazione per la sola salvezza individuale? A una lettura superficiale, l’obiezione potrebbe essere rafforzata dai due percorsi che Benedetto XVI indica come prioritari per restaurare la speranza: la preghiera e la capacità di accettare la sofferenza come occasione di santità (il che non esclude evidentemente il valore di ogni sforzo umano che miri ad attenuare le sofferenze, nella consapevolezza però che la loro totale eliminazione è impossibile e ci farebbe ricadere nelle rovinose utopie del regno di Dio sulla Terra). Tuttavia, merita attenzione la scelta dei testimoni che il Papa convoca a illustrarci il valore della preghiera e della sofferenza: il cardinale François Xavier Nguyen Van Thuan (1928-2002), che ha meditato sulla preghiera nei suoi tredici anni di carcere duro nel Vietnam comunista, e il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (†1857), le cui riflessioni sulla sofferenza nel mezzo delle vessazioni e delle torture sembrano veramente una “lettera dall’«inferno»” (n. 37).
Queste esperienze drammatiche solo a una lettura veramente superficiale e grossolana possono apparire come individualiste. In realtà, vissute nella comunione della Chiesa e dei santi e nella prospettiva escatologica del Giudizio, cambiano il mondo e restaurano la speranza. Questa fu, del resto, l’esperienza della Vergine Maria sul Calvario. Qualcuno avrebbe potuto dire che in quella notte di tenebra il regno di Gesù Cristo era “finito prima di cominciare” (n. 50). Era tutto il contrario: attorno alla Vergine Maria, stella della speranza, il regno “iniziava in quell'ora e non avrebbe avuto mai fine” (ibidem).
La restaurazione, così, rimane sempre possibile: anche oggi. Purché non ci si limiti a lamentarsi e si ricordi, ancora con Benedetto XVI, che “accendere un fiammifero vale più che maledire l’oscurità”15.
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1 Benedetto XVI, lettera enciclica Spe salvi del 30-11-2007, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato <http://tinyurl.com/3chmo7>.
2 Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung, prima edizione, 3 voll., Suhrkamp, Berlino 1954, 1955 e 1959. La seconda edizione, normalmente considerata definitiva, è stata pubblicata da Surhkamp, Francoforte sul Meno, 2 voll., 1971-1973. In italiano si è dovuto attendere il 1994 per una traduzione in tre volumi a cura di Remo Bodei: Il principio speranza, Garzanti, Milano.
3 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, seconda edizione, cit., vol. II, p. 711.
4 Cfr. Portiamo a Roma la mummia di Lenin, ne Il Corriere della Sera, 6-11-2007, p. 4.
5 Cfr. Joseph Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005.
6 Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg [Ratisbona], del 12-9-2006, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato <www.tinyurl.com/hmq6w>.
7 Ibidem.
8 Cfr. da ultimo Rodney Stark, Discovering God. The Origins of the Great Religions and the Evolution of Belief, HarperOne, New York 2007; e la mia recensione: Grande sprint delle “aziende religiose”, ne il Domenicale. Settimanale di cultura, anno VI, n. 50, 15 dicembre 2007, p. 6-7.
9 Cfr. Bram Stoker, Dracula, Archibald Constable & Company, Westminster (Londra) 1897, di cui – fra le molte traduzioni italiane – cfr. Dracula, Mondadori, Milano 2003; e il mio La stirpe di Dracula. Indagine sul vampirismo dall’antichità ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1997.
10 Cfr. Richard John Neuhaus, The Naked Public Square. Religion and Democracy in America, William B. Eerdmans, Grand Rapids (Michigan) 1984; e la mia recensione dello stesso volume in Quaderni di Cristianità, anno I, n.1, primavera 1985, pp. 91-95.
11 Benedetto XVI, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, ad Auronzo di Cadore, del 24-7-2007, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato <www.tinyurl.com/237876>.
12 Cfr. sul punto i miei Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà, Sugarco, Milano 2006; e Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane, Sugarco, Milano 2008.
13 Paolo VI, Allocuzione agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. VI, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1969, pp. 1187-1189 (p. 1188).
14 Poco dopo la pubblicazione dell’enciclica Spe salvi uno dei ministri del governo italiano più presenti sui media, Paolo Ferrero, di fede protestante valdese, continuava a ripetere slogan come “Ci diciamo marxisti e ci confessiamo cristiani”, rivendicando con orgoglio di essere, insieme a “molti giovani protestanti”, “cresciuto alla scuola di Raniero Panzieri” (1921-1964), che coniugava operaismo marxista e suggestioni di Ernst Bloch (cfr. Il Ferrero valdese, ne il Foglio, 19-12-2007, p. 1 e p. 4).
15 Benedetto XVI, Angelus della III Domenica di Quaresima, dell’11-3-2007, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato <www.tinyurl.com/ 26t5pe>.