Harry Potter and the Deathly Hallows si apre con un consiglio dei perfidi Mangiamorte che decidono di attaccare Harry Potter quando, avvicinandosi il diciassettesimo compleanno, dovrà lasciare la casa degli zii e perderà la protezione di un incantesimo creato da sua madre prima di essere uccisa dal capo dei cattivi, l’Oscuro Signore Lord Voldemort. Ma, nonostante scenda in campo Voldemort in persona, l’agguato non riesce. Come il cacciatore sfortunato che dà sempre la colpa alla doppietta, l’Oscuro Signore si convince che non può essere un semplice ragazzo a batterlo ma è la bacchetta magica che non va. Comincia allora un vero e proprio giro del mondo alla ricerca della bacchetta perfetta e imbattibile, che si conclude solo alla fine delle oltre settecento pagine del libro. Ma, mentre Voldemort si occupa di bacchette, Harry Potter e i suoi inseparabili amici Ron ed Hermione scovano e distruggono uno dopo l’altro gli horcruxes, che come si sa dal volume precedente sono oggetti magici in cui l’Oscuro Signore ha nascosto pezzi della sua anima per assicurarsi l’immortalità. A ogni horcrux distrutto Voldemort perde una vita, come capita in ogni videogame che si rispetti. Alla fine sarà game over per il più cattivo del reame? O per Harry Potter, o per tutti e due? Non lo riveliamo, per rispetto della sorpresa, lasciando come indizio la frase per una volta esplicitamente biblica, tratta da 1 Corinti 15 “L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” che Harry trova in una vecchia abbazia e di cui capirà la relazione con la sua missione solo nelle ultime pagine.
Con l’uscita di questo settimo volume si conclude la saga di Harry Potter, iniziata dieci anni fa nel 1997. Con quattrocento milioni di copie vendute i libri della Rowling hanno dato un nuovo significato alla parola best seller: solo la Bibbia e il Corano hanno venduto di più. Un fenomeno di queste dimensioni non si spiega solo con la pubblicità, cospicua per gli ultimi volumi ma assente per il primo, che l’editore Bloomsbury stampò all’inizio in sole mille copie. Da un esame dello stato della cultura popolare nel 1997 si può invece discernere una domanda, cui la Rowling ha risposto con una tempestiva offerta. La magia era nell’aria. Lo era da sempre nella letteratura per bambini non c’è fiaba senza magia ma alla fine degli anni 1990 il tema del ragazzo “moderno” che sgomina i cattivi servendosi di poteri magici era già entrato nella cultura audiovisiva. Molti cartoni animati giapponesi mettono in campo poteri magici. Il 1997 è l’anno di Harry Potter, ma anche quello dell’inizio di Buffy e della firma del contratto per Streghe: due serie dove ragazze dotate di poteri magici affrontano vampiri e demoni e che faranno la storia della televisione americana. I bambini e i ragazzi allevati a Dragon Ball dove la magia è dovunque, proposto in televisione in Giappone dal 1984 e in Occidente dal 1989 non hanno avuto difficoltà a entrare nel mondo di Harry Potter.
Tutt’altra questione è il giudizio su Harry Potter. Possiamo distinguere fra forma e contenuto. Da un punto di vista letterario, molti hanno accostato la Rowling a Lewis e a Tolkien, di cui in qualche modo riprende la tradizione tipicamente inglese. Ma la profondità con cui la lotta fra il Bene e il Male è rappresentata nel Signore degli Anelli o nelle Cronache di Narnia non ha paragone con gli schemi, assai più semplici (e con adolescenti psicologicamente meno credibili a mano a mano che crescono), dei romanzi della Rowling. Ma la scrittrice è figlia del suo tempo. Nata nel 1965, si è formata in quegli anni di fine Guerra Fredda che nella sua recente monumentale storia dei rapporti fra l’Europa e la religione lo storico cattolico Michael Burleigh chiama “l’epoca delle trombette giocattolo”, in cui la tragedia del Novecento degrada in farsa. Da questo punto di vista, la Rowling non è lontana per mentalità da molti suoi giovani lettori, che vanno a vedere al cinema Il Signore degli Anelli ma posano i libri di Tolkien dopo qualche pagina perché li trovano troppo difficili.
Qualunque discussione del contenuto di Harry Potter non può ignorare le critiche di ambienti religiosi, che vi hanno visto un potenziale veicolo di diffusione di magia e di occultismo: un’autrice tedesca, che ha ripreso queste obiezioni, ricevette a suo tempo perfino una lettera d’incoraggiamento dal cardinale Ratzinger. Personalmente, fin da un articolo apparso su Avvenire nel 1999, ho sempre rispettato queste critiche, ma ho affrontato il problema da un diverso punto di vista. Se cadesse su una tabula rasa, o fosse offerto a ragazzi del 1930, Harry Potter farebbe in effetti sensazione per l’idea relativamente nuova che la magia possa essere praticata da adolescenti che vivono nel mondo concreto di oggi (o quasi) e non nel mondo parallelo delle fiabe. Quanto a riferimenti impliciti al cristianesimo, emergono solo in questo settimo volume. Ma, appunto, Harry Potter è un prodotto di oggi, non del 1930: di un’epoca in cui la cultura popolare di cui bambini e ragazzi si abbeverano ogni giorno, dai fumetti alla televisione, era già letteralmente piena di ragazzini che usano la magia ben prima dell’irruzione della Rowling.
La critica, allora, non deve forse portare tanto su Harry Potter che ha segnato un’epoca, e ha almeno insegnato a una generazione il valore della lettura come alternativa alla TV ma su tutta l’“epoca delle trombette giocattolo”, in cui forse sarebbe stato impossibile che nascesse un Tolkien. Che sia nata una Rowling che propone almeno qualche semplice valore morale è già un piccolo miracolo. Certo, dal punto di vista dei contenuti per un cattolico c’è di meglio. La serie televisiva Joan of Arcadia dove una ragazzina affronta il male quotidiano guidata da misteriose apparizioni di Dio e i romanzi e telefilm Le inchieste di Padre Dowling gialli classici, ma dove ogni tanto entrano in scena angeli e demoni sono due esempi di prodotti cattolici di eccellente fattura, che però non hanno avuto molto fortuna in Italia. Senza paragonare Barbara Hall (la neo-convertita al cattolicesimo creatrice di Joan of Arcadia, la cui teologia qualche volta lascia a desiderare) a un eminente filosofo cattolico come Ralph McInerny, amico di Benedetto XVI e per cui le storie di Padre Dowling costituiscono un intermezzo tra un’opera e l’altra su san Tommaso, non si può che lamentare il fatto che il mondo cattolico di rado valorizzi i rari contributi di qualità che riesce a dare alla cultura popolare.