In occasione delle elezioni politiche polacche del 21 ottobre 2007 la battaglia ideologica fra il Partito della Legge e della Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) del primo ministro Jarosław Kaczyński (fratello gemello del presidente della Repubblica di Polonia, Lech Kaczyński) – uscito sconfitto, seppure di misura, dalla consultazione – e i suoi oppositori è stata particolarmente aspra. Il PiS è stato accusato di antisemitismo, e ha a sua volta accusato gli oppositori, che criticavano la sua politica di lustracija, “pulizia”, intesa a fare emergere i nomi di coloro che in passato avevano collaborato con i servizi segreti della Polonia comunista, di far parte di un complotto anti-nazionale di “ebrei e comunisti”.
A una prima lettura, qualunque tesi che considera l’ebraismo e il comunismo come parte di uno stesso complotto – contro il cristianesimo, l’Europa o lo spirito nazionale della Polonia o di altri Paesi – appare semplicemente come un fantasma antisemita. È infatti evidente che il comunismo ha spesso perseguitato gli ebrei e la loro religione. La grande maggioranza delle sinagoghe in Russia e nei Paesi satelliti sono state distrutte o trasformate in magazzini o musei. Il “complotto dei medici” (1948-1953) – sostanzialmente inventato dalla propaganda staliniana, che accusava un gruppo di dottori di avere tentato di uccidere i principali dirigenti del regime – si tradusse in una recrudescenza di antisemitismo (dal momento che molti dei medici accusati erano ebrei) in tutta l’Unione Sovietica. La falsa “accusa del sangue” – cioè la calunnia secondo cui gli ebrei sgozzerebbero ritualmente fanciulli non ebrei per mescolare il loro sangue alle azzime di Pasqua –, oltre che nel mondo islamico, fu presa sul serio dalle autorità dopo la Seconda guerra mondiale quasi esclusivamente in Unione Sovietica (per esempio in Uzbekistan: a Margilan nel 1961 e a Tashkent nel 1962). Lo schieramento del regime sovietico, e del comunismo internazionale, a fianco dei palestinesi e dei Paesi arabi nella lotta contro Israele portò a una serie di discriminazioni e campagne antisemite non solo in Unione Sovietica ma anche nei Paesi satelliti: nella stessa Polonia negli anni 1967-1968 centinaia di ebrei furono epurati dai quadri dirigenti del Partito Comunista. Chiunque conosca sia l’ostilità a Israele del mondo comunista, sia come questa ostilità si trasformi facilmente – anche se a volte per gradi, così che l’esito appare evidente solo alla fine del processo – in antisemitismo, non potrà che sorridere, certo amaramente, di fronte a espressioni come “giudeo-comunismo”, che appartengono a una semplice operazione di propaganda che ignora le realtà e la complessità della storia.
Tuttavia la campagna elettorale polacca del 2007 ha fatto nascere anche un serio dibattito, almeno in Polonia, fra gli specialisti accademici del comunismo, alcuni dei quali sono ebrei. Il fatto che gli antisemiti sollevino la “questione comunista” in un modo non solo propagandistico ma storicamente assurdo vieta che la domanda sui rapporti fra un certo numero di ebrei e il comunismo sia posta? Oppure il fatto che gli storici seri si auto-censurino con un “divieto di fare domande” sul tema, per paura di essere confusi con gli antisemiti, non finisce con il fare il gioco degli antisemiti stessi? La discussione, per la verità, non è nuova e – a prescindere da numerose pubblicazioni in lingua polacca – è stata avviata in Occidente già con il volume del 1991 di Jaff Schatz The Generation. The Rise and Fall of the Jewish Communists of Poland (University of California Press, Berkeley - Los Angeles - Londra 1991), mentre in Russia lo stesso problema è stato posto ripetutamente da Aleksandr Solzhenitsyn. In occasione delle elezioni del 2007 Stanislaw Krajewski, professore di filosofia all’Università di Varsavia molto noto anche nel mondo cattolico per la sua partecipazione a iniziative di dialogo ebraico-cristiano, è tornato sulla questione, con un bilancio delle discussioni più recenti pubblicato sulla rivista statunitense Covenant. Global Jewish Magazine (vol. I, n. 3, ottobre 2007: “Jews, Communists, and Jewish Communists, in Poland, Europe, and Beyond”). Krajewski, tra l’altro, si dichiara interessato al dibattito anche per una ragione personale: è pronipote di Adolf Warski (1868-1937), che fu co-fondatore del Partito Comunista Polacco prima di cadere egli stesso vittima della “Grande Purga” staliniana. Nella controversia è intervenuta – studiando le fonti letterarie, e con un punto di vista parzialmente diverso (che sottolinea maggiormente la componente messianica nell’accostamento di certi intellettuali ebrei polacchi all’utopia rivoluzionaria marxista) – anche Laura Quercioli Mincer, in un interessante articolo pubblicato sul numero 1 (2007, pp. 35-61) dell’European Journal of Jewish Studies: “Ubi Lenin, Ibi Jerusalem: Illusions and Defeats of Jewish Communists in Polish-Jewish, Post-World War II Literature”.
