PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE
La seduta comincia alle 9,35.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
Audizione di esperti.
PRESIDENTE. Rinnovo il ringraziamento per essere qui presenti. Ricordo che stiamo conducendo in porto l'indagine conoscitiva sulla libertà religiosa il cui relatore è il professor Zaccaria che tutti conoscete. Abbiamo svolto una serie di audizioni che vengono concluse dall'incontro di oggi. Abbiamo ascoltato la Conferenza episcopale e coloro che sono esponenti di culti che hanno stipulato le intese; abbiamo ascoltato gli esponenti della Consulta islamica presso il Ministero dell'interno ieri pomeriggio in un incontro che si è rivelato molto interessante e che avrà un seguito perché non siamo riusciti a concludere tutte le questioni che avremmo dovuto affrontare. Ieri pomeriggio abbiamo ascoltato gli atei razionalisti e oggi concludiamo con un incontro con i maggiori esperti del nostro paese su questa materia. Vi sarà una breve introduzione che verrà fatta dal professor Zaccaria che esporrà in maniera sintetica il punto in cui siamo arrivati e le questioni principali che sono da affrontare.
Ricordo che, dopo l'intervento del professor Zaccaria, potranno svolgersi gli interventi e siete tutti sollecitati a farlo, con una breve interruzione dei lavori che avverrà intorno alle 13, e che riprenderanno nel pomeriggio, se sarà necessario.
ROBERTO ZACCARIA. Ho avuto l'incarico dal presidente di far precedere le varie audizioni che sono state ricordate da una brevissima introduzione, che nella mia intenzione avrebbe dovuto essere più o meno la stessa nelle varie circostanze per dare l'opportunità di presentarci con un'unica faccia. Naturalmente, dopo la seconda volta in cui avevo espresso più o meno le stesse cose, sono venuto a noia a me stesso e soprattutto ai miei colleghi parlamentari,che oggi non sono molto numerosi ma che arriveranno, i quali hanno seguito le audizioni e che le seguiranno comunque nel resoconto scritto.
Vorrei anche dire che da un certo punto di vista non vi sarebbe da dire molto a voi sul merito delle questioni, visto che già conoscete la documentazione di base, compresa la mia relazione alla quale mi permetto di rinviare, con la sola avvertenza, che però è tipica di un professore universitario, che oggi a distanza di due mesi l'avrei scritta in modo diverso, ma anche questo è un fatto normale di cui non vi sorprenderete.
Non vi sarebbe bisogno di dire che siamo giunti alla terza legislatura di lavoro su questa legge, né saprei dire se questo sia un bene o un male; certamente, le difficoltà aumentano, basta leggere i giornali che, anche se non descrivono i lavori svolti e l'intensità che vi è stata nel corso delle audizioni avute, a volte cadono in semplificazioni, volontarie o involontarie: basterebbe citare il problema della poligamia per capire come, in qualche modo, in tali semplificazioni cadano giornalisti e giornali anche di grandissimo rilievo nazionale.
Non vi sarebbe neppure bisogno di dire - anche se poi lo dico - che l'impianto della legge risale nel tempo, al 1990, come molti di voi hanno già detto: è un fatto obiettivo, di cui ne sono per primi consapevoli i presentatori delle proposte, gli onorevoli Boato e Spini, che, con la loro encomiabile iniziativa, hanno però inteso far partire il lavoro dal miglior punto di arrivo parlamentare. Da questo punto di vista, voglio ringraziare il collega professor onorevole Maselli che per primo ha dato il via a questo tipo di lavoro molto significativo e ringrazio anche gli onorevoli Bondi e Paoletti Tangheroni che lo hanno seguito nella passata legislatura. Resto ottimista: occorre dirlo altrimenti, dopo avere detto queste cose, potrebbe sembrare il contrario!
Dico subito - questo è importante soprattutto nei vostri confronti - che si tratta di una legge di attuazione costituzionale, non perché non lo sappiate ma perché è chiaro che ci muoviamo all'interno del perimetro fissato dai principi costituzionali. In Parlamento sarebbe possibile anche fare una cosa diversa, cioè aggredire o rivisitare i principi costituzionali, ma non è questa la nostra intenzione. È una legge di attuazione costituzionale, una legge ordinaria - ne abbiamo parlato anche in un'altra sede - che però si colloca in tale particolare prospettiva. E ciò mi sembra che circoscrive, anche se per modo di dire, il perimetro della nostra attività.
Aggiungo che tale legge non tocca in alcun modo la disciplina della Chiesa cattolica, così come non tocca le intese che già sono state realizzate ed approvate dal Parlamento (ex articolo 40 che precisa tutto questo). Sul problema delle intese - abbiamo sentito in questa sede le confessioni che le hanno stipulate e che sono in attesa dell'approvazione parlamentare - vi è un problema delicato che forse la legge dovrebbe chiarire, e cioè il fatto che non sia possibile che un'intesa
venga sostanzialmente stipulata dal Governo e che poi si fermi in questa zona «limbo» tra il Governo e il Parlamento o nel Parlamento stesso, poiché vi sono situazioni che sono veramente difficili da definire.
Si è chiarito - lo dico incidentalmente ma il concetto mi sembra chiaro - che non esiste un diritto all'intesa, nel senso che proprio perché è un'intesa essa deve essere un atto bilaterale che lo Stato fa con alcuni soggetti che lo richiedono. Abbiamo appreso ieri che anche gli atei avevano richiesto un'intesa nel passato, anche se a me non pare molto plausibile che possa esservi, perché nel concetto previsto dall'articolo 8 della Costituzione (mentre l'articolo 19 fa riferimento certamente alle libertà positive e negative) ci si riferisce alle confessioni religiose. Rimane comunque una opinione, anche se forse è condivisa.
Tale legge si muove dunque nei binari indicati dagli articoli 3, 8, 19 e 20 e naturalmente delle altre norme costituzionali che, in qualche modo indirettamente, anche se non esplicitamente, toccano anche il fenomeno religioso, in particolare gli articoli 17 e 18. Riguardo ai vantaggi - ecco perché posso essere ottimista -, in questi anni, mentre il problema, spostandosi nel tempo tra le varie legislature, è diventato via via più complesso anche per l'emergere di fenomeni nuovi rilevanti, vi è stata una ricca giurisprudenza costituzionale e di questa potremo tenerne conto; vi sono state anche norme internazionali importanti che si muovono nella traiettoria dei nostri principi costituzionali, a volte aggiungendo elementi significativi.
Sul piano della giurisprudenza costituzionale è importante soprattutto il richiamo al principio della laicità dello Stato, principio che è stato costantemente richiamato dai nostri
Presidenti della Repubblica, come supremo dell'ordinamento e che, come tale, diventa parametro anche in riferimento alla valutazione di fonti, come i Patti lateranensi.
Questo principio ispira l'impianto dell'intera legge e a tale proposito penso che dovremmo richiamarlo in modo esplicito nell'articolo 1 della legge stessa. Su questo punto vorrei sentire la vostra valutazione, anche se penso che potrebbe essere già una opinione condivisa.
La proposta di legge in esame ha il primo e dichiarato obiettivo di abrogare la legislazione del '29 e '30 sui culti ammessi, e di dare quindi piena effettività ai principi costituzionali. Aggiungo, come ho già fatto in altre introduzioni, che forse bisognerebbe salvare, (questo è un suggerimento fatto dal professor Casuscelli), alcune disposizioni, quale quella che afferma che la discussione in materie religiose è pienamente libera. Io l'ho citata più volte, mi ha colpito, e credo che l'abrogazione della legge non ci impedisca di recuperare, se del caso (se ciò non fosse già chiaro dal resto), disposizione isolate di questo tipo. L'obiettivo però è certamente nitido. Qualcuno, tra di loro...
MARCO BOATO. Il primo comma del 21...
ROBERTO ZACCARIA. Non c'è il minimo dubbio. Però il problema, con questa motivazione; prova troppo, perché si potrebbe dire: abroghiamo solo la legge sui culti ammessi e non aggiungiamo altro. La proposta di legge potrebbe soltanto limitarsi a questo obiettivo. Non so se alla fine, di fronte alle difficoltà, dovremmo limitarci a questo. Devo dire però che dalle audizioni abbiamo capito che alcuni ministri del culto, ad esempio, ci tengono molto addirittura al riconoscimento di ministro del culto secondo la legge del '29. Essi mi hanno mostrato, con una certa soddisfazione, il documento che li
riconosce a certi fini. Ad esempio, nelle carceri, non potrebbero entrare se non avessero documenti di questo tipo.
La proposta di legge in esame ha pure l'obiettivo, vorrei dire il secondo obiettivo, di dare una disciplina generale della libertà religiosa, un trattamento più garantito del fenomeno religioso in generale, in modo da rendere (questo è un passaggio delicato ma significativo, perché è emerso un po' in tutte le audizioni), meno urgente e necessario il problema delle intese. Si tratta, come dire, di sdrammatizzare il problema delle intese. Esse però resteranno comunque una possibilità per disciplinare in modo particolare determinati e singoli istituti. Oggi le intese in parte si ripetono nei loro contenuti. Se noi potessimo trasferire nella proposta di legge il contenuto che si ripete (e in parte questo succede), è chiaro che le intese diventerebbero necessarie soltanto per certi istituti. Probabilmente bisognerebbe disincentivare la corsa alle intese in relazione ai motivi di carattere finanziario, ed economico, perché questi aspetti dovrebbero forse essere inseriti nella parte generale, in modo che le intese sussistano solo per certi particolari istituti, ad esempio un particolare regime del matrimonio agli effetti civili, fermo restando che ci dovrebbe essere una disciplina generale.
Un'altra cosa di carattere generale che, come dire, rappresenta l'obiettivo della proposta di legge, è che la società alla quale guarda questa proposta di legge, è una società plurale, caratterizzata da etnie, culture, religioni diverse. Questo io l'ho detto e ripetuto. Nelle prime audizioni non ha suscitato molto interesse, però in quella di ieri con l'Islam, si. Allo stesso traguardo, in qualche modo, di questa società plurale guardano anche altre leggi che sono all'attenzione del Parlamento: quella sulla cittadinanza e quella sull'immigrazione. I fenomeni più recenti legano molto l'immigrazione alla libertà
religiosa e naturalmente anche alla cittadinanza. Non dico nulla sul merito della proposta di legge; vorrei tuttavia soffermare l'attenzione su sei punti che non ho sollevato nelle riunioni precedenti, e che però vorrei fare con voi, perché si tratta di questioni sulle quali un conforto, anche critico, mi servirebbe. E servirebbe credo alla Commissione.
L'impianto generale della proposta di legge mi pare il seguente, anche se non è esplicitato (potrebbe forse essere necessario farlo): in primo luogo, un regime generale, valevole per tutti gli individui, e per tutte le confessioni, religiose. Si tratta come dire, della norma generale. Essa mi pare che emerga soprattutto dalla prima parte della proposta di legge. Segue poi un regime in qualche modo valevole per le confessioni con un ministro di culto riconosciuto. Mi riferisco all'articolo 10, terzo comma della proposta Spini. Vi può essere però il caso (d'altra parte questo ci è stato detto), che ci siano alcune confessioni, che non hanno chiesto il riconoscimento della personalità giuridica, ma il cui ministro si trova in questa situazione. Questo emerge dalla legge in via indiretta, ma certamente da questa situazione scaturiscono alcuni trattamenti. Volevo pertanto sottolineare se questa può essere considerata una situazione particolare.
Una situazione più nitida, che le proposte di legge comunque configurano nella loro parte centrale, riguarda un regime valevole per le confessioni che abbiano chiesto il riconoscimento e la personalità giuridica. Anche qui vi sono alcune norme procedurali per ottenere il riconoscimento della personalità giuridica. Vi è poi un ipotetico quarto regime, valevole per le confessioni che abbiano stipulato intese.
Certo, i punti b) e c) potrebbero forse essere assimilati, però certamente si individuano questi livelli, sebbene essi non siano esplicitati così chiaramente nella proposta di legge. Credo però
che questo sarebbe importante sul piano della sistematica, anche perché alcune delle norme che sono nella parte finale, potrebbero forse essere contenute nella parte introduttiva, in quanto vi potrebbero trovare una migliore collocazione proprio perché il regime generale è delineato all'inizio del testo.
Il secondo punto sul quale mi interesserebbe avere una valutazione è il seguente: è il caso di far precedere alla legge, in qualche modo, alcune definizioni di carattere generale? Voi sapete che le normative europee, ma anche alcune leggi più recenti, usano queste tecniche: danno alcune definizioni, e poi non stanno a ripeterle ogni volta. Ad esempio, una cosa molto semplice sarebbe quella che riguarda la locuzione «ministro competente». C'è una specie di paradosso, in quanto nell'articolo 10 si parla di ministro competente, intendendo il ministro del culto, e leggendo non si capisce mai se ci si riferisce al ministro dell'interno oppure al ministro del culto. Per inciso, per quanto riguarda il ministro del culto, ieri qualcuno ci diceva, mi pare l'ambasciatore Scialoja, che nell'Islam il ministro del culto non c'è. Bisognerebbe quindi trovare, sempre sul piano definitorio, un qualcosa che dicesse: «ministro del culto o figura equivalente», perché, se no, voglio dire, si troverebbero in difficoltà oggettivamente alcune religioni.
Sul piano definitorio, la domanda cardine è tuttavia questa: è pensabile una definizione delle confessioni religiose? Cosa si intende per confessioni religiose? Naturalmente, siamo stati vivamente sconsigliati dall'introdurre una definizione di confessione religiosa. La Costituzione parla di confessioni religiose. La Corte costituzionale ha avuto, mi pare, dei dubbi, (mi riferisco soprattutto a Marini, ma comunque a tutti voi), nel dire che le confessioni si possano definire. Certo, se non le definiamo noi, le definisce il giudice, certamente. Questa però
potrebbe essere una strada corretta. Non è che io sia innamorato delle definizioni. In alcuni casi aiutano (ad esempio, capire quali è il ministro di cui si parla, e lo si dice una volta per tutte), in altri casi, possono diventare una sorta di parete di VI grado.
