Abbiamo già dimenticato la Birmania? Dopo le dimostrazioni, l’invito a esibire indumenti rossi per solidarietà con i monaci e qualche minuto di gloria sulle prime pagine dei giornali, la repressione sta lentamente scivolando nelle pagine interne. Poi sparirà del tutto. L’orrore del carcere, della tortura e della fame quotidiana di un regime post-comunista non fa notizia. L’agenzia cattolica Asianews è rimasta quasi sola a descrivere «la rabbia e la delusione» dei birmani che si sentono presi in giro dalle istituzioni internazionali. L’inviato dell’Onu, l’ex ministro degli Esteri nigeriano Ibrahim Gambari, è stato trattato più o meno come una pezza da piedi dal sanguinario generale Than Shwe. Dimostrando di non temere le Nazioni Unite i generali post-marxisti di Rangoon hanno continuato con una repressione peggiore di quella del 1988. Secondo il governo birmano la repressione ha fatto «solo» venti morti, ma le ambasciate straniere lasciano filtrare da Rangoon cifre ben diverse, e secondo le organizzazioni umanitarie sono «sparite» almeno seimila persone, di cui 1.400 monaci.
Certo, c’è stato qualche appello, qualche blanda minaccia di sanzioni. Ma gran parte dell’Occidente si è ritirato in buon ordine dopo che con il regime si sono schierate la Cina e la Russia. La Cina ha fame di petrolio, e le serve anche quello birmano. Del resto, la giunta militare di Rangoon si è tutta formata in un partito che cantava le lodi di Mao Tze-Tung. La Russia non ha interessi significativi in Birmania, ma da qualche tempo ogni scusa per dar fastidio agli Stati Uniti è buona. In più, se si comincia a parlare di dittature, Putin teme che qualcuno gli chieda conto di quella, a lui fedelissima, della Bielorussia, l’ultimo regime dittatoriale europeo, un coltello insanguinato piantato nel cuore del nostro continente.
Resterebbero i marciatori della pace e le sinistre umanitarie, che dopo avere versato una lacrima per i monaci birmani sono presto tornate alle loro cause preferite. Ad Assisi si sta per marciare citando sì la Birmania ma insieme ai soliti palestinesi, così mettendo sullo stesso piano la democrazia israeliana che cerca di proteggersi dal terrorismo e la macabra dittatura di Rangoon. Né si è visto per la Birmania nulla di simile alle manifestazioni oceaniche che i pacifisti senza se e senza ma non dimenticano mai d’inscenare quando si tratta di attaccare gli Stati Uniti. E ai monaci e ai laici birmani, in via di sparizione anche dai telegiornali, rimangono appunto solo gli Stati Uniti, l’unico Stato che continua a fare pressioni sul regime ed è pronto a imporre sanzioni unilaterali. Da solo, però, Bush può fare ben poco. E tra quelli delle bandiere arcobaleno è già scattato il riflesso condizionato secondo cui ogni causa sostenuta da Bush deve avere comunque qualcosa di sbagliato.