Krajewski non pensa che l’argomento dei rapporti fra alcuni ebrei e il comunismo (espressione più precisa rispetto a quella che implica una relazione fra ebraismo e comunismo) debba essere evitato per timore degli antisemiti. Alcuni dati statistici richiedono in effetti una riflessione. Il filosofo polacco ricorda per esempio come uno dei primi “sovietologi” svedesi, non particolarmente noto come antisemita, Alfred Jensen (1859-1921), calcolasse nel 1920 che il 75% dei dirigenti bolscevichi russi fosse ebreo, anche se si deve considerare che questo dato precede l’epurazione di molti dirigenti ebrei dopo l’espulsione dell’ebreo Lev Trotsky (1879-1940) dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel 1927. E in Polonia Krajewski ricorda che “dopo la Seconda guerra mondiale la maggioranza delle organizzazioni ebraiche erano filocomuniste”. Tutto questo, ancora, prescinde dalle origini ebraiche di Karl Marx (1818-1883): se suo nonno era un rabbino, suo padre si era convertito al protestantesimo luterano. Karl era stato battezzato, e dai suoi scritti traspaiono semmai evidenti pregiudizi antisemiti. La questione potrebbe essere approfondita – ma non è l’interesse principale di Krajewski – con riferimento alla parabola dell’Haskalah, la versione ebraica dell’Illuminismo, che porta molti ebrei, talora (ma non sempre) transitando appunto per una conversione al protestantesimo liberale, a passare da una visione del mondo religiosa tradizionale a un liberalismo laicista, quindi da questo al socialismo, un’ideologia che è maggioritaria anche tra i fondatori e i primi dirigenti del movimento sionista.
Krajewski è più interessato alla storia del comunismo polacco, dove coesistono importanti dirigenti ebrei (come il suo bisnonno Warski) e antisemiti come Władysław Gomułka (1905-1982), animatore della campagna antiebraica del 1967-1968 ma che già nel 1948 scriveva lettere a Josif Stalin (1878-1953) invocando purghe contro i membri ebrei del Partito. Una prima conclusione di sedici anni di dibattiti – fra il libro di Schatz e le elezioni del 2007 – è che gli ebrei che diventavano comunisti lo facevano al termine di un percorso personale e familiare di progressiva perdita dell’identità ebraica. L’ebraismo – la più piccola delle religioni monoteistiche storiche (tredici milioni di persone contro un miliardo e mezzo di cristiani o di musulmani) – teme sempre di sparire per “assimilazione”: molti abbandonano la loro religione e non si considerano più ebrei, specie dopo avere sposato un coniuge non ebreo. Nel 1928 il famoso rabbino polacco Jehoshua Ozjasz Thon (1870-1936) metteva in guardia contro l’“assimilazione rossa”: gli ebrei, diventando comunisti, finivano per assumere totalmente un’identità comunista non solo rimuovendo l’identità ebraica ma talora (come Marx) vergognandosene e combattendola.
Ma la domanda rimane: perché un numero importante di ebrei, proporzionalmente maggiore rispetto ad altre comunità, aderì al comunismo? E anzitutto: ci sono cifre che lo confermano o tutti sono vittima di uno stereotipo antisemita? Secondo Krajewski gli studi più recenti e attendibili sulla Polonia mostrano che la percentuale di adesione di ebrei al Partito Comunista corrisponde, grosso modo, a quella degli ebrei sulla popolazione polacca in genere, ed è più bassa di quest’ultima prima della Seconda guerra mondiale, quando in Polonia vivevano ancora – prima di essere sterminati nell’Olocausto – grandi masse di ebrei rurali ultra-ortodossi e hassidici, ben poco inclini a farsi affascinare dal comunismo. Quello che ha colpito la popolazione polacca è l’alta percentuale di ebrei (prima delle campagne anti-israeliane che iniziano nel 1956) fra i dirigenti comunisti e nei servizi segreti e di sicurezza interna. Ma anche in questi ultimi colpisce la cifra dei dirigenti, non quella dei semplici agenti. Nel periodo 1944-1956 fra gli agenti dei servizi di sicurezza polacchi gli ebrei sono l’1,7%, ma la cifra sale al 13,4% fra gli ufficiali e a quasi il 30% fra gli ufficiali superiori.