Il terzo punto su cui vorrei soffermarmi è il seguente: questa materia, secondo gli schemi tradizionali, è una libertà tradizionale, è una «libertà da», ma in diversi casi, esaminando alcuni istituti, è emerso abbastanza chiaramente una richiesta che tenderebbe a inquadrare questa libertà nell'ambito quasi dei diritti sociali. So bene che non si può tracciare la distinzione in maniera così netta. Ieri, ad esempio, parlavamo della sepoltura. Il problema è che per certe religioni la sepoltura va fatta con certe caratteristiche, vorrei dire di impianto urbanistico, e cioè l'orientamento dei defunti, delle salme ad esempio. Questo vale per l'Islam e per gli Ebrei, mentre non vale per altre religioni. Certo, voi capite che nel momento in cui si passa a questo tipo di logica, e la legge pone dei vincoli, soprattutto a soggetti della Repubblica (quindi, amministrazioni comunali, ad esempio), di fare cose di questo genere, ne consegue che la proposta di legge comporti quasi sicuramente obblighi di copertura, cosa che invece non era nelle nostre intenzioni.
Nella audizione con gli atei, ad esempio, è emersa quasi una sorta di proposta di riscrittura della proposta di legge. Mentre io pensavo che fossero sufficienti alcune definizioni generali (come oggi già ci sono nella proposta di legge), è venuto alla luce invece, il tentativo, pur legittimo da parte di un gruppo, una associazione, di avere una legge che ponga dei vincoli. Un altro vincolo, ad esempio, è quello conseguente alla richiesta
di poter disporre di un locale per le cerimonie funebri non religiose, o comunque un locale adeguato, cosa che oggi non c'è, e non potrà esservi dappertutto.
Anche questo aspetto, però, pone problemi di oneri finanziari non indifferenti e, andando avanti così, capireste bene le conseguenze.
Più complessi, naturalmente, sono i problemi relativi al matrimonio. L'80 per cento delle discussioni, anche all'interno della Commissione, si riferisce a questo tema. Veramente vorrei il vostro aiuto, non tanto sulla questione del regime optativo. Oggi, sapete che si prevede di leggere i famosi articoli del codice civile facoltativamente al momento della pubblicazione oppure durante il rito religioso. Forse, si potrebbe indicare una sola soluzione, ad esempio, la lettura al momento della pubblicazione, e lasciare, eventualmente, alle intese la possibilità di specificare altri profili.
Ieri, tuttavia, la situazione si è abbastanza complicata. Vorrei aiutare tutti noi a precisare questo aspetto: la legge parla del matrimonio rilevante agli effetti civili. Ad esempio, i musulmani ci hanno spiegato che loro non hanno un matrimonio religioso, ma hanno un matrimonio stipulato dal notaio, spesso in casa: si potrebbe dire che esso ha un valore propriamente civile nel loro ordinamento, ma non nel nostro.
Da questo punto di vista, il presidente stesso ha posto un problema: per il semplice fatto che una confessione che abbia il riconoscimento della personalità giuridica celebri un matrimonio religioso, quello acquista rilevanza? Io avrei dei dubbi e sono dell'avviso che dobbiamo dire, a chiarissime lettere, che il matrimonio che la legge disciplina è quello che ha effetti civili nell'ordinamento. Se viene celebrato un matrimonio puramente religioso, un altro tipo di matrimonio - al riguardo c'è una pluralità di ordinamenti - o anche un
matrimonio poligamico, questo ha rilievo per l'ordinamento italiano sul piano della normativa generale, ma non agli effetti del matrimonio civile.
Su questo aspetto vorrei che ci deste una mano, perché ieri è emerso un po' di tutto. Si tratta di un compito arduo.
Vengo rapidamente agli ultimi due problemi, che riguardano la scuola, perché il presidente, giustamente, mi richiamava ai tempi. Oggi giustamente si parla di scuola, di educazione e di insegnamento agli articoli 4 e 12, che si riferiscono rispettivamente al diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e alle scuole pubbliche. Ritengo che si ponga anche il problema delle scuole confessionali e, probabilmente, questa materia dovrebbe quindi essere arricchita.
Anche in questo caso, dobbiamo precisare che, se la scuola confessionale chiede la parificazione, si possono porre dei vincoli precisi con riferimento al programma scolastico, eccetera. Dopo di che, quella scuola è libera di insegnare la religione che le è propria, anziché quella cattolica. Se non è in ballo la parificazione, la scuola rimane con il proprio ordinamento particolare, perché ciascuno può organizzare corsi di formazione su ciò che vuole.
L'ultimo aspetto riguarda i requisiti per il riconoscimento della personalità giuridica o della qualifica di ministro di culto, ove questo soltanto sia riconosciuto. Il riconoscimento non dovrebbe essere automatico, ma frutto di una decisione, con il parere del Consiglio di Stato, obbligatorio o facoltativo. Credo che i requisiti debbano essere quelli indicati dall'articolo 8, secondo comma, della Costituzione. Qualcuno ha chiesto, limitando la discrezionalità, dei parametri di riconoscimento che tengano conto di altri requisiti. Faccio un esempio più chiaro: la diffusione ad un certo livello di una religione, la sua
presenza sul territorio, eccetera. Questa la domanda - so che non è trascurabile - è l'ultima, quindi, come si dice, in cauda venenum.
PRESIDENTE. Ringrazio molto il professor Zaccaria, che ci ha messo sui binari giusti per operare.
Vorrei ricordare a tutti i colleghi presenti che nella cartella che è stata distribuita c'è una scheda per l'intervento. Chi intende intervenire può compilarla e ci sarà un addetto che passerà a ritirarla.
L'onorevole Zaccaria ci ha fatto il quadro perfetto della questione. Vorrei solo richiamare la vostra attenzione su un aspetto, sul quale egli si è già soffermato. La questione della poligamia, che, apparentemente, può far sorridere, in realtà, costituisce un punto molto delicato nel dibattito parlamentare. Attorno ad esso, infatti, si costruisce l'inaccettabilità o il rifiuto del riconoscimento di alcune confessioni religiose.
Il problema è il seguente: è un nulla giuridico la costruzione di più vincoli paramatrimoniali soltanto davanti ad un'autorità religiosa, oppure tale fenomeno ha comunque qualche peso? Per le persone che li contraggono, sicuramente lo ha. Esse lo contraggono sul territorio nazionale, all'interno di un ordinamento che le lascia libere di farlo?
È un aspetto molto delicato, perché, da un lato, si potrebbe dire che lo Stato deve disinteressarsi di ciò che avviene nel mero ambito religioso. Dall'altro lato, però, si costruiscono rapporti e relazioni che, dal punto di vista dei soggetti coinvolti, sono vincolanti.
È un aspetto sul quale sicuramente discuteremo nell'ambito del dibattito parlamentare. Mi permetto di sottolineare la questione posta dal professor Zaccaria, proprio perché, se lo ritenete, con i vostri interventi potrete dare un contributo.
KHALED FOUAD ALLAM. Vorrei sgombrare il campo da fraintendimenti, perché, sulla faccenda della poligamia, tutti i giornali sono abbastanza in allarme.
Vorrei ricordare che, nel diritto musulmano, il matrimonio non è un sacramento, ma un contratto: pertanto, niente vieta, nella formulazione stessa delle clausole del contratto che prevede il matrimonio, l'inclusione degli articoli del codice civile italiano.
Questo è ciò che hanno fatto alcuni paesi islamici. Ad esempio, la Tunisia nel 1956 ha abolito il regime matrimoniale poligamico, ha cambiato il contratto adulare - così si chiama - e ha introdotto delle norme che vietano la poligamia.
ROBERTO ZACCARIA. È uno Stato che lo ha fatto!
KHALED FOUAD ALLAM. Sì, è uno Stato che lo ha fatto, ma questo non impedisce di riformulare i principi fondamentali. Ricordo che la sharia nel diritto musulmano non è un principio assoluto, ma ha bisogno di una norma che la interpreti. Ciò non impedisce assolutamente di intervenire in questo campo. Deve essere ben capito. Oltretutto, non tutti i regimi musulmani prevedono il regime matrimoniale poligamico nella loro legislazione.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Allam. Do ora la parola a coloro che desiderano intervenire.
MARCO VENTURA, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università di Siena. Signor presidente, credo che la grande difficoltà di metodo, che è testimoniata anche dall'introduzione che abbiamo ascoltato, derivi dal fatto che si contrappongono, ai nostri occhi, due scenari profondamente diversi, che credo noi cultori delle relazioni tra Stato e Chiesa avvertiamo in modo molto netto.
Da un lato, vi è lo scenario della realizzazione dei principi costituzionali e della storia del diritto ecclesiastico italiano, rispetto alla quale questa legge sembra rappresentare qualcosa di assolutamente ovvio e, semmai, in ritardo. Dall'altro lato, vi è un altro scenario opposto a questo, ossia quello delle inquietudini dell'opinione pubblica e quello del dibattito politico e delle questioni sociali da affrontare.
Credo che la grande questione posta da questa legge sia che cosa significa e cosa fa tale legge rispetto a questi due scenari. Su questo aspetto vorrei dare una mia piccola risposta e un mio piccolo contributo, divertendomi a fare una sorta di caricatura di un docente universitario, provando a dare un voto a questa proposta di legge rispetto a questi scenari: la realizzazione dei principi costituzionali, le inquietudini dell'opinione pubblica e i problemi concreti del paese.
Partiamo dai secondi. Quale voto possiamo dare alla proposta di legge in termini di efficacia, di effetti rispetto ai problemi indicati (ad esempio, rispetto a quello della poligamia)?
Anzitutto, non si può asserire che la proposta di legge produca danni. Credo sia scorretto, e non argomentabile sul piano razionale, sostenere che, se la poligamia è il problema (faccio questo esempio), la legge la incentivi e che, se l'estremismo islamico è il problema, la legge lo favorisca. Questa è un'osservazione banale, ma va fatta; e credo che gli esperti debbano pronunciarsi al riguardo.
Allora, il quesito è: produrrebbe effetti positivi, rispetto ai predetti problemi, una legge con questo impianto? Per porre in modo giusto il problema, credo che dobbiamo essere coscienti di quello che una legge generale sulla libertà religiosa può fare. Quindi, occorre dirsi subito che una legge sulla libertà religiosa può intervenire solo in parte. Può intervenire
solo in parte anzitutto attraverso meccanismi di riconoscimento: questo fa, prevalentemente, la proposta di legge, che prova ad includere, a far emergere, attraverso tecniche di riconoscimento, un certo fenomeno. Penso, ad esempio, all'articolo 19 in materia di registrazione nel registro delle persone giuridiche: se uno dei problemi concreti è quello di sapere cosa avviene nell'Islam (si pensi al dibattito sulla costruzione delle moschee), è ovvio che simili strumenti aggiuntivi ci consentono di sapere e creano maggiore trasparenza in alcune dinamiche (in particolare, rispetto a quelle dei flussi finanziari e della fisionomia degli enti).
Ribadisco che l'intervento può essere soltanto parziale. Perché soltanto parziale? Perché il governo del fenomeno - se il punto è il fenomeno - passa, ovviamente, attraverso altre misure. L'esempio della poligamia è, in questo senso, straordinario. Basti pensare al problema in termini di violenza alla donna. Cosa può fare una legge ordinaria rispetto ad un problema del genere? Può porre principi la cui realizzazione è affidata - la proposta evoca continuamente questo aspetto - ad un'ulteriore legislazione di settore ovvero ad interventi di carattere amministrativo, a politiche positive. Questo va detto. È chiaro che se guardiamo all'efficacia della legge a prescindere dalla sua attuazione particolare e diffusa, perdiamo di vista quello che la legge può fare: la legge fa nella misura in cui realizza un intervento necessariamente parziale.
Vi è un altro aspetto da considerare. Non dimentichiamo il problema dei limiti di sovranità. Intendo dire che, con riferimento, ad esempio, al problema dell'Islam, sono decisivi il diritto internazionale privato e la nostra interlocuzione con gli altri paesi in materia di riconoscimento dei matrimoni stranieri, e via dicendo. Tenere conto del limite di sovranità significa che la legge deve essere scritta non soltanto in modo
che le sue disposizioni risultino compatibili con i principi internazionali, ma anche con la consapevolezza dei rischi che si potrebbero correre se ci si avventurasse su un terreno che potrebbe dare adito a pronunce sfavorevoli da parte degli organi giurisdizionali europei. Anche se comprendo la prudenza con la quale si ricorda che la posizione della Chiesa cattolica non è minimamente messa in gioco dalla proposta di legge, non dimentichiamo che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sanzionato l'Italia con riferimento al meccanismo di riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni cattolici concordatari (mi riferisco al caso Pellegrini ed alla sentenza della Corte del 20 luglio 2001).
MARCO BOATO. Sotto quale profilo?
MARCO VENTURA, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università di Siena. Sotto il profilo del diritto di difesa: nel dichiarare l'efficacia della pronuncia di nullità del matrimonio del tribunale ecclesiastico, il giudice italiano non aveva debitamente verificato se il diritto di difesa della ricorrente fosse stato garantito nel processo svoltosi presso tale tribunale.
MARCO BOATO. Grazie.
MARCO VENTURA, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università di Siena. Questo è un elemento da tenere presente. L'esempio ci fa capire che la legge ha un limite di operatività che è ben determinato e ben chiaro e che attaccare la proposta perché non realizza obiettivi che sono oggettivamente fuori dalla sua portata è scorretto sul piano argomentativo.
Se è così, la mia conclusione in ordine al voto da assegnare alla proposta sotto il profilo dei problemi concreti, delle
inquietudini dell'opinione pubblica, è di sufficienza: sufficienza in senso positivo, nel senso che non credo si possa affermare che essa sia suscettibile di produrre effetti negativi (quindi, l'esame è superato: la sufficienza ha questo significato).
