“Per l’umanità è in vista una fine del tunnel che non proviene dalla Palestina ma da Mosca: ubi Lenin, ibi Jerusalem”. Così, assicurando che “dove è Lenin, lì è la Gerusalemme Celeste”, parlava Ernst Bloch, un filosofo marxista che ancora vent’anni fa molti cattolici cercavano di tradurre in termini cristiani. Ma Bloch aveva torto: a Mosca non c’era Gerusalemme, e forse tra un po’ non ci sarà più neanche Lenin, se davvero la sua mummia sarà tolta, come sembra, dalla Piazza Rossa – e magari portata, secondo la paradossale proposta di Diliberto, nell’unico paese in cui c’è ancora chi crede davvero nel comunismo, in Italia.
La nuova enciclica di Papa Benedetto XVI, “Spe salvi”, è pervasa dalla serena convinzione che le grandiose speranze suscitate dalle ideologie hanno fallito, e che solo la speranza cristiana rimane credibile. Il Papa non ce l’ha con l’ateismo come tormento individuale. Anzi, afferma che “ogni agire serio e retto dell’uomo” – l’amore, l’impegno per la famiglia e per il lavoro, la capacità di accettare la sofferenza – è già a pieno titolo “speranza in atto”, anche se troverà il suo fondamento ultimo e il suo compimento finale solo nella speranza cristiana in un Dio che nel suo giudizio sarà insieme misericordioso e giusto.
La tragedia delle ideologie moderne non ha a che fare con i drammi individuali ma con l’illusione collettiva che possano essere le scienze, naturali – secondo una linea che il Papa fa partire dal Seicento con Francesco Bacone – o sociali (per Marx, l’economia), a rispondere a ogni domanda di speranza costruendo un paradiso in terra, un’illusione che si rivela invece un inferno di oppressione e di morte.
“Spe salvi” riprende il discorso di Ratisbona del 2006, che era una critica sia dell’islam (qui appena accennata con il ricordo di santa Giuseppina Bakhita, una schiava del Darfur diventata nel 1896 suora a Verona), sia delle ideologie occidentali. Il Papa riafferma che l’Occidente è nato dall’incontro fra fede giudeo-cristiana e ragione greca, messo in discussione da Lutero – che, svalutando la ragione, ha rischiato di togliere alla speranza la sua vera sostanza – e travolto poi dalle ideologie razionalista e marxista, che culminano rispettivamente nel terrore giacobino della Rivoluzione francese e nella Rivoluzione russa. Momenti in cui Benedetto XVI vede con il Kant del 1795 (disilluso rispetto ai primi entusiasmi giacobini) il rischio di una “fine perversa di tutte le cose”. Da cui, screditate le ideologie, ci salverà la modestia di una speranza consapevole che i nostri piccoli passi possono migliorare il mondo, ma non trasformarlo nella Gerusalemme Celeste.