Ne consegue che, mentre è falso che in Polonia il comunismo abbia attirato gli ebrei più dei membri di altre etnie e religioni (anche perché alla percentuale di ebrei agenti dei servizi fa da contrappunto una percentuale ancor più alta di ebrei vittime degli stessi servizi), è vero che il comunismo ha arruolato un numero sproporzionato di intellettuali di origine ebraica, molti dei quali particolarmente qualificati e preparati, così che – prima delle purghe antisioniste e antisemite degli anni 1950-1960 – nel Partito hanno potuto fare carriera. Ancora una volta – e Krajewski potrebbe forse andare più a fondo sul punto – tutto questo rimanda a una riflessione sulle classi colte e sugli intellettuali ebrei fra il XVIII e il XX secolo, e sulla lenta deriva dall’assimilazione attraverso l’adesione all’Illuminismo fino all’“assimilazione rossa”: una deriva in cui per entrare, talora anche dalla porta principale, in ogni nuovo stato di cose che caratterizza l’Europa gli ebrei devono pagare un biglietto d’ingresso che consiste nel rinunciare alla loro religione e alla loro identità.
L’importanza di questa tematica difficilmente può essere sopravvalutata. L’errore più comune che porta a tollerare l’antisemitismo consiste nel costruire un modello “a taglia unica” de “gli ebrei”, mentre la parola “ebrei” designa gruppi umani con storie molto diverse fra loro. Oggi fra un ebreo ultra-ortodosso di Gerusalemme (o di New York), con il suo modo di vestire che a molti sembra anacronistico e la sua morale rigorista, e un’attivista ebrea della California che frequenta una sinagoga riformata e sfila per il matrimonio tra le lesbiche c’è davvero poco in comune. Ma anche nel 1930 c’era poco in comune fra gli hassidim dei villaggi polacchi in attesa di essere sterminati dall’Olocausto e gli intellettuali di famiglia ebrea (ma atei) dei caffè di Varsavia che si entusiasmavano per il marxismo.
E tuttavia la domanda resta: perché molti intellettuali ebrei scelsero il comunismo? Perché non il liberalismo, o altre ideologie diverse da quella marxista? Sul punto la discussione non è conclusa. Alcuni dei partecipanti al recente dibattito polacco ritengono che gli intellettuali ebrei che diventarono comunisti, figli nella maggior parte dei casi di genitori passati dal razionalismo all’ateismo, in qualche modo tornassero alla religione, secolarizzando il messianismo ebraico nel messianismo marxista. Non è solo una analisi dell’atteggiamento di Marx, tanto nota e antica quanto controversa. Lo stesso Schatz, il cui libro del 1991 come si è accennato è alle origini di tutto questo dibattito, paragona gli ebrei polacchi diventati dirigenti comunisti ai loro antenati che seguirono il falso messia Sabbatai Zevi (1626-1676). Altri – e Krajewski fra questi – fanno notare che il messianismo comunista contiene forse “ingredienti ebraici” ma che appare assai più persuasiva la sua ricostruzione come secolarizzazione (certo, con un equivoco drammatico e perverso) di idee tipiche del cristianesimo.
La vera domanda non è : “Perché i comunisti sono ebrei?” (una questione mal posta, e storicamente falsa) ma: “Perché molti (intellettuali) ebrei diventarono comunisti?”. La risposta, secondo Krajewski, non ha tanto a che fare con la religione ma con un senso di marginalità e di “non appartenenza” alla società maggioritaria, un sentimento di cui la religione non è l’unica componente (e di cui l’economia è una componente trascurabile: non si tratta di marginalità economica, ma culturale e spirituale). In questo senso, per il filosofo polacco è interessante notare che in Israele oggi esiste un piccolo Partito Comunista i cui dirigenti sono in maggioranza arabi. Anche nel loro caso non è l’islam, ma il senso di “non appartenere” davvero alla società israeliana che spiega la loro adesione al comunismo.
E tuttavia la questione rimane aperta. Krajewski, il cui bisnonno comunista è stato accusato di atrocità, pensa che una “purificazione della memoria” e il riconoscimento del comunismo come “problema morale” siano necessari anche per la comunità ebraica, che “le assurdità antisemite non debbano fermare la ricerca sui rapporti fra ebrei e comunismo”, e che “coloro che denunciano come razzista ogni statistica sul numero di ebrei nelle istituzioni comuniste” abbiano torto. “Discutere questi problemi non dev’essere lasciato agli antisemiti”. Come ogni menzogna, l’antisemitismo vive nel buio e ogni ricerca che fa luce sulla storia, anche sui suoi aspetti più dolorosi, è in realtà il modo migliore per combatterlo.