La predetta valutazione di sufficienza implica, però, anche un giudizio di non eccellenza della proposta, nel senso che non possiamo illuderci che una legge con questo impianto possa risolvere problemi che sono necessariamente parte di una soluzione più ampia. Da questo punto di vista, un segnale molto positivo sarebbe quello di prendere in considerazione l'ipotesi di istituire un'agenzia, uno sportello, un soggetto che garantisca, in particolare, quei soggetti religiosi che hanno meno forza istituzionale nel far valere le loro esigenze. Sarebbe interessante che l'amministrazione pubblica (un'autorità indipendente, un'agenzia per la libertà religiosa) si occupasse di tali esigenze e desse questo messaggio fondamentale. Essendo il fenomeno religioso trasversale, è necessaria un'istanza unitaria anche di consulenza ai gruppi religiosi. Nella logica di un'emersione del fenomeno, ciò potrebbe anche favorire una consulenza a soggetti che abbiamo tutto l'interesse a promuovere, anche nell'Islam (si tratta di soggetti con minor forza istituzionale che, tuttavia, hanno la necessità di avere una consulenza giuridica).
In secondo luogo, alla proposta di legge va assegnato un voto sulla base di un altro grande parametro, quello della realizzazione dei principi costituzionali (il tema è stato posto dall'onorevole Allam riguardo alla poligamia).
Con riferimento ai principi costituzionali, l'affermazione secondo la quale la legge è ovvia nasconde una potenziale trappola. Sul piano della storia del diritto ecclesiastico italiano
e sul piano dei principi costituzionali, dobbiamo dare un «dieci» alla proposta di legge perché, evidentemente, essa esprime quella storia e la concretizza.
Tuttavia, i problemi sono formulati in modo tale da mutare il quadro a cui siamo abituati. L'esempio classico è quello del matrimonio. Se si tratta di matrimonio religioso, non possiamo toccarlo: non possiamo farlo non soltanto per un principio di laicità, ma anche per un principio di eguaglianza. Infatti, se chiediamo una qualche forma di responsabilità alle confessioni religiose, rispetto al loro matrimonio religioso, come la mettiamo, poi, con tutti gli altri soggetti ai quali analoga responsabilità non chiediamo (a cominciare dalla Chiesa cattolica per quanto riguarda i matrimoni concordatari)?
Al riguardo, poiché si parla molto del problema del matrimonio facendo riferimento alla sua genesi, mentre si parla poco di ciò che fanno i tribunali ecclesiastici (invece, le esperienze nordeuropee ci dicono che il ripudio può essere un problema da considerare), ricordo che l'articolo 14 dell'intesa con le comunità ebraiche prevede, al punto 9, una clausola molto interessante, che è bene ricordare e della quale do lettura: «Resta ferma la facoltà di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi, senza alcuna effetto o rilevanza civile, secondo la legge e la tradizione ebraiche».
Allora - e concludo - il voto alla proposta di legge sulla base dei grandi principi costituzionali (autonomia del religioso, laicità, libertà) è «dieci»; attenzione, però, ad applicare quei principi (in particolare, quello dell'autonomia del religioso rispetto alla specificità del fenomeno Islam), oggi, attraverso questa legge.
PRESIDENTE. Nel ringraziare il professor Ventura, segnalo l'esigenza del rispetto dei tempi. Può accadere - ed accadrà - che vi siano più interventi da parte dello stesso docente;
pertanto, invito i presenti a valutare questo aspetto per consentire il dialogo tra gli esperti e tra questi ed i parlamentari. È questa la ragione per la quale mi sono permesso di segnalare la questione del rispetto dei tempi.
SARA DOMIANELLO, Professore ordinario presso l'Università di Messina. Sarei tentata di agganciare gli argomenti che volevo riferire e che mi ero preparata proprio per evitare di scantonare alle domande che aveva posto il professor Zaccaria, però alcuni dei punti da lui segnalati, in larga misura, corrispondono già alle questioni sulle quali avevo lavorato prima di incontrarci oggi. Vorrei evitare nuove discussioni di carattere generale, non perché non servano, ma perché forse il confronto è più proficuo su singoli punti e sarebbe bene utilizzarlo per valutazioni tecnico-giuridiche. Sono convinta che sia il tempo giusto di fare una legge e di farla bene, e sono convinta, da professore di diritto ecclesiastico, non personalmente, che questa legge, così com'è proposta, possa essere migliorata ed utilizzata adesso nell'interesse della libertà religiosa di tutti in Italia e, quindi, nell'attuazione dell'articolo 19 della Costituzione e nella valenza applicativa di tale articolo in relazione alla libertà religiosa degli individui e alle manifestazioni di questa libertà in tutte le forme, individuali e associate, positive e negative.
Concordo con il professor Vallauri e con gli altri su tanti profili e sulla necessità di considerare, come vedrete per quello che tra poco specificherò, la più ampia nozione possibile di confessione religiosa. Se poi vogliamo premettere, come diceva il professor Zaccaria, delle definizioni statuali dei concetti che la legge userà solo per chiarire meglio qual è la sfera comprensiva a cui si allude con quei termini (confessione, ministro di culto), questo lo potremo fare solo estendendo al massimo la valenza di questi concetti.
Partendo da queste premesse, in tutti gli articoli dei progetti dove è usata l'espressione «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa o credenza», sostituirei l'espressione «diritto di professare liberamente le proprie convinzioni in materia religiosa». Successivamente, lascerò una copia della mia relazione che in questo momento sto sintetizzando. Questa sostituzione renderebbe più chiare due questioni. In primo luogo, chiarirebbe che la riforma si occupa in via principale e diretta del diritto alla libertà religiosa della persona; non si occupa delle religioni, ma riguarda le religioni solo subordinatamente alle preferenze liberamente espresse sul territorio italiano dagli individui. In altri termini, riguarda le confessioni in senso ampio solo in via indiretta e secondaria, e solo in quanto, attraverso l'esercizio della libertà religiosa della persona, si attua o si realizza anche la libertà delle fedi religiose e delle credenze in campo religioso. Se la volessimo premettere, questa è la nozione di confessione religiosa che mi sentirei di sottoscrivere, non solo le fedi religiose, ma anche le credenze in campo religioso, cioè anche quelle che in tale ambito esprimono convinzioni di tipo negativo. Questo è l'ateismo, non è un pensiero filosofico astratto su qualunque tema, è una professione di fede contraria all'utilizzo di certi schemi che sono adoperati da tante confessioni religiose.
Con questo mutamento - cioè, dire diritto di professare liberamente le proprie convinzioni in materia religiosa -, la riforma chiarirebbe anche che essa non riguarda esclusivamente le confessioni e le associazioni aventi una tendenza a caratterizzazione religiosa positiva, ma è destinata a segnare i limiti dell'esercizio della libertà degli individui, anche quelli che si professano atei o agnostici in campo religioso, sia a livello individuale che come aderenti a gruppi istituiti per diffondere queste convenzioni con una tendenza a caratterizzazione
religiosa negativa. Allora, eviterei con estrema cura di limitare la sfera di generale e astratta applicazione dei diritti di libertà garantiti dalle leggi - cogliendo una differenza che in parte esiste tra la proposta Boato e quella Spini - alle sole confessioni aventi personalità giuridica. Questo è il primo punto segnalato dal professor Zaccaria, cioè la sfera applicativa: quindi, secondo me, intanto il soggetto non il gruppo, indirettamente il gruppo, qualsiasi gruppo, positivamente o negativamente esprimentisi.
Non bisogna limitare - in questo caso bisogna stare molto attenti e parlo anche al costituzionalista - l'applicazione di questa nuova legge alle sole confessioni aventi personalità giuridica. Esattamente al contrario ma nella proposta Boato tutto ciò rimane, cioè non si dice nulla delle associazioni di fatto e della loro possibilità di avere un canale di accesso al godimento dei diritti di libertà che questa legge riconosce; si dice qualcosa nel progetto Spini, ma, come vedrete, per esempio, con riferimento al matrimonio i due progetti sono perfettamente identici.
Forse vanamente, ma per darvi la misura dell'importanza tecnica che ho voluto dedicare a questi problemi - proprio per non cadere nelle tante discussioni banali di strumentalizzazione politica che si leggono sui giornali, alle quali un giurista deve resistere con ogni forza -, mi sono permessa di riscrivere l'articolo 11, ma solo per farmi capire meglio nei concetti teorici che difendo. Ho creato 18 articoli, cioè ho realizzato un capo dedicato al matrimonio, ma sono contenute le questioni presenti nell'articolo 11, solo che sono dette chiaramente, con tanto di rubrica, con le precisazioni che servivano e con qualcosa in più, che segna l'evoluzione della problematica non solo dal 1990 ad oggi, ma dal 1948 ad oggi, perché questa è una legge costituzionalmente doverosa dal 1948. Ci siamo
preoccupati di stipulare prima la revisione dei Patti lateranensi e le intese con alcune confessioni, e non ci siamo preoccupati sino al 1990 di capire che, invece, la prima revisione era quella della legge sui culti ammessi, proprio perché riguardava la generalità del fenomeno. Se avessimo fatto tutto ciò, si sarebbe ridotto notevolmente l'uso delle intese: quindi, è tempo di farlo, ma con quest'ottica.
Allora, se utilizzassimo ancora una volta, sbagliando, questa legge con una funzione residuale - perché regolamenti soltanto le confessioni aventi personalità giuridica diverse da quella cattolica e da quelle che hanno l'intesa -, continueremmo a fare lo stesso errore che abbiamo commesso, ma con un'aggravante: quando fu emanata la legge sui culti ammessi in periodo fascista, la Costituzione repubblicana non c'era e quello era uno Stato confessionista. Oggi ci sono gli articoli 2, 3, 8 - primo comma -, 19 della Costituzione e, quindi, abbiamo il dovere costituzionale di emanare questa legge e di farlo in attuazione di questi principi. Allora, questa legge opera di necessità, anche se poi avrà la forma di una legge ordinaria nel procedimento di approvazione, come una legge di rango sostanzialmente costituzionale, in questo siamo assolutamente d'accordo. In altri termini, questa legge è vincolata materialmente, cioè nel suo contenuto, al dovere di rispettare l'attuazione in Italia di quel principio di eguale libertà che l'articolo 8, primo comma, della Costituzione iscrive tra i principi fondamentali chiamati dai padri costituenti a far parte del nucleo forte o nocciolo duro dello specifico modello di forma repubblicana adottato dall'Italia con la Carta del 1948. Quindi, non sono tanto sicura che, se lo volessimo sconvolgere addirittura con una legge ordinaria, ci troveremmo ancora dinnanzi ad una modifica della Costituzione e non a qualcos'altro.
Per ottenere questo risultato - è questa la parte più costruttiva -, è indispensabile usare, oggi, la revisione del diritto unilaterale sui culti ammessi come uno strumento che si faccia carico non di una parte limitata di confessioni religiose, ma del loro più vasto insieme prefigurabile.
Per sintetizzare, sempre che non vi allarmiate subito, affermo che non solo i contenuti di questa legge li possiamo ricavare da quelli ripetuti in tante intese, ma anche dalle intese o dagli accordi raggiunti con la Chiesa cattolica. Stiamo attenti a non tenere ad ogni costo la Chiesa cattolica fuori dall'ambito applicativo di questa legge, fermo restando - l'ha detto Ventura, lo ripeto anch'io - che la Chiesa cattolica manterrà - non potrebbe non farlo - tutto ciò che le è stato riconosciuto da una legge recettiva degli accordi di Villa Madama e dalle intese successivamente stipulate per la sua attuazione. Sarà proprio la Chiesa più favorita, tradizionalmente e storicamente, a fare da battistrada per la libertà religiosa di tutti; quindi, non la possiamo tenere fuori dall'ambito di applicazione di questa legge.
Le garanzie già offerte a questa confessione debbono essere estese a tutte le altre, perché non riguardano una sua specificità e le sono state riconosciute da un paese democratico, non essendo privilegi, ma diritti di libertà. Certo, i rappresentanti della confessione di cui si parla ce le hanno richieste mentre questa stipulava un'intesa, e noi le abbiamo potute riconoscere soltanto ad essa. In ogni caso, le norme della Costituzione ci impongono di estendere a tutte le confessioni queste garanzie: pensate alle norme sul vilipendio, agli interventi della Corte costituzionale in materia penale e urbanistica. In tali casi, la Consulta ha precisato che discriminare ulteriormente le confessioni senza intesa rispetto a quelle con intesa era incostituzionale. Infatti, se il riconoscimento
di un diritto non si giustifica solamente con la specificità della confessione (poligamia, indissolubilità, obiezione totale al servizio militare), noi potremmo anche ricorrere ad un strumento rinforzato quale l'intesa, ma quel diritto è di tutti e le spetta come spetterebbe a chiunque, e non per una sua specificità.
Mi appresto ora a concludere questa parte, riservandomi in seguito - sempre che lo vogliate - di trattare la parte riguardante il matrimonio ed i relativi articoli, di cui ho parlato in precedenza, magari leggendovi solamente le rubriche.
PRESIDENTE. Dopo ci può lasciare i suoi appunti?
SARA DOMIANELLO, Professore ordinario presso l'Università di Messina. Certo.
Passo ora alla parte operativa dicendo soltanto che per raggiungere questo obiettivo, che questa volta meriterebbe dieci, otto, nove, insomma un voto alto anche dal punto di vista dell'efficacia normativa...
PRESIDENTE. Non è frequente questo apprezzamento, per il Parlamento!
SARA DOMIANELLO, Professore ordinario presso l'Università di Messina. Che cosa deve fare questa legge? Da un lato e in prima battuta - come ha segnalato anche l'onorevole Zaccaria -, deve cercare di individuare ed indicare con chiarezza non tanto i soggetti beneficiari dei diritti che essa garantisce, ma le condizioni oggettive in presenza delle quali i singoli si possono considerare legittimati a rivendicare sul territorio italiano l'accesso al godimento di ciascuna di quelle facoltà, di quei diritti.
Dall'altro lato e in seconda battuta, bisogna indicare e differenziare, in funzione dei soggetti o delle agenzie alle quali l'individuo si rivolge, la tipologia dei procedimenti amministrativi o giudiziari attraverso i quali si permetterà di accedere in concreto al godimento di ognuno di questi diritti; ciò, a seconda che l'individuo interessato esprima la propria preferenza per un servizio (socio-assistenziale, educativo, scolastico, sanitario, matrimoniale, e così via) la cui connotazione religiosa non solo sia generica ma venga rappresentata da un tipo diverso di soggetto.
