E venne il giorno dell’uscita del settimo e ultimo volume della saga di Harry Potter. Lo ho letto tutto di un fiato, ma prometto di non svelare come va a finire.
Il titolo “Harry Potter and the Deathly Hallows” fa riferimento a tre “regali della Morte”, doni che la Morte fa a tre fratelli che la hanno sfidata: una bacchetta magica, una pietra che promette di resuscitare i morti e il mantello dell’invisibilità che chi ha letto i volumi precedenti sa essere già in possesso di Harry Potter. Da questa vecchia storia verso cui attira la sua attenzione nel testamento Silente, l’amato maestro ucciso al termine del sesto volume Harry Potter finisce per essere ossessionato, dedicando alla ricerca dei due “deathly hallows” che gli mancano forse più tempo di quanto dovrebbe, impegnato com’è con gli amici Ron ed Hermione nella lotta finale contro l’Oscuro Signore, Lord Voldemort.
Tre temi dominano i trentasei capitoli del romanzo. Il primo è quello degli oggetti magici: non solo i “regali della Morte” ma le bacchette magiche per molte delle oltre settecento pagine Voldemort gira il mondo, uccidendo e torturando, alla ricerca della bacchetta perfetta che gli permetterà di sconfiggere Harry e gli “horcruxes” che, come i lettori sanno dal precedente sesto volume, sono cose e anche esseri viventi (fra cui un serpente) dove l’Oscuro Signore ha disseminato frammenti della sua anima per assicurarsi l’immortalità. La missione lasciata da Silente ad Harry è di scovare e distruggere gli “horcruxes”. E tuttavia la lezione del libro è che non sono gli oggetti a vincere le battaglie fra il Bene e il Male, ma le persone: non esiste la bacchetta magica perfetta, ogni bacchetta vale soltanto quanto chi la usa. Il messaggio finale di attualità è che non ci salva la tecnologia (neppure quella magica) ma solo la nostra capacità di usarla con intelligenza e coraggio.
Il secondo tema che, più che dalle fonti consuete Tolkien e C.S. Lewis, la Rowling riprende ampiamente dall’Orwell di “1984” e “La fattoria degli animali” è la corruzione del potere: il Ministero della Magia, il giornale “La Gazzetta del Profeta” e l’amministrazione della scuola di Hogwarts (una volta morto Silente, che ne era il preside) cadono quasi senza lottare nelle mani di Voldemort e s’impegnano prima a discriminare, poi ad arrestare e uccidere i maghi che non sono “di sangue puro”, non sono cioè nati da genitori maghi. La metafora del nazismo e di altri totalitarismi è inequivocabile. E, poiché i maghi “purosangue” inebriati di potere organizzano attentati anche contro gli inglesi che ignorano l’esistenza del mondo parallelo della magia, non manca neppure il riferimento al terrorismo.
Il terzo tema in un volume che per la prima volta nella saga usa simboli e motti almeno implicitamente cristiani è il valore redentivo delle molte sofferenze che attendono Harry Potter, che qui, come altri eroi della cultura popolare (così Superman nel film del 2006 “Superman Returns”), diventa una figura di salvatore che è pronto a morire per la salvezza degli altri. Morirà? Non morirà? Come promesso, non roviniamo la sorpresa ai futuri lettori ma lasciamo un indizio, una frase della Prima lettera ai Corinti che Harry Potter trova su una pietra tombale in una vecchia abbazia: “L’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la morte”. A fronte però di letture e recensioni frettolose, precisiamo che non è esatto dire, come molti hanno scritto, che a un certo punto del libro (ma prima della lotta finale contro Voldemort) Harry Potter muore e risorge, il che spingerebbe l'analogia con la redenzione cristiana davvero troppo oltre. Quella che capita a Harry Potter è tecnicamente una near-death experience, anche se gli ci vuole un po' a capirlo. Ma al termine di una lunga spiegazione lo spirito di Silente conclude: "Siamo dunque d'accordo sul fatto che non sei morto".
Solo nelle ultime pagine Harry capirà in che senso la frase di San Paolo si applica a lui, e a una missione che nella mente di una generazione di giovani lettori dopo quattrocento milioni di copie dei libri della saga vendute vivrà per sempre.