L’opposizione democratica birmana ha ragione quando è scettica sulle sanzioni europee – troppo poco e troppo tardi, quando il peggio per il regime sembra passato – ma dovrebbe riflettere anche sui suoi errori. L’ammirazione per il coraggio della carismatica guida della protesta, Aung San Suu Ky, e per i monaci buddhisti è fuori discussione. La maggioranza della popolazione è con loro. Tuttavia da vent’anni non ottengono nulla: non solo per la forza brutale della repressione, ma anche perché si ostinano a commettere gli stessi errori.
L’opposizione birmana è disunita. E i generali post-comunisti hanno sempre vinto usando una strategia antica come il mondo: se gli oppositori sono divisi, dividiamoli ancora di più. Da quando è andata al potere con il colpo di Stato del 1962, prima e dopo la ristrutturazione del regime del 1988-1990, la banda di generali comunisti che opprime la Birmania ha dovuto fare i conti con due nemici: l’opposizione democratica di etnia birmana, che ha il suo centro a Rangoon ed è raccolta intorno alla Lega per la Democrazia di Aung San Suu Ky e ai grandi monasteri buddisti, e l’opposizione etnica. Sia la monarchia che ha unificato la Birmania nell’undicesimo secolo, sia gli inglesi che l’hanno controllata dal 1885 al 1947 hanno esercitato un controllo poco più che nominale sulle zone abitate da minoranze etniche non birmane, che costituiscono l’ottanta per cento del paese e ospitano il quaranta per cento della popolazione. Il fatto che gli inglesi abbiano arruolato nel loro esercito soprattutto esponenti delle minoranze, meno interessate all’indipendenza dei birmani, e che alcune etnie minoritarie come i Karen al Sud e i Kachin al Nord si siano convertite in massa al cristianesimo ha acuito i contrasti rispetto all’etnia maggioritaria birmana.
Il movimento che ha portato all’indipendenza, guidato da Aung San (il padre di Aung San Suu Ky, assassinato nel 1947), aveva una classe dirigente di etnia birmana e un’ideologia nazionalista riassunta nello slogan della Birmania “una e indivisibile”. Si affermò venendo a patti con alcune minoranze, promettendo a tutte l’autonomia e una possibile futura indipendenza agli Shan (di etnia cinese, rafforzati da migliaia di profughi anticomunisti venuti dalla Cina e che controllano tradizionalmente il lucroso traffico dell’oppio) e ai Karenni (che occupano la regione che divide gli Shan dai Karen). Ma queste promesse non furono rispettate né dal governo democratico né da quello comunista, generando una dozzina di guerriglie separatiste che l’attuale regime ha sconfitto quasi ovunque ma che continuano a covare sotto la cenere.
La saldatura fra opposizione democratica e insorgenze etniche significherebbe la fine del regime post-comunista. Ma l’opposizione democratica, che si considera erede di Aung San e del suo modello di Birmania “una e indivisibile”, non ha intenzione di allearsi con i separatisti. Inoltre nel movimento democratico birmano sono decisivi (lo abbiamo visto) i monaci buddhisti, che diffidano dei leader cristiani delle insorgenze Kachin e Karen, per non parlare di quelli musulmani che alimentano il separatismo ai confini con il Bangladesh, più o meno invisi a tutti. Birmani contro minoranze etniche, buddhisti contro cristiani, buddhisti e cristiani contro musulmani. Finché tra i nemici del regime birmano permangono queste divisioni – certo non facili da superare – i generali rimangono al potere. Il vecchio motto “divide et impera” funziona anche a Rangoon.