Quindi, l'individuo si può rivolgere ad una confessione religiosa provvista di accordo o intesa stipulati ai sensi degli articoli 7 e 8 e recepiti con legge dello Stato. Tra l'altro, il diritto di richiedere un'intesa è assicurato dagli articoli 7, secondo comma, e 8, terzo comma, della Costituzione. Dunque, una volta stabilite le condizioni oggettive della richiesta - mi riferisco alla specificità, ad un rapporto specifico tra l'ordinamento dello Stato e l'ordinamento di una data confessione su una determinata materia (matrimonio, scuola, poligamia, e così via) -, se la confessione religiosa è provvista di accordo d'intesa, si farà rinvio alla legge per i procedimenti utili ad ottenere il godimento del diritto.
In ogni caso, questa legge generale, che vale per tutti e non solo nei confronti di chi ha raggiunto un'intesa, ha il dovere di prevedere cosa accade se invece l'individuo si rivolgerà legittimamente - l'articolo 19 della Costituzione afferma che si può professare liberamente una fede religiosa - ad una confessione religiosa diversa. Si dovranno così distinguere casi differenti: confessione religiosa provvista di riconoscimento della personalità giuridica civile, che quindi ha ottenuto una sorta di «patente» pur non potendo contare su una legge.
Tutto questo per far operare con effetti civili i propri rappresentanti: che si chiamino ministri di culto o guide spirituali poco importa.
Quindi, in una norma generale potremmo definire il concetto di ministro di culto affermando che attraverso di esso la legge intende colui che è in possesso di una certificazione del gruppo confessionale a cui appartiene e che è abilitato a rappresentarla nel compimento di atti destinati al riconoscimento civile. Se un individuo ha questa abilitazione di fatto e lo può dimostrare, per lo Stato è ministro di culto di una determinata confessione religiosa.
Si può verificare anche l'ipotesi secondo la quale, invece, la confessione religiosa a cui il soggetto si rivolge, o di cui si vuole avvalere per i servizi alla persona, non sia provvista né di accordo né di riconoscimento, ma sia una semplice associazione di fatto, che si autocertifica confessione anche in senso negativo.
Questo tipo di confessione non può essere disconosciuta nell'ordinamento dello Stato, perché gli articoli 7, primo comma, e 8, secondo comma, riconoscono nell'autonomo ordine del sacro massima autonomia. L'unica avvertenza costituzionalmente doverosa quale sarà? Che, se la persona si rivolge ad un'associazione di fatto - sto concludendo - che si autoqualifica o autocertifica confessione, non potendo questo ministro di culto avvalersi né di una legge recettiva di intesa, né del deposito della certificazione del possesso della personalità giuridica da parte della confessione che rappresenta, dovrà accettare di sottoporre ad approvazione ministeriale - il vecchio strumento di cui si parlava e a cui sono giustamente affezionati i cosiddetti culti ammessi dalla precedente legislazione - la nomina dei ministri di culto, con la possibilità che queste associazioni facciano celebrare gli atti civilmente rilevanti
da ministri che provino all'ufficio statale competente di essere in possesso della relativa abilitazione (con la possibilità, ad esempio, di accertare che sono cittadini italiani).
Proporrei, a questo punto, di rubricare i singoli articoli in modo che chi legge capisca chiaramente dove è il diritto di cui si vuole avvalere e come è regolato in Italia, e di introdurre sistematicamente una suddivisione non solo per capi, ma per titoli, capi e sezioni, come ho tentato di proporre per l'articolo 11.
MARCO BOATO. Lei, presidente, sollecita interventi non troppo lunghi, ma chi ci sta dando il proprio apporto ha anche dei testi scritti. Trattandosi di una indagine conoscitiva, le chiedo se lei potesse disporre che i documenti che ci vengono consegnati siano non solo a disposizione presso la segreteria della Commissione, ma anche allegati al resoconto stenografico. Questo permetterebbe a chi interviene anche di fare riferimenti a testi scritti, che comunque sono a disposizione di tutti, non solo dei parlamentari, ma anche di chi legge i resoconti stenografici. Se gli auditi sono d'accordo, ovviamente.
SARA DOMIANELLO, Professore ordinario presso l'Università di Messina. Sono d'accordo. Chiedo la pubblicazione, in calce al resoconto stenografico della seduta odierna, del testo del mio intervento.
PRESIDENTE. La presidenza autorizza la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione depositata dagli auditi. Chiedo formalmente di contenere gli interventi tra i 10 e i 13 minuti.
GIUSEPPE CASUSCELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Milano. Non darò voti di
nessun tipo, però devo esprimere l'apprezzamento per l'occasione, che ci è stata fornita, nella quale è ritenuto utile per il paese il nostro lavoro di ricerca. Cercherò di essere estremamente sintetico.
Non mi occupo del profilo politico ma unicamente del piano giuridico, perché è l'unico nel quale posso avere qualche competenza. Una legge sulla libertà religiosa quali compiti deve avere? L'attuazione - mi sembra ovvio - dei principi costituzionali di laicità, pluralismo confessionale, eguaglianza di tutti, senza distinzione di religione, che, come ha detto il professor Zaccaria, sono presenti. Certo, ognuno di noi ritrova nelle proposte di legge il testo; io però stento a ritrovare le norme degli articolo 3, 7, 8, 19 e 20, così come sono state applicate in sessant'anni di giurisprudenza della Corte costituzionale.
Una legge sulla libertà religiosa ha lo scopo di rendere effettive tutte le libertà coinvolte nell'esperienza di fede, sapendo benissimo che lo scarto tra le libertà affermate e le libertà vissute è sempre amplissimo (nel nostro campo è veramente ampio; nel precedente incontro che abbiamo avuto a Firenze, segnalavo la sentenza del Consiglio di Stato intervenuta, dopo 16 anni, a rimuovere un diniego di costruzione di un edificio di culto per i testimoni di Geova). Mi riferisco a tutte le libertà connesse all'esperienza di fede, positive e negative, ossia le credenze e le convinzioni, secondo una distinzione terminologica diffusa nell'Unione europea, che fa parte dei testi normativi ufficiali normativi dell'Unione stessa. Si tratta di specificarne contenuti, facoltà e garanzie.
Una legge sulla libertà religiosa, in primo luogo, non può non avere la funzione di tutelare le minoranze confessionali, perché la maggioranza ha già la sua forza politica per tutelarsi da sé e ha un blocco normativo specifico che la tutela in
maniera più che ampia anche attraverso il suo richiamo nella Costituzione ed il modo in cui la Corte costituzionale lo ha interpretato.
Quindi, per giudicare - questa è la parte teorica, ma sarò molto breve; poi affronterò gli aspetti pratici - le proposte di legge in esame, bisogna valutare quali aspetti delle tradizionali facoltà riconducibili alla libertà di religione esse assicurano ai cittadini e alle confessioni in materia di professione di fede. Esistono aspetti nuovi, come la professione dell'ateismo, che un tempo non era considerata come facente capo all'articolo 19, la libertà di propaganda, che è radicalmente mutata dal 1948 ad oggi e che è uno dei settori in assoluto più deficitari delle due proposte di legge (le affissioni ai muri degli edifici di culto devo dire che fanno un po' sorridere), la libertà di esercizio del culto, per un impianto di legislazione urbanistica, per una cambiamento decisivo della libertà religiosa da libertà negativa a libertà positiva.
Bisogna valutare quali ostacoli questa legge rimuove all'effettivo esercizio dei diritti, quali procedure prevede perché siano assicurati i caratteri della democrazia pluralista nei rapporti con le confessioni da parte di tutti i poteri dello Stato, in particolar modo da parte della pubblica amministrazione, che, è inutile dimenticarlo, ha un atteggiamento ben lontano dalla neutralità e dalla equidistanza che la Corte costituzionale afferma. Ancora ieri, su un quotidiano nazionale, il sindaco di un importante comune del nord si vantava di non aver mai dato una concessione per la costruzione di una moschea. Io stesso, che ho uno studio legale, ho avuto richieste da parte di sindaci di trovare dei modi per negare la concessione di un'area per costruire edifici di culto non cattolici.
La legge dovrebbe fare trasparire nella sua trama quale sia il bilanciamento; infatti, non tutte le leggi di attuazione della
Costituzione sono uguali nel taglio, i molteplici valori costituzionali e fini della Costituzione possono essere diversamente graduati: libertà, eguaglianza, pluralismo, laicità, valore positivo della religione, regolamentazione in via pattizia, sovranità dello Stato, e così via.
Le proposte di legge seguono il quadro della Costituzione, è vero, ma non l'adeguamento, anche normativo, che vi è stato in questi ultimi anni. Ad esempio, esse non tengono conto del federalismo, dei rapporti e delle competenze che le regioni a statuto ordinario hanno in molte materie che toccano il nostro campo; vi è la assoluta mancanza dei principi che, ai sensi degli articoli 117 e 118 della Costituzione, dovrebbero regolamentare la competenza ripartita tra lo Stato e le regioni. Esse non tengono conto - e questa mi sembra una mancanza non da poco - della correlazione con le riforme dell'ordinamento in atto in materia di pari opportunità. L'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246, recante riassetto normativo in materia di pari opportunità, ad esempio, ha conferito al Governo la delega ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto, ponendo tra i principi ed i criteri direttivi da rispettare la individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione, in particolare per cause direttamente o indirettamente fondate sulle religioni o sulle convinzioni personali. Quindi, la distinzione è già nei nostri testi normativi.
Affronto, ora, due problemi specifici. La legge dovrebbe davvero rivolgersi a tutte le confessioni religiose. Non condivido l'opinione che sia «innocua», non faccia danno; tale opinione rafforza la convinzione di una disciplina diversa, a seconda che si tratti della Chiesa cattolica o delle altre confessioni e, poiché la normativa da varare non potrà non avere una rilevanza costituzionale, è chiaro che i giudici,
nell'applicazione, ricaveranno da tale distinzione argomenti per trarre conseguenze ulteriori. La legge, dunque, dovrebbe prevedere che tutte le confessioni debbano garantire ai propri fedeli il pieno rispetto dei diritti inviolabili della persona, di tutti tali diritti, come riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Per quanto riguarda il diritto di difesa, è già stata richiamata la sentenza Pellegrini, nel suo nucleo fondamentale, non solo in materia matrimoniale, ma in ogni tipo di procedimento di «giurisdizione domestica», quali, ad esempio, l'espulsione di un soggetto dall'associazione cui appartiene ed i provvedimenti disciplinari. In tutti i procedimenti di «giurisdizione domestica», le confessioni presenti all'interno della Repubblica devono garantire il diritto di difesa, il diritto di recesso libero ed incondizionato ed il diritto alla conformità delle attestazioni e delle certificazioni confessionali alla volontà dichiarata dal fedele. Anche se mi rendo conto che politicamente è difficile, è auspicabile anche l'inserimento di una formula con cui tutte le confessioni riconoscano che i cittadini sono obbligati al rispetto delle leggi; è un dovere costituzionale, spesso dimenticato, poiché il tema dell'obiezione di coscienza, nell'articolo 54 della Costituzione, non è espressamente richiamato, ma corre il rischio di scardinare molti sistemi.
Svolgo due considerazioni molto brevi a proposito delle qualificazioni. Le due proposte di legge in discussione sembrano essere consapevoli di esaurire tutta la legislazione in materia. Vi mostro il codice di diritto ecclesiastico del 2003: la nuova edizione contiene almeno 200 pagine in più rispetto alla precedente. Definire chi sia il ministro di culto non è importante per la legge sulla libertà religiosa, ma per la disciplina dell'accesso agli istituti di detenzione e di pena, per la disciplina dell'accesso negli ospedali e per decine e decine
di altri istituti. Definire cosa si intenda per edificio destinato al culto è essenziale ai fini dei poteri riservati alle forze di Polizia e al giudice. Distinguere il concetto di edificio aperto al culto pubblico da quello di edificio destinato al culto pubblico e regolamentare il vincolo di destinazione serve unicamente per fini secondari: la restituzione eventuale - non è mai successo - di contributi regionali, qualora l'edificio cambi destinazione. In materia penale, ad esempio, la nozione di edificio di culto è importante; si tratta di disciplinare la vecchia norma del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza - mai osservata, perché la Chiesa cattolica non ne voleva l'osservanza -relativa al divieto di compiere negli edifici di culto atti diversi dal culto. Si tratta di una norma su cui bisogna riflettere; infatti, non è la prima volta che ci troviamo davanti a fenomeni per i quali negli edifici di culto si svolgono attività che è difficile anche ritenere affini.
Per quanto riguarda la definizione di confessione, la Corte costituzionale non ha negato l'autoqualificazione ai fini del riconoscimento di una confessione e tale principio è spesso adoperato dal nostro legislatore. La legge finanziaria per il 2005 ammette l'autoqualificazione, con gli esiti che conosciamo, ai fini del 5 per mille, laddove prevede la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà. L'autoqualificazione, ai fini di una registrazione, dovrebbe essere sufficiente laddove con la registrazione chi si autoqualifica, depositando un proprio statuto, confessione religiosa goda soltanto dei diritti di libertà: non ha bisogno d'altro.
Bisogna ricordare, a proposito di differenze, che la Chiesa cattolica non ha bisogno di personalità giuridica. Perché, dunque, imporre alle altre confessioni un requisito che non è richiesto alla Chiesa cattolica? La personalità giuridica l'hanno organi della Chiesa cattolica, e l'avrà la Santa Sede. Non si
capisce pertanto la necessità di distinguere tra le confessioni, attraverso un espediente assolutamente inutile nella pratica: le due confessioni che hanno stipulato l'intesa che non è giunta a compimento perché non è arrivata alla ratifica da parte del Parlamento hanno personalità giuridica, eppure forze politiche hanno negato che si tratti confessioni religiose, malgrado vi sia non solo il decreto di riconoscimento, ma anche il parere favorevole del Consiglio di Stato.
MARCO BOATO. Buddisti e testimoni di Geova.
