La Birmania (il nuovo nome imposto dal regime, Myanmar, è inviso alla popolazione e Bush giustamente si rifiuta di usarlo) è stata per decenni nei libri gialli la terra del mistero per antonomasia. Bastava introdurre nella trama una spada birmana o un veleno birmano per spaventare i lettori. Uno dei più geniali creatori di gialli del XX secolo, Léo Malet (1909-1996), confessava di avere dato al proprio investigatore privato il nome Nestor Burma proprio perché certo dell’effetto che la parola Burma, Birmania, avrebbe immediatamente creato fra i lettori.
La Birmania rimane poco conosciuta ancora oggi, né aiutano i telegiornali e i talk show. Abbiamo sentito in Italia telegiornali e trasmissioni di ogni tipo parlare della “dittatura” birmana senza spiegare quale sia la sua matrice ideologica. Un telespettatore distratto potrebbe pensare che si tratti della riedizione della dittatura filippina di Ferdinand Marcos (1917-1989). La reticenza deriva forse più dalla situazione politica italiana che da quella birmana. Finché c’erano l’Unione Sovietica e il Muro di Berlino i generali che governano la Birmania dal 1962 si sono proclamati orgogliosamente comunisti e hanno infarcito i loro proclami sulla “via birmana al socialismo” di citazioni di Karl Marx e Lenin. Tra il 1988 e il 1990 si è compiuta – in evidente simmetria con quanto avveniva in Europa – una transizione dal “Partito del Progetto Socialista” al “Consiglio per la Legge e l’Ordine”, dal 1997 “Consiglio per la Pace e lo Sviluppo”. Sono cambiati, tuttavia, quasi solo i nomi. Le gerarchie del partito sono rimaste sostanzialmente le stesse. Se il vecchio presidente, il generale Ne Win (morto nel 2002), è stato messo a riposo, l’attuale capo dello Stato, il generale Than Shwe, aveva già guidato come disciplinato militare marxista la repressione dell’insorgenza democratica del 1988. Quasi tutti i ministri sono militari e facevano già parte del partito al potere quando questo si dichiarava apertamente comunista. L’unica modifica degli anni 1990 è stata l’apertura alle multinazionali straniere, ma questa c’era e c’è in altri Paesi comunisti. La repressione della società civile continua a essere feroce, e l’economia è ampiamente nelle mani dello Stato. Un regime postcomunista, dunque: ma “post” solo nel senso che si vergogna della parola “comunismo”, non della sostanza. In Italia ha interesse a tacerne la matrice marxista chi non ha neppure il pudore di vergognarsi della parola.