La polemica fra Pier Ferdinando Casini e alcune frange del mondo cattolico accusate di “buonismo” per il loro atteggiamento nei confronti degli immigrati ha indotto molti a leggere con attenzione le poche ma importanti parole dedicate da Benedetto XVI alla questione dell’immigrazione nell’Angelus di domenica scorsa. “Auspico – ha detto il Papa – che le relazioni tra popolazioni migranti e popolazioni locali avvengano nello spirito di quell’alta civiltà morale che è frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese. Chi è preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli”.
Parole, come si vede, molto chiare. Anzitutto, è impossibile impostare con serietà la questione dell’immigrazione se si rimane nell’angusto orizzonte del relativismo, secondo cui ogni popolo ha i “suoi” valori e non esistono valori universali e assoluti. Così, per esempio, il matrimonio monogamico sarebbe un valore attestato e vissuto da secoli in Occidente ma non si potrebbe, senza essere razzisti o imperialisti, imporlo a popoli che da secoli praticano la poligamia. E anche l’atteggiamento dei nomadi Rom sul rapporto con il territorio e la proprietà privata (altrui) avrebbe lo stesso intrinseco valore dei principi di legalità maturati dalla nostra cultura. Non è così. Tutto il magistero di Benedetto XVI insegna che un’autentica “civiltà morale” si costruisce intorno a un tessuto di valori che non sono propri di questo o di quel popolo, ma di “ogni popolo”. Principi come non uccidere, non rubare, non spacciare droga, rispettare il lavoro e la famiglia non sono europei o asiatici, italiani o balcanici, cristiani o buddhisti o atei: sono principi universali, che s’impongono a ogni persona umana in quanto persona. La Chiesa stessa non li indica come valori che deduce dal Vangelo: come Benedetto XVI ha ricordato tante volte, i valori universali possono essere riconosciuti dalla ragione a prescindere da ogni esperienza di fede, e dunque vincolano anche chi ha una religione diversa da quella storicamente maggioritaria in Italia o non ne ha nessuna, senza che questo vincolo costituisca un’oppressione delle minoranze o un’ingerenza della Chiesa nella vita sociale.
Dai valori universali che la ragione è capace di riconoscere discendono “diritti e doveri”. La “vera convivenza” non si può costruire sulla sola rivendicazione dei diritti. Occorre anche che le persone di cultura, lingua, abitudini e provenienza diversa che la globalizzazione porta a convivere sullo stesso territorio si riconoscano pure negli stessi doveri. Diversamente, la convivenza è sostituita dalla violenza e dallo scontro di tutti contro tutti.
Certamente sia nel patrimonio spirituale della Chiesa cattolica sia nell’ethos nazionale italiano è forte il senso dell’accoglienza del più povero e del più debole. Ma lo Stato non può orientare la sua politica dell’immigrazione al solo principio di accoglienza, e infatti Benedetto XVI menziona insieme “sicurezza e accoglienza”. Buonista è chi parla solo di accoglienza dimenticando la sicurezza, solo di diritti dimenticando i doveri, solo di minoranze dimenticando che esistono anche i diritti delle maggioranze, primo fra tutti quello a una vita sicura e a uno Stato che ci sappia proteggere dalla violenza quotidiana. Né sono sufficienti le belle parole. Il Papa ricorda che spetta a “chi è preposto”, cioè allo Stato, “fare uso dei mezzi adatti” perché anche la sicurezza, e non solo l’accoglienza, sia garantita. Mezzi adatti significa politica dell’immigrazione seria e non velleitaria e pasticciona come è purtroppo quella del governo Prodi, ma anche tribunali che funzionino e giudici che condannino. Il buonismo – anche di certi cattolici dalla lacrimuccia facile – è forse buono con il prepotente e il violento, ma è certamente cattivo con chi della prepotenza e della violenza è quotidianamente vittima.