GIUSEPPE CASUSCELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Milano. Buddisti e testimoni di Geova: entrambe tali confessioni godono del riconoscimento di persona giuridica.
Per quanto riguarda il matrimonio, per rispondere alla sollecitazione del presidente Violante, ricordo che, al di là delle polemiche giornalistiche e dell'abuso del termine «poligamia», usato con assoluta scorrettezza dal punto di vista dell'ordinamento giuridico italiano, l'ordinamento italiano si è sempre «ritratto» dinanzi a matrimoni religiosi. In dottrina si è parlato di «matrimoni in frode alla legge» - matrimoni canonici - nel caso in cui, ad esempio, una vedova si risposa e, per mantenere il diritto a percepire la pensione di reversibilità, contrae il solo matrimonio canonico. Sarà non elegante, ma nessuno ha mai ritenuto di poter interferire nei poteri di una confessione e di amministrare ciò che per la Chiesa è un sacramento.
Per quanto riguarda la lettura degli articoli del codice civile, avrei perplessità a dividere, per una vecchia regola del diritto amministrativo, ossia il principio della contestualità dell'atto amministrativo. L'atto amministrativo nasce e si perfeziona senza soluzione di continuità. Vorrei inoltre ricordare
che l'atteggiamento di sfavore nella lettura degli articoli del codice civile deriva da una prassi della Chiesa cattolica che, nella celebrazione dei matrimoni civili, in minima parte legge gli articoli del codice civile, subito dopo aver ricevuto il consenso degli sposi: in buona parte li legge alla fine della celebrazione dell'intera messa e, in una parte ancor più significativa, li legge in sacrestia, con un senso di non accettazione dell'impegno civile all'interno della cerimonia religiosa.
ANNIBALE MARINI, Professore ordinario di diritto privato presso l'Università «Tor Vergata» di Roma. Sarò breve, perché ho già consegnato talune mie riflessioni al testo scritto e quindi eserciterò l'arte dell'autolimitazione.
Per quanto riguarda le definizioni, cui accennava l'onorevole Zaccaria, si tratta di una vecchia problematica. Vi sono due tipi di definizioni: quella descrittiva della fattispecie e quella che, invece, contiene la disciplina. Mi sembra che il primo tipo sia riservato all'interprete, mentre impropriamente è data dal legislatore. Il secondo tipo di definizione, invece, è compito del legislatore, perché ha carattere precettivo. Bisogna, dunque, chiarire una volta per sempre il problema delle definizioni. Quando vi è una definizione in senso proprio, di essa non si deve occupare il legislatore; ciò è pacifico. È una polemica risalente agli anni Trenta, in particolare ad Ascarelli. Quando, invece, vi è una definizione che contiene una parte della disciplina, lo ripeto, è compito del legislatore occuparsene.
Affermo questo perché a me sembra che la prima parte delle due proposte legge abbondi ed ecceda un po' in una serie di affermazioni a carattere definitorio, enunciativo. Mi spiego meglio. L'articolo 1 si richiama a tre fonti sovraordinate, cioè la Costituzione, i diritti inviolabili dell'uomo quali enunciati
espressamente delle convenzioni internazionali, e le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Una serie di altri articoli, invece, definiscono la libertà religiosa. Avrei qualche sommessa difficoltà a conciliare queste norme. Infatti, come lei ci insegna, onorevole Zaccaria, in tema di libertà religiosa meno si dice, meglio è; quando si dice molto è per limitare, non per aumentare le libertà. Il fatto che - come è stato affermato - non si sia tenuto conto della giurisprudenza della Corte costituzionale è un motivo in più per dire poco. Se, infatti, il legislatore ordinario riproduce in un progetto di legge l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, corre il rischio di compiere un'opera sbagliata, cioè di limitare.
In tal senso, un errore, segnalato anche dal relatore, è contenuto nell'articolo 2 delle proposte di legge, il quale si richiama alle limitazioni di cui all'articolo 20 della Costituzione: si dà il caso che tale ultimo articolo non contenga alcuna limitazione.
Sempre limitandomi all'aspetto tecnico, per brevità, intendo evidenziare anche che il diritto, attribuito dall'articolo 4 del provvedimento ai genitori, di istruire ed educare i figli non è affatto un diritto. Semmai, ai sensi della Carta costituzionale, si tratta di un diritto-dovere, mentre il nostro codice civile parla di dovere e taluni, opportunamente, lo definiscono come una funzione. In ogni caso, si tratta di un potere attribuito nell'interesse di un soggetto diverso. Perciò, lasciamo stare il «diritto». Inoltre, lo stesso articolo 4 contiene un'affermazione molto grave, quella secondo cui i genitori devono educare i figli secondo la propria credenza, la propria confessione. Nel secondo comma, però, si afferma che gli stessi figli, superata l'età di 14 anni, devono essere ascoltati. Allora, mettiamoci d'accordo: coordinando il primo ed il secondo comma, emerge che tutto questo riguarda i figli minori di 14 anni. Infine, lo
stesso articolo del progetto precisa che, in caso di contrasto tra i genitori, decide il giudice. Avrei davvero qualche perplessità riguardo al fatto che, in questo campo, sia il giudice a decidere. Le mie perplessità riguardano proprio l'opportunità di conservare questa norma. Noi abbiamo una sorta di diffidenza nei confronti del legislatore perché vuole definire tutto e stabilire tutto: lasciamo, invece, all'opera della giurisprudenza questo compito, tanto più che in materia di diritto di famiglia c'è una infinità di sentenze e chi abbia una minima pratica nella materia sa che l'opera della giurisprudenza ha risolto i problemi, indipendentemente dalle norme giuridiche.
Un altro esempio, al riguardo, è costituito dalla norma precettiva posta dall'articolo 7 del provvedimento, secondo la quale i cittadini hanno diritto di agire secondo i dettami imprescindibili della propria coscienza, nel rispetto dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione. Torniamo, nuovamente, alla Costituzione. Inoltre, lo stesso articolo afferma che le modalità per l'esercizio dell'obiezione di coscienza nei diversi settori sono disciplinate dalla legge. È evidente come il richiamo alla Costituzione e alla legge sia continuo. Quindi, in buona sostanza e in buona misura, si tratta di norme di puro e semplice rinvio e, ove fossero eliminate, non si farebbe alcun danno.
Una obiezione di natura tecnica attiene al problema della personalità giuridica. Nelle proposte di legge si prevede un sistema concessorio. Due sono i modi di acquisto della personalità giuridica: quello concessorio e quello automatico. Non ho capito - aspetto lumi al riguardo - il criterio seguito nell'articolo 19 del provvedimento, in base al quale sembra che questi due sistemi si fondino, si sommino fra di loro. Sappiamo che, mentre il sistema concessorio richiede un certo procedimento, ha un carattere procedimentale, il sistema
automatico collega l'acquisto della personalità giuridica a un determinato fatto. Nell'articolo 19 del provvedimento, si dice che nel registro delle persone giuridiche devono risultare le norme di funzionamento ed i poteri degli organi di rappresentanza e che la confessione o l'ente può concludere negozi giuridici solo previa iscrizione nel registro predetto. Allora, è necessario mettersi d'accordo perché, anche in questo caso, c'è un problema tecnico.
Lasciamo stare i massimi sistemi ed esaminiamo le norme. Il registro delle persone giuridiche, in precedenza, era un sistema di pubblicità o, addirittura, di notizia; attualmente, è diventato un sistema per l'acquisto della personalità giuridica, in base ad una legge del 2000. Non capisco, invece, la norma che stiamo esaminando. Ne ho discusso anche con il professor Francesco Gazzoni e abbiamo convenuto sul fatto che, in effetti, è un po' indecifrabile. Infatti, essa prevede che un ente, il quale ha già acquistato la personalità giuridica, ove non si iscriva nel registro delle persone giuridiche, non possa stipulare negozi giuridici, risultando, quindi, privato della personalità giuridica. Infatti, chi non può stipulare negozi giuridici - me lo insegnate - non può essere titolare dei diritti e dei doveri che nascono da quei negozi. Perciò, abbiamo due modi di acquisto della personalità giuridica.
Altra norma perfettamente inutile è quella prevista dall'articolo 21 delle proposte di legge, secondo il quale per gli acquisti delle confessioni religiose o dei loro enti esponenziali che abbiano ottenuto la personalità giuridica si applicano le disposizioni delle leggi civili concernenti gli acquisti delle persone giuridiche. Ad oggi, non esiste più alcuna autorizzazione, è stata eliminata da un paio di secoli; pertanto, questa
norma può essere tranquillamente cancellata. Non voglio dare voti, per carità, non spetta a me: mi sto limitando semplicemente a talune osservazioni.
C'è, poi, il problema del matrimonio. Vado al concreto perché, purtroppo, noi civilisti voliamo in basso, non voliamo molto in alto. Il problema è semplicissimo: la lettura degli articoli del codice civile fa parte ed ha sempre fatto parte della celebrazione del matrimonio, è un momento della celebrazione stessa. Ciò è pacifico e scontato. Se questo è vero, non si comprende quale senso abbia anticipare la lettura degli articoli del codice al momento delle pubblicazioni. Queste ultime sono preordinate alle opposizioni al matrimonio; lo stesso termine «pubblicazione» indica proprio che si comunica ad un terzo l'intenzione di celebrare il matrimonio, ai fini delle opposizioni. Allora, come ripeto, non si comprende che senso abbia la lettura degli articoli del codice civile al momento delle pubblicazioni: a questo punto, lo si può fare al momento del fidanzamento o quando due persone si incontrano o in qualsiasi altro momento, onorevole Zaccaria. Che senso ha tale lettura in un momento che ha una funzione logicamente e secolarmente diversa, come quello delle pubblicazioni? Non ha alcun senso.
MARCO BOATO. L'obiezione è fondata. C'è, però, qualche intesa già stipulata e approvata che la prevede.
ANNIBALE MARINI, Professore ordinario di diritto privato presso l'Università «Tor Vergata»di Roma. Le rispondo subito, onorevole Boato. Lei ha perfettamente ragione: è prevista da qualche intesa già stipulata ed il sistema delle intese, a mio avviso, è il sistema costituzionale, in quanto previsto dalla Costituzione. La Costituzione è fondata sulle intese. Purtroppo, però, questa norma è sbagliata perché è priva di senso, come
giustamente ricordava l'onorevole Zaccaria, in quanto anticipa una funzione essenziale. Per grandi linee, si può affermare che la lettura degli articoli del codice civile si pone in relazione con l'acquisto degli effetti civili del matrimonio. Allora, che senso ha anticiparla al momento delle pubblicazioni? Non ha alcuna logica.
Vorrei svolgere un'ultima considerazione - e mi avvio alla conclusione -, che riguarda il tema dell'insegnamento e, precisamente, l'articolo 12 della proposta di legge. Il primo comma di tale disposizione stabilisce che, nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, l'insegnamento è impartito nel rispetto della libertà di coscienza e della pari dignità, senza distinzione di religione.
Si parla delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado e, a questo proposito, vorrei sollevare due eccezioni. Si tratta di un principio generale che dovrebbe comprendere sia la scuola pubblica di ogni ordine e grado sia la scuola privata riconosciuta. Mi sembrerebbe singolare che questo principio fondamentale di civiltà giuridica sia limitato alle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. Ritorna sempre il solito discorso: meno si dice, meglio è. La norma, così come formulata, si presta ad una obiezione evidente, ossia la limitazione di tale principio alle scuole pubbliche, a meno di non arrivare, poi, in via interpretativa (e noi siamo maestri nei salti logici e nei salti con l'asta), a dire che la scuola pubblica è un concetto generale, che comprende anche le scuole private riconosciute. Il che non è vero, ma si può anche dire.
In conclusione, suggerirei di far «dimagrire» il testo dei due progetti di legge contenente un richiamo iniziale che, secondo me, è più che esaustivo, lasciando il resto all'opera alla giurisprudenza.
Per quanto riguarda l'occupazione, la requisizione, l'espropriazione o la demolizione degli edifici destinati al culto, vi è un riferimento alle gravi ragioni. Ma quando ricorrono le gravi ragioni? Mi sono sforzato di capirlo. Questa è una norma garantista; ma è difficile ipotizzare in astratto le gravi ragioni. O ci si rimette all'opera del giudice (e noi siamo sempre un può sospettosi dei giudici, vogliamo definire tutto in modo che il giudice non decida niente e sia soltanto un automatico e meccanico applicatore delle norme di legge), oppure bisogna giungere alla conclusione che il riferimento alle gravi ragioni è sbagliato.
GIUSEPPE CASUSCELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Milano. Vorrei intervenire brevemente in merito a quanto affermato dal presidente in ordine alla libertà dei minori, ricordando che al riguardo già esiste una norma nel nostro ordinamento. Mi riferisco alla Convenzione sui diritti del fanciullo, il cui articolo 14 riconosce il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale norma stabilisce che gli Stati rispettano il diritto e il dovere - come diceva il presidente - dei genitori, oppure, se del caso, dei rappresentanti legali del bambino, di guidare quest'ultimo nell'esercizio del summenzionato diritto, in maniera che corrisponda allo sviluppo delle sue capacità.
PRESIDENTE. Era ciò che si diceva in precedenza.
NICOLA COLAIANNI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Bari. Signor presidente, vorrei ringraziare lei e la Commissione per l'invito ad offrire il mio contributo quale esperto in ordine al lavoro svolto che, come affermato già in molti interventi, condivido quasi completamente,
salvo qualche dettaglio. Non mi riferirò ad argomenti già affrontati. É un lavoro effettivamente difficile.
Credo di dover ringraziare anche gli onorevoli Spini e Boato per la tempestività nella presentazione di queste proposte di legge, che ne ha consentito l'immediata discussione in Commissione.
