Benedetto XVI ha presentato il Motu proprio con cui liberalizza la celebrazione della Messa con il rito detto di san Pio V, in lingua latina e secondo la versione del 1962 dell’antico Messale. Il documento era atteso da mesi e non è un mistero per nessuno che fosse avversato da alcune conferenze episcopali - anzitutto quella francese - che vi vedevano il rischio di «dare ragione» ai seguaci dello scisma di monsignor Marcel Lefebvre. In realtà, contrariamente a quanto si legge in questi giorni, non è affatto probabile che in seguito al Motu proprio i seguaci del defunto monsignor Lefebvre tornino all’ovile. I problemi che li dividono da Roma non riguardano solo la liturgia. Essi rifiutano anche l’ecumenismo e gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa, temi che a Benedetto XVI sono carissimi e su cui il Papa non intende transigere.
Ma, se non si tratta di una strategia per recuperare l’insidioso scisma lefebvriano, perché Benedetto XVI liberalizza la Messa di san Pio V? Il problema riguarda un tema cruciale del pontificato di Joseph Ratzinger: l’interpretazione del Concilio Vaticano II. Come illustrato già nei suoi primi auguri di Natale alla Curia romana, del 22 dicembre 2005, il Papa ritiene che uno dei maggiori problemi della Chiesa sia l’esatta comprensione del ruolo del Concilio. Benedetto XVI distingue fra i documenti del Vaticano II - che ritiene fondamentali per definire il ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo, specie in tema di rapporti con le altre religioni e con gli Stati - e la loro interpretazione «postconciliare». Con chi, come i «lefebvriani», rifiuta i documenti del Concilio i margini di dialogo rimangono molto stretti. Ma del tutto diverso è il discorso che riguarda il cosiddetto «postconcilio». Qui, secondo il Papa, si sono scontrate due linee di interpretazione del Vaticano II: «due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra ha portato frutti». Quella che ha creato confusione, secondo Benedetto XVI, è l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» secondo cui il Concilio è stato una rivoluzione nella storia della Chiesa che ha fatto diventare fuori moda, reazionario e inutile tutto quanto esisteva prima. Al contrario, per portare frutti il Vaticano II deve essere interpretato non come una rottura, ma in continuità con tutto il magistero precedente. La descrizione dei tempi del postconcilio da parte di Benedetto XVI è a tinte fosche. Il Papa paragona il caos di quegli anni a una battaglia navale di notte su un mare in tempesta.
Ora, la bandiera di chi interpreta il Concilio secondo il paradigma della «rottura» è la riforma della liturgia (fatta non dal Concilio, ma dopo il Vaticano II) e soprattutto le restrizioni che vietano o rendono molto difficile celebrare la Messa di san Pio V. Infatti, se il Concilio rompe con tutta la tradizione precedente, chi resta attaccato al simbolo di quella tradizione - la Messa antica in latino - è fuori della Chiesa e deve essere isolato e perseguito. Ma se invece il Vaticano II va interpretato in continuità con il passato, allora anche la Messa antica può coesistere con la nuova. Il Motu proprio di Benedetto XVI toglie allora ai sostenitori dell’«ermeneutica della discontinuità» la loro bandiera, e avvia una stagione dove - senza indulgenze per chi rifiuta i documenti del Vaticano II - la loro interpretazione in continuità con la tradizione diventa normativa.