Come si è rilevato in modo particolare dall'ultimo intervento, le proposte di legge riprendono quasi integralmente una vecchia proposta risalente al 1990, e addirittura non tengono conto delle innovazioni legislative che nel frattempo si sono verificate. Soprattutto, credo che, a mio giudizio, esse non affrontano i problemi che agitano il contenzioso giudiziario in questi ultimi anni. Ad esempio, se esaminassimo la giurisprudenza degli ultimi anni, troveremmo che le questioni sollevate riguardano il finanziamento delle confessioni senza intesa, il problema dell'ICI o dell'INVIM e, in generale, i problemi tributari e il trattamento riconosciuto da alcune norme alla Chiesa cattolica e non ad altre confessioni. Inoltre, vi è il problema dei simboli religiosi, che coinvolge anche la sfera della libertà religiosa per il modo in cui è stata presentata la questione del crocifisso nelle aule scolastiche. Evidentemente, ci troviamo di fronte ad un problema di libertà religiosa. Vi è, poi, il problema dell'abbigliamento delle donne musulmane: anche in questo caso, emerge un problema di libertà religiosa. In modo particolare, gli ultimi due problemi non hanno trovato finora un aggancio legislativo. La Corte costituzionale, proprio in ordine al problema dei simboli religiosi, ha rimandato la questione al giudice, proprio perché mancava una disposizione legislativa che potesse avere forza di legge ed essere sindacata dalla Corte costituzionale. Credo che il Parlamento debba affrontare questo problema, perché vi è un implicito richiamo da parte della Corte costituzionale.
Per quanto riguarda le norme finanziarie, la sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 1996, riguardante i testimoni di Geova (che, essendo una confessione senza intesa, chiedeva un'estensione dell'otto per mille delle offerte deducibili), stabilì che non si potevano estendere tali norme finanziarie per la mancanza di una disciplina posta da una legge ordinaria volta ad agevolare l'esercizio del diritto di libertà dei cittadini. Qui il richiamo è evidente: si dice al Parlamento che l'attribuzione dell'otto per mille è un'agevolazione del diritto di libertà dei cittadini. Ci aspetteremmo che, nel momento in cui si affronta una legge sulla libertà religiosa, naturalmente si contempli tale agevolazione prevista da una legge ordinaria, come stabilisce la Corte. Questa è una legge ordinaria, ma nel testo non c'è assolutamente nulla che riguardi tali problemi.
Mi sono permesso, come gli altri colleghi, di presentare il mio contributo per iscritto. Essendo avvezzo alla pratica parlamentare per avere io stesso fatto parte, per un certo periodo, della Camera dei deputati, mi sono permesso di formulare addirittura degli emendamenti, procedendo secondo tale logica. È un vezzo che ritorna: sono riportati nella mia relazione e si potranno meglio analizzare.
Tuttavia, vorrei affrontare solo alcuni problemi, in particolare quelli posti dall'onorevole Zaccaria.
Per quanto riguarda il problema del sostegno finanziario, questa sarebbe l'occasione adatta per estendere tale sostegno alle confessioni senza intesa e a quelle che negli emendamenti ho definito (riprendendo un'espressione contenuta nel trattato di Amsterdam e nella Costituzione europea, che è stata ratificata, anche se non è ancora in vigore), anche alle organizzazioni filosofiche e non confessionali, cioè alle organizzazioni che professano ateismo o agnosticismo. Ciò per i motivi già indicati, ad esempio, dalla professoressa Domianello,
che mi trovano perfettamente d'accordo. Quindi, si tratterebbe, innanzitutto, di estendere il finanziamento a tutte queste organizzazioni, ma anche di rimodulare la norma, nel senso di prevedere che questo finanziamento sia riconosciuto, secondo attese della società civile finora sempre trascurate, anche a tutte le organizzazioni di carattere umanitario, che svolgono in favore di paesi non facenti parte dall'OCSE attività di carattere umanitario, sociale e assistenziale, ossia che svolgono lo stesso tipo di attività degli organismi cui è attribuito l'otto per mille. Non si capisce perché questo 8 per mille debba andare soltanto alle organizzazioni confessionali - ed io dico anche alle organizzazioni filosofiche non confessionali - e non, invece, a qualsiasi altra organizzazione, tipo Amnesty International o Medici senza frontiere, che svolga lo stesso tipo di attività umanitaria in favore del terzo mondo.
Occorre affrontare anche un altro problema, ugualmente avvertito dalla società civile a vari livelli: bisogna attribuire alle confessioni, alle organizzazioni, a tutti questi enti, solo quella parte dell'8 per mille che riguarda le scelte espresse. Infatti, lo scandalo è che ormai la maggior parte dei contribuenti non sceglie a quale confessione - o magari, un domani, a quale organizzazione filosofica non confessionale - attribuire l'8 per mille. Quindi, il finanziamento che attualmente ricevono tutte le confessioni è in massima parte determinato proprio da coloro che non scelgono, anziché da quelli che scelgono. Il meccanismo è diventato talmente perverso che mi sono permesso di presentare un emendamento di carattere aggiuntivo su questo aspetto.
Con riferimento agli altri argomenti affrontati dall'onorevole Zaccaria, anch'io sono d'accordo sul fatto che in fondo questa legge debba costituire un parametro, appunto la legge comune, alla luce del quale valutare anche le eventuali
deroghe che si possono prevedere, per agevolare i diritti di libertà, per tutte le confessioni. In questo senso, la legge deve anche stabilire dei paletti. Riprendo, ad esempio, il discorso del finanziamento. Tutte le confessioni, o quasi tutte -i battisti, per fortuna dico io, non lo fanno -, percepiscono anche la quota relativa alle scelte non espresse. In una legge sulla libertà religiosa, cioè nella legge comune, questo è un aspetto che andrebbe affrontato, proprio per affermare che la Costituzione vuole che ogni cittadino contribuisca alle spese, che sono quelle determinate dal Parlamento nella legge finanziaria. Quindi, se il cittadino non ha scelto espressamente di devolvere una parte dell'8 per mille ad una confessione (o ad un'altra organizzazione), evidentemente ha voluto contribuire soltanto, come vuole l'articolo 53 della Costituzione, alle spese pubbliche determinate dalla legge finanziaria.
Stesso discorso per quanto riguarda la lettura degli articoli relativi al matrimonio. È vero, ci sono intese che hanno previsto questa facoltà, ma non è un buon argomento dire che, siccome alcune confessioni hanno utilizzato questa agevolazione, a questo punto, per ragioni di equità. dobbiamo prevederlo nei confronti di tutte. Intanto, bisogna dire che, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, il ministro di culto deve leggere gli articoli alla fine della cerimonia religiosa, nello stesso luogo. Che lo faccia o non lo faccia, questo poi riguarda le prassi, che in questo momento lasciamo da parte. Non vedo quindi perché le altre confessioni non debbano fare altrettanto; probabilmente, si è fatto così per la legge dei piccoli numeri. Evidentemente, però, occorre tornare indietro, anche per un altro motivo. È come dire: qui non si può parcheggiare in sosta vietata. E si risponde: visto che ci sono tante altre macchine, dunque parcheggio anch'io.
Naturalmente, questo non è un atteggiamento che il Parlamento può ratificare con legge. Occorre dunque tornare indietro su tale aspetto. Questo può servire anche a rendere...
ROBERTO ZACCARIA. Mi scusi se la interrompo, professor Colaianni. Noi siamo d'accordo su questo. Io ho solo posto il problema. C'è un regime ottativo, mentre secondo me si deve scegliere un regime unico. Su questo argomenterete e noi ascolteremo quello che voi dite, che può essere l'uno o l'altro. Questo, lasciando alle intese la possibilità, eventualmente, di differire; però dico «eventualmente».
All'inizio, io ho parlato di un'ipotesi, perché questa era emersa nel corso di alcuni interventi. Si può anche pensare all'altra ipotesi di cui voi parlate. La cosa importante è che vi sia un regime generale, poi eventualmente potranno essere introdotti regimi aggiuntivi attraverso le intese.
NICOLA COLAIANNI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Bari. Personalmente, sono d'accordo che vi sia un regime in linea generale, che in questo caso è quello previsto per la Chiesa cattolica. Però, questo non deve servire per aggiungere eventuali deroghe (perché a questo punto le deroghe a mio avviso sarebbero anche irrazionali) bensì per far capire a chi gode di questa agevolazione che sta appunto in sosta vietata, cioè che ha ricevuto un beneficio che la legge comune non attribuisce a tutti.
Per quanto riguarda gli altri argomenti indicati dall'onorevole Zaccaria, credo che sia il caso di definire - su questo mi ha già preceduto il professor Marini - soltanto ciò che è davvero prescrittivo, che contiene cioè una disciplina. Faccio un esempio. Per la definizione di ministro di culto dobbiamo stare attenti, perché c'è il pericolo del giurisdizionalismo; c'è il pericolo cioè di andare noi a dire alle confessioni chi è il
ministro di culto. Ad ogni modo, questo problema esiste. Me lo sono trovato davanti quando ho fatto parte, come esperto, della commissione dei buddisti per l'intesa e questi mi hanno detto che non hanno il ministro di culto, perché per loro c'è soltanto il maestro di dharma e quindi volevano che nell'intesa si scrivesse sempre «maestro di dharma». In quell'occasione, ho ritenuto di convincerli che quella di «ministro di culto» è comunque una terminologia statualistica e che non è il caso, nelle intese, di moltiplicare dizioni e definizioni di ministro di culto; e loro hanno accettato tutto questo. Però, effettivamente, il problema esiste. Così come, per i testimoni di Geova, ad un certo punto si è inserita nell'intesa una giusta limitazione, perché secondo il credo dei testimoni di Geova tutti loro sono ministri di culto, e quindi tutti potrebbero accedere ai benefici e alle agevolazioni di cui parlava prima il collega Casuscelli.
Quindi, alcune definizioni occorre darle; queste sono molto difficili, però possiamo collaborare a tal fine. Per quanto riguarda altre definizioni, come quella di «confessioni», sarei dell'avviso di lasciare perdere. In quel caso esiste una definizione data dalla Corte costituzionale, che ha indicato tre o quattro parametri. Il primo parametro è proprio lo statuto, dal quale emerga chiaramente la natura confessionale dell'associazione, cioè l'autoqualificazione; anche se poi si è cercato in qualche modo di ridimensionare, lo statuto dal quale risulti chiaramente il carattere significa rimettersi all'autonomia privata della stessa confessione, che dichiara eventualmente tutto ciò anche con l'autocertificazione.
Credo che su questo punto occorra rimanere fermi, anche per evitare che, definendo, si finisca per limitare certe libertà, che sono state già affermate dalla giurisprudenza. Vorrei
dunque evitare una specie di eterogenesi dei fini, per cui una legge sulla libertà religiosa, definendo più volte, finisca per diventare una legge di divieti.
Infine, per quanto riguarda il matrimonio, a mio avviso tutti questi problemi non ci sono. La giurisprudenza della Corte di cassazione ha posto dei confini, direi abbastanza insormontabili, per il riconoscimento, sia pure indiretto, degli effetti di matrimoni poligamici celebrati all'estero. Ha ammesso degli effetti indiretti per quanto riguarda il diritto ereditario, però non è andata oltre. C'è, poi, la giurisprudenza della Cassazione penale, la quale ha escluso la rilevanza della sharia come difesa culturale, come scriminante di comportamenti che secondo la nostra legge sono reati, per esempio in tema di maltrattamenti del marito nei confronti della moglie. Insomma, c'è tutta una giurisprudenza al riguardo; pertanto, secondo me il problema del matrimonio poligamico non sussiste.
Tuttavia, quanto alla lettura degli articoli del codice civile nella stessa cerimonia religiosa, ammesso che gli islamici, per la commistione tra religioso e civile che loro professano, chiedano un'intesa per gli effetti civili del matrimonio religioso - questo è tutto da verificare dal momento che per loro è un contratto e non c'è nulla di religioso -, penso che la lettura degli articoli del codice civile in quella occasione possa servire ad escludere che un matrimonio di tipo poligamico possa avere effetti civili.
Altri criteri per quanto riguarda il riconoscimento della personalità giuridica, oltre quelli previsti dalla stessa Corte costituzionale, io non ne vedrei. In particolare, mi fermerei ai richiami all'ordinamento giuridico dello Stato e al rispetto dei diritti fondamentali che alimentano la giurisprudenza, che però ritrovo anche nei testi sottoposti al nostro esame, dal
momento che il potere disciplinare delle confessioni religiose nei confronti dei propri aderenti rappresenta, obiettivamente, un problema.
Al riguardo, occorre che lo Stato possa comunque sindacare i provvedimenti quando questi offendano i nostri diritti fondamentali. Dal canto suo, la Corte costituzionale, già vent'anni fa, per quanto riguarda gli ebrei, relativamente al diritto di recesso (nel caso di specie, di un israelita), ha affermato l'effettiva incostituzionalità di quella norma sostenendo, pertanto, la possibilità di un sindacato da parte del giudice, a motivo del fatto che si faceva questione di un diritto fondamentale, il diritto di associazione; in altri casi, la stessa Consulta ha parlato del diritto di difesa.
Rimangono - questo è il punto che intendo infine sottolineare - quegli altri problemi nuovi per i quali la Corte costituzionale ha sostenuto l'assenza di norme di riferimento, ossia la questione del crocifisso e quella dell'abbigliamento. A mio parere, una legge sulla libertà religiosa che non dicesse alcunché su questo sarebbe una legge elusiva di quei problemi attuali, quotidianamente trattati dai giornali. La mia proposta - contenuta nel testo depositato presso la Commissione e da me intitolato «Per un diritto di libertà di religione costituzionalmente orientato» (capisco benissimo che le mediazioni politiche prendono, poi, un'altra strada, però penso che il mio compito, in questo caso, sia quello di fornire un'indicazione rigorosa) - è quella di prevedere che lo Stato laico non possa imporre i simboli religiosi nelle aule scolastiche, ma debba consentire che gli stessi siano esposti, cioè indossati, dalle persone: in altri termini, «sì» all'abbigliamento (salvo - nel caso dell'abbigliamento femminile - non si tratti di problemi di sicurezza pubblica o di comunicazione in luogo pubblico, per cui sia necessario avere chiara anche la fattezza fisica
della donna) e «no» all'esposizione del crocifisso, a meno che - questa è un'ipotesi di mediazione - tutti gli alunni di una classe siano concordi nell'esporre questo o altro simbolo religioso o culturale (ad esempio, per ornare una parete).
MARIA PIA BACCARI VARI, Professore associato di istituzioni di diritto romano presso l'Università «LUMSA». Mi piace rammentare in questa sede quanto disse Giorgio La Pira all'Assemblea costituente, sessant'anni fa. Rispondendo alla domanda del deputato Pietro Nenni: «lo Stato deve o non deve essere laico?», l'illustre romanista elaborò una precisazione fondamentale. Innanzitutto, egli ricordava che ogni azione dell'uomo è sempre diretta da un'idea e, quindi, non può esistere uno Stato agnostico o laico proprio perché, in base a come si concepisce la realtà umana e la società, si costruisce anche la volta giuridica. Poiché la persona umana - continuava La Pira - ha un'intrinseca orientazione religiosa, che si esprime necessariamente nelle confessioni religiose, lo Stato deve essere talmente rispettoso di questa propensione religiosa e di queste formazioni religiosi associate che non può che dichiararsi incompetente a disciplinare direttamente tale ambito. Pertanto, La Pira evidenziava la contraddittorietà dell'espressione «Stato laico» dichiarando, però, anche il rifiuto di uno Stato confessionale, uno Stato, cioè, nel quale i diritti civili, politici ed economici dipendono da una certa professione di fede. La Pira concludeva sostenendo, dunque, la necessità di costruire uno Stato rispettoso dell'orientazione religiosa del singolo e delle collettività. Sottolineo la parola «collettività» perché su questo vorrei poi tornare nel prosieguo del mio intervento.
Francesco De Martino, maestro del diritto romano, all'alba del ventunesimo secolo, in uno degli ultimi discorsi ufficiali, che possono essere considerati una sorta di suo testamento -
a proposito della crisi dei partiti e dei valori profondi recepiti dalle masse popolari -, diceva, nel 2001, di guardare con timore al futuro, affermando quanto fosse, in un certo senso, sconfortante dover riconoscere che l'unica potenza mondiale capace di parlare a milioni di persone e di giovani fosse la Chiesa, non avendo essa abbandonato i riferimenti di ordine religioso, morale ed ideale.
Fatti questi due rapidissimi richiami, vorrei sottolineare che la laicità viene comunemente e malamente intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società e suo confino nell'ambito del privato e della coscienza individuale. Proprio su questo aspetto - prendendo atto dell'ultra-individualismo, dell'esasperato individualismo, presente nei testi al nostro esame -, vorrei svolgere qualche riflessione, depositando, poi, presso la Commissione un testo scritto contenente alcune considerazioni sui principi generali, sul diritto romano, sul suo significato (a partire da Tertulliano), e sul concetto di ius humanum e libertas, proprio in riferimento alla religione. Vorrei, quindi, concentrare la vostra attenzione e svolgere alcune riflessioni su due principi, in accordo con l'introduzione del professor Zaccaria, ossia il concetto di popolo - e dunque di «religione del popolo» e di formazioni sociali - e quello di libertà.
Nei provvedimenti al nostro esame, mi sembra sia presente un malinteso concetto di «libertà», che non tiene conto né della libertà degli antichi né di quella dei moderni. Sulla libertà degli antichi, il discorso da fare sarebbe lungo, pertanto, tralasciando questo aspetto, mi soffermerò soltanto su alcuni concetti fondamentali.
In particolare, occorre ricordare che la libertà non è il capriccio individuale; basti rammentare la frase conclusiva del rapporto presentato da Saint Just, circa la differenza esistente
tra «essere libero» e «dichiararsi indipendente per fare del male» (frase richiamata, come noto, da Marx), o le parole di Robespierre, il quale, nel discorso del 1793, definì l'ateismo «aristocratique»: l'idea del grande être che punisce il crimine trionfante è tutta popolare. Anche da queste affermazioni, appare evidente la convinzione che la religione appartenga al popolo, e questo dovrebbe indurre lo Stato a tenersi al di fuori, senza vantare la pretesa di disciplinare minuziosamente qualsiasi credenza. Il legislatore dovrebbe arrestarsi su quel limite esterno che riguarda la coerenza della professione di un credo con gli interessi - «utilitates» dicevano i romani - fondamentali della collettività, del popolo, quale, ad esempio, l'ordine pubblico (ritorna alla memoria il Senatus consultum de Baccanalibus).
Questo concetto di popolo che professa la religione è centrale: in tal senso, si può, si deve parlare di religione del popolo. L'idea di religione del popolo comporta che alla comunità dei credenti, e quindi alla confessione religiosa, sia garantito il libero esercizio delle attività di culto, spirituali culturali, educative e caritative, purché non sia in contrasto con l'ordine morale e non risulti pericoloso per l'ordine pubblico. Lo Stato non deve imporre la religione ma deve garantire al popolo la libertà di professarla e assicurare la pace tra gli aderenti alle diverse religioni, come aveva indicato La Pira in sede di Assemblea costituente.
Quindi, a ben vedere, proprio per questo, gli articoli 7 ed 8 della Costituzione prevedono che la disciplina, in tema di religione, debba avvenire in forma consensuale, mediante i Patti lateranensi e la revisione degli stessi per la Chiesa cattolica, e le intese per le altre confessioni religiose. Non è certo espressione di laicità, ma viceversa rappresenta una sua degenerazione in forme di laicismo, la tendenza che emerge
dai provvedimenti al nostro esame, volta a non rispettare la religione e ad intervenire minuziosamente su riti e culti, sostanzialmente senza il rispetto di alcun limite.
Dopo questi rapidi cenni passerò, alla luce degli enunciati principi del diritto, a svolgere alcune considerazioni sui provvedimenti al nostro esame, provvedimenti che, mi permetto di sottolinearlo, sono marcati da un forte individualismo e suscitano molte perplessità e dubbi di costituzionalità. Rimando sempre a testi che in seguito consegnerò. Tuttavia, vorrei fare un breve cenno al fatto che nel progetto di legge manca un riferimento alla relazione tra religione e popolo. La parola «popolo» non è presente, e lo stesso si deve dire per la locuzione «rispetto della religione». Si tratta di due notazioni rapidissime.
Queste iniziative, sotto l'apparenza della tutela della libertà religiosa, finiscono per sovvertire il sistema dei rapporti religiosi raggiunto dalla Costituzione repubblicana, che esclude che lo Stato possa disciplinare la libertà religiosa collettiva senza ricorrere ai Patti lateranensi, suscettibili di revisione per la regione cattolica, e alle intese per le altre confessioni religiose. Scavalcando illegittimamente tali strumenti, il progetto di legge detta unilateralmente una disciplina uniforme e minuziosa di tutti i singoli aspetti delle manifestazioni dell'attività religiosa, dall'educazione religiosa impartita dai genitori, al matrimonio (articolo 11), all'associazione religiosa (articolo 15), e così via, in palese contrasto - a mio avviso - con gli articoli 7 e 8 della Costituzione.
Anche per quanto riguarda la libertà di non avere alcuna credenza, questi sessant'anni dimostrano che non solo i credenti, ma anche i non credenti e tutti, sono stati ampiamente tutelati dall'ordinamento giuridico italiano.
Infine, va rilevata la pressoché totale assenza, nei progetti in esame, di doveri (lo abbiamo visto a proposito dell'educazione dei figli) e limiti nei confronti della religione, salvo un fugace richiamo al concetto sfuggente di buon costume, concetto problematico, come ha detto assai bene in una sentenza del 1992 la Corte costituzionale (presidente Borzellino, relatore Baldassarre): «Rientrando tra i concetti non suscettibili di una categorica definizione, il buon costume è dotato di una relatività storica dovuta al fatto che varia notevolmente secondo le condizioni storiche, di ambiente e di cultura». In particolare, nelle proposte di legge Spini e Boato più volte ricorrono le espressioni «libertà di coscienza e di religione», «secondo i dettami imprescindibili della propria coscienza», «rispetto della libertà di coscienza e della pari dignità».
Vorrei soffermarmi brevemente sui concetti di «libertà di coscienza» e di «pari dignità». A tali espressioni, per quanto suggestive, è difficile, se non impossibile, dare specifici contenuti prescrittivi, salvo pensare, come abbiamo detto prima, che una Corte, sia essa costituzionale o di Cassazione, possa con sentenza spiegare cosa sia la coscienza, cosa sia la dignità e stabilirne il contenuto. Nella sentenza della Corte costituzionale n. 47 del 1991 viene spiegata, dal relatore Baldassarre, cosa sia la coscienza, rinviando al concetto di dignità della persona. Questo esempio mostra chiaramente quanto volevo sottolineare.
Ancora più difficile, nonostante l'orientamento dei giudici di Palazzo della Consulta, è considerare la libertà religiosa come libertà di non averne alcuna, tenuto conto che l'aspetto negativo del diritto di libertà religiosa non è l'ateismo, ma
l'indifferentismo religioso. Ho richiamato prima Robespierre e potrei citare anche Gramsci, che senz'altro nutrivano un profondo rispetto per la religione.
Inspiegabile poi è quanto è detto nell'articolo 4, riguardo ai giovani, come nell'esempio in cui un quattordicenne deve essere costretto da un giudice ad andare a messa. In questo caso, vorrei sapere con quali strumenti si potrebbe farlo, visto che una mamma con le promesse non ci riesce.
Un altro punto che mi lascia ampiamente perplessa - ma in questo caso, forse, è «scivolata la penna» - è ricompreso nell'articolo 7, che parla solo di cittadini: «I cittadini hanno diritto di agire secondo i dettami imprescindibili della propria coscienza». I cittadini italiani? Europei? E gli stranieri, poveri cives peregrini, non hanno una coscienza? In questo caso starei più attenta, altro che discriminazione!
L'articolo 19 va letto nel contesto delle altre norme costituzionali ed è inspiegabile che un progetto che disciplina tali tematiche tralasci questa importante lettura.
Avviandomi rapidamente alla conclusione, spero di essere smentita, ma mi sembra prevedibile che una legge come quella in questione, che moltiplica qualsiasi genere di riti, in un paese come il nostro, in cui il fenomeno delle sette è rimasto abbastanza circoscritto, pur se con episodi drammaticamente violenti e noti a tutti, per i modelli di comportamento che propone, finirà per suscitare un'estensione di discutibili forme pseudoreligiose.
Sugli articoli 7 ed 8, molti costituzionalisti ed ecclesiasticisti qui presenti si soffermeranno; vorrei soltanto evidenziare che la Costituzione repubblicana ha inteso tutelare gli interessi religiosi, in attuazione concreta della stessa libertà religiosa, proprio con il riconoscimento della più ampia autodeterminazione,
indispensabile per le formazioni sociali a finalità religiosa che interpretano interessi che lo Stato è incompetente a regolare autoritativamente.
Dunque, lo scopo perseguito dalle proposte di legge, sotto mentite spoglie, peraltro non soltanto di questi anni (ero bambina quando, negli anni Settanta, vi fu la proposta Basso su queste tematiche), è il tentativo di smantellare il principio della laicità dello Stato, dell'autodeterminazione delle confessioni religiose e dell'applicazione, con riferimento ad esse, del modello della democrazia partecipativa. La programmazione della laicità comporta non che lo Stato sia agnostico o indifferente verso la religione, bensì che, pur riconoscendo l'importanza della religione nella realtà sociale, si dichiari incompetente direttamente a disciplinarla.
È ben comprensibile che tutto ciò abbia deluso e deluda i nostalgici propugnatori di uno Stato rigidamente unitario, poco rispettoso delle comunità e delle sue esigenze, in ultima analisi dello stesso popolo. Nel momento in cui lo Stato pretende di regolare autonomamente le varie manifestazioni della libertà religiosa, come avviene con i progetti di legge in esame, cessa di essere laico e diviene - se vogliamo, paradossalmente - confessionale.
LUIGI LOMBARDI VALLAURI, Professore ordinario di filosofia del diritto presso l'Università di Firenze. Nel mio intervento svilupperò due scenari complessivi, che rispondono al professor Zaccaria sul punto del regime generale. Il primo scenario ha la mia piena approvazione, mentre il secondo costituisce un ripiego.
Lo scenario che ha la mia piena approvazione è quello della completa privatizzazione e riconduzione al diritto comune della materia religiosa. Tale scenario si fonda sulla tesi che lo Stato non ha un interesse pubblico al fatto che un cittadino
preferisca una fede piuttosto che un'altra, o una fede piuttosto che nessuna. Gli argomenti a sostegno della tesi sono di natura filosofico-religiosa e giuridico-costituzionale. Gli argomenti filosofici-religiosi sono tutti quelli riassumibili nel concetto di apofatismo; l'esercizio strenuo della ragione sui problemi ultimi approda all'irrappresentabile, e quindi nessuna religione, nel suo sforzo di tradurre in termini ontologici, intelligibili dalla ragione, i dati rivelati, può andare al di là, nella più favorevole delle ipotesi, di balbettamenti sull'ineffabile, come sanno bene San Giovanni della Croce, Shankara e gli apofatici di tutte le religioni del mondo. Inoltre, è dimostrabile logicamente e storicamente l'inattendibilità di molte dottrine religiose dal punto di vista etico, giuridico e politico; in particolare, le chiese sono state l'avversario da battere per affermare la religione civile dei diritti umani.
Diciamo, quindi, che dal punto di vista filosofico non vi è un interesse della materia religiosa, piuttosto che di altre materie. Dal punto di vista giuridico, non vi è che da richiamare le fonti interne ed internazionali citate nella relazione del professor Zaccaria, cui aggiungerei la bozza di Costituzione, con il richiamo chiaro alle convinzioni come alternative alle confessioni. Ma se lo Stato non ha un interesse pubblico a che i cittadini professino una fede religiosa, non vi è alcun motivo di prevedere per la materia religiosa un regime giuridico diverso da quello riservato alle altre manifestazioni culturali, ad esempio ricreative, sportive, artistiche, umanitario-assistenziali. È necessario e sufficiente il diritto comune relativo alla libertà di coscienza e di manifestazione del pensiero e alla libertà di riunione e di associazione; è sufficiente la tutela comune dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personalità. Il tutto, alla luce del valore supremo
dell'ordinamento, che è il pieno sviluppo - il più possibile liberamente autodefinito - di ciascuna persona umana. Lo Stato è per la persona e non viceversa; lo stesso vale naturalmente per la religione.
In tale quadro, il Concordato con la Chiesa cattolica e le intese di diritto pubblico con le confessioni religiose diverse da quella cattolica appaiono come anomalie o «dinosauri giuridici».
Gli articoli 7 e 8 della Costituzione dovrebbero essere abrogati, facendo rifluire il regime pubblico speciale previsto per le confessioni religiose nel diritto comune. Tuttavia, si potrebbe sostenere che non occorre abrogare tali norme attraverso una revisione costituzionale, in quanto basterebbe una interpretazione costituzionale, trattandosi a ben guardare di verfassungs-widrigen, verfassungs-normen, cioè di norme presenti negli enunciati costituzionali che sono incostituzionali per contrasto con ben più rilevanti e irriformabili principi supremi.
Inoltre, sul piano del diritto comparato, la rinuncia al Concordato e alle intese non farebbe che allineare l'Italia ai regimi delle principali nazioni liberaldemocratiche, tra cui l'India. Siamo gli unici al mondo, credo, ad avere un Concordato.
In questo primo scenario, la materia religiosa verrebbe interamente ricondotta al diritto personale, contrattuale e associativo comune.
Il secondo scenario, che ritengo deteriore, è il mantenimento in vita del regime costituito da Concordato e intese, che considero filosoficamente infondato e giuridicamente para-incostituzionale. In ogni caso, se le intese devono sussistere, devono potersi istituire con tutte le convinzioni - e vorrei che questo termine diventasse tecnico - in materia religiosa.
Questa espressione è stata già usata dalla professoressa Domianello e dal professor Colaianni, e sicuramente si trova ripetutamente in diversi strumenti, quali la Carta di Nizza, recepita nella bozza di Costituzione europea approvata dall'Italia.
A mio giudizio, un'interpretazione evolutiva e sistematica dell'articolo 8 della Costituzione, ormai necessaria, impone di assegnare al termine «confessioni religiose» un significato del tipo: «confessioni e convinzioni in materia religiosa» o, semplicemente, «convinzioni in materia religiosa», non essendo ammissibile che le confessioni religiose in senso stretto godano di un qualsiasi favor legis rispetto a spiritualità religiose solo impropriamente designabili come confessioni - ad esempio, i diversi generi di yoga e di buddismo - o rispetto a sistemi teisti-razionalisti non abramitici - ad esempio, i deismi e le massonerie - o, ancora, rispetto a convinzioni in materia religiosa scettiche, agnostiche, apofatiche, atee, come ad esempio l'Unione atei e agnostici razionalisti associata alla International humanist and ethical union.
Un'interpretazione dell'articolo 8 nel senso da me preconizzato imporrebbe allo Stato di esaminare paritariamente tutte le richieste di intese avanzate da entità rappresentative di convinzioni in materia religiosa. Propongo, quindi, una serie di emendamenti che adesso evito di enunciare, ma che sono comunque contenuti nel testo scritto che consegnerò al termine del mio intervento.
Ribadisco che, anche con queste correzioni, il meccanismo mi sembra al tempo stesso filosoficamente incongruo, in quanto attribuisce uno status eccezionale alla materia religiosa, e giuridico-burocraticamente sovradimensionato in quanto mobilita, a mio giudizio grottescamente, Consiglio di Stato, Governo e Parlamento.
Siccome ritengo che il Club mediterranée o il Club alpino siano altrettanto legittimati, quanto qualunque confessione religiosa, a chiedere il riconoscimento dell'eventuale 8 per mille, il fatto che un Club mediterranée possa essere esaminato dal Consiglio di Stato, possa rivolgersi al Capo del Governo e ottenere una legge del Parlamento mi sembra semplicemente grottesco.
Sempre con riferimento al secondo e deteriore scenario, intendo sottolineare che, se proprio vogliamo mantenere in vita i «dinosauri giuridici» del Concordato e delle intese, possiamo renderli molto meno appetibili e discriminatori. Raccolgo qui un suggerimento telefonico dell'onorevole Zaccaria.
Per ottenere questo risultato, basterebbe agevolare a tal punto la stipulazione di intese - il cui iter burocratico, si badi, non ha la copertura costituzionale dell'articolo 8 -, in modo tale da instaurare nei fatti un regime di sostanziale non discriminazione tra tutte le entità che rappresentano convinzioni in materia religiosa. Ad esempio, si potrebbe collegare la maggioranza delle conseguenze normalmente collegate alle intese al riconoscimento della personalità giuridica e, se si vuole mantenere il «dinosauro», fare del riconoscimento della personalità una premessa ovvia di un atto quasi dovuto, che sarebbe poi l'intesa, il che si avvicinerebbe nella sostanza, se non nella forma, al modello da me preferito. È chiaro che ciò imporrebbe di modificare drasticamente le leggi.
Vengo, infine, ad una questione che mi ha coinvolto personalmente e che è trascurata nelle proposte di legge in esame: mi riferisco alla libertà di insegnamento. Quasi tutti qui sanno che sono stato privato dell'insegnamento nell'Università del Sacro Cuore per sopravvenuta e asserita incompatibilità di alcune parti del mio pensiero con la dottrina cattolica.
Tuttavia, questo problema riguarda alcune decine di migliaia di docenti e alcune centinaia di migliaia di loro alunni in Italia, cioè tutti gli insegnanti di religione, che insegnano la religione cattolica a spese dello Stato nella scuola pubblica, e tutti gli insegnanti di ogni materia che la insegnano nelle scuole confessionali.
È chiaro che, nello scenario preferenziale da me sopra delineato, non è giustificabile alcun insegnamento catechistico di una determinata religione nella scuola di tutti. La piccola casa «scuola pubblica» deve riflettere i lineamenti della grande casa «Repubblica italiana», che non fa proprio un credo religioso piuttosto che un altro. Qui l'India insegna, in quanto in questo paese è vietato insegnare religione nella scuola.
Una volta ancora, intendo suggerire qualche possibile correzione allo scenario «dinosauri». Parto dai due principali ricorsi attivati contro un decreto di espulsione da università cattoliche, vale a dire dal caso Cordero del 1972 e dal caso Lombardi Vallauri del 1997.
Il caso Cordero è stato deciso dalla Corte costituzionale nel senso che la libertà dell'ente prevale sulla libertà nell'ente, ossia che il vero titolare della libertà di insegnamento non è l'insegnante, ma l'ente scolastico di appartenenza o di chi ha per statuto - come una potenza straniera, quale la Santa Sede - la facoltà di controllarne l'indirizzo ideologico. A questa interpretazione si arriva combinando il terzo comma nell'articolo 33 della Costituzione con il diritto di fare propaganda della propria fede religiosa, previsto dall'articolo 19. Quindi, tutti hanno diritto di istituire scuole per fare propaganda della propria fede religiosa. A questa libertà maior si piega, ad avviso della Corte, la libertà minor dell'insegnante.
Nel caso Lombardi Vallauri, il TAR di Milano e, successivamente, il Consiglio di Stato hanno ribadito l'interpretazione della Corte, recepita addirittura dagli occhiuti cardinali, nel 1984, attraverso clausola apposita nel cosiddetto Concordato Craxi. Tale interpretazione stabilisce dunque che, negli enti privati di tendenza, il vero titolare della libertà di insegnamento non è l'insegnante, ma l'ente.
Oltre a discutere tale interpretazione, i ricorrenti hanno però sollevato, con maggior forza e principalmente, la questione procedurale. Anche ammesso e non concesso che l'ente abbia diritto di rimuovere l'insegnante non in linea con l'indirizzo ideologico dell'ente, non è detto che abbia diritto di rimuoverlo unilateralmente e autoritariamente. Il diritto ad un equo processo appartiene senza dubbio ai diritti inviolabili dell'uomo - previsti nella Costituzione agli articoli 2, 18 e 24 - ed è un diritto positivamente riconosciuto in modo formale, ad esempio, dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950, recepita nell'ordinamento italiano. Il TAR e il Consiglio di Stato hanno respinto anche il secondo rilievo, cioè quello dell'equo processo.
Allora, in conclusione, ai livelli supremi italiani - questo lo devono sapere tutti i cittadini italiani -, la libertà di insegnamento non spetta agli insegnanti, ma agli enti di insegnamento e l'insegnante non in linea può essere rimosso senza rispettare i principi dell'equo processo. È su questo che io attiro l'attenzione.
La mia richiesta minima e di ripiego è che, nella legge sulla libertà religiosa, la libertà di insegnamento dell'insegnante, in ogni ordine di scuola, venga tutelata almeno sotto il profilo procedurale, esigendo cioè che il provvedimento a suo danno venga emanato da giudici noti, con addebiti precisi, rispettando
il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, la pubblicità, la motivazione, tutti tratti dell'equo processo vistosamente assenti nella procedura seguita dalla Santa Sede e dall'Università Cattolica, nel caso Lombardi Vallauri ed in alcuni altri casi. Èla tesi principale, quella procedurale, che i ricorrenti stanno attualmente sostenendo, esauriti i ricorsi interni, presso la Corte di Strasburgo. Le decisioni della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato hanno tolto all'insegnante italiano non solo la libertà di insegnamento, ma l'esercizio del suo diritto inviolabile ad un equo processo davanti ad un tribunale imparziale (articolo 6 della Convenzione europea).
A mio giudizio, una legge sulla libertà religiosa non può disinteressarsi di questi profili riguardanti la libertà di insegnamento, che coinvolgono in Italia decine di migliaia di insegnanti e centinaia di migliaia di alunni. Le proposte di legge in esame andrebbero integrate - questa è l'unica proposta articolata che sottopongo - con un articolo più o meno del seguente tenore: Le procedure per la rimozione dall'insegnamento, in base all'asserita divergenza dell'insegnante dall'indirizzo ideologico della scuola o dell'istituto di educazione - termini costituzionali - devono essere conformi ai principi generalmente riconosciuti dell'equo processo. Rimarrebbe, ovviamente, il vulnus inferto alla libertà di insegnamento dal principio per cui nelle scuole e negli istituti di educazione caratterizzati da un particolare indirizzo ideologico l'insegnante non è libero di manifestare i risultati autentici del suo pensiero, anche a proposito dell'indirizzo ideologico dell'ente stesso di appartenenza. L'espressione: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento» (articolo 33 della Costituzione) non può non riferirsi primariamente e ultimamente alla libertà dell'insegnante.
FRANCESCO SAVERIO MARINI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «Tor Vergata» di Roma. Signor presidente, anch'io ho inviato un testo scritto, quindi sarò estremamente sintetico e mi limiterò solo ad alcune notazioni di carattere più generale.
Inizio dal capo I dei progetti di legge e, in particolare, mi vorrei soffermare - sono notazioni che, in parte, sono già state accennate - su quelle disposizioni che ripetono, o ancora peggio riformulano, il dettato costituzionale.
Il presidente Violante, quando era Presidente della Camera, ebbe tra l'altro il merito di sensibilizzare le Camere alle esigenze di drafting legislativo. Trovo che sia un discutibile, sebbene frequente, esercizio di tecnica legislativa quello di ripetere negli atti normativi il contenuto di norme sopraordinate il cui effetto, nella migliore delle ipotesi, è quello di introdurre disposizioni ridondanti, o ancor peggio, norme di dubbia costituzionalità. Ciò vale in modo particolare per i diritti di libertà i quali, come è già stato osservato, non necessitano di alcuna attuazione, ma solo di astensione da parte dello Stato.
Diverso - come ricordava il professor Zaccaria - sarebbe il caso dei diritti sociali, ma in questo caso ci sarebbe il problema di copertura finanziaria. A tal proposito, citerò qualche esempio di disposizione meramente ripetitiva: l'articolo 1 ribadisce la superiorità gerarchica di tre categorie di fonti, che è già desumibile dalla Costituzione, la quale, peraltro, nell'articolo 10, comma 1, si riferisce a tutte le norme internazionali generalmente riconosciute e non solo ai principi, come invece fanno i progetti di legge. L'articolo 2 sembra ripetere quanto disposto dall'articolo 19 della Costituzione, con qualche differenza quanto meno discutibile: innanzitutto, esso introduce un'indefinita libertà di coscienza accanto alla libertà
di religione, senza che sia possibile comprendere se si tratti di un'endiadi (nel qual caso è solo fonte di confusione) oppure di concetti diversi, che allora necessiterebbero di un idoneo criterio distintivo. Lo stesso vale per la previsione che associa la fede religiosa alla «credenza». Forse, il problema potrebbe essere sdrammatizzato attraverso l'inserimento di alcune definizioni almeno di questi concetti.
La previsione contenuta nello stesso articolo 2 dei progetti di legge, relativa ai limiti della libertà religiosa, è - a mio modo di vedere - errata. Infatti, come già è stato rilevato, esistono limiti costituzionali anche al di fuori dell'articolo 19 della Costituzione; è che l'articolo 20 della Costituzione non introduce alcun limite, ma pone solo garanzia al diritto.
Gli articoli 3, 5 e 6 dei progetti di legge risultano altrettanto inutili, in quanto ribadiscono previsioni costituzionali - ripetiamo, immediatamente precettive - contenute negli articoli 3, 13, 17, 18 e 20 della Costituzione. Potrei continuare, ma sul punto rinvio al testo che ho trasmesso.
Quanto al capo II, vorrei premettere che, diversamente da quanto spesso si ripete nel dibattito politico, la Costituzione non impone un'uguaglianza di trattamento per le confessioni, limitandosi a garantire un'uguale libertà; per la Costituzione vi è, dunque, uguaglianza nella libertà, e precisamente nei limiti della libertà, e non nell'attribuzione di poteri di natura pubblicistica. A tal riguardo, ossia relativamente all'attribuzione di poteri di natura pubblicistica, il terzo comma dell'articolo 8 sembra imporre soluzioni differenziate per le singole confessioni; infatti, le discipline relative a tali soggetti, per il costituente, non andavano e non vanno definite unilateralmente e in modo indifferenziato, ma vanno pesate e concordate di volta in volta con le rappresentanze delle singole confessioni, tenendo conto della specificità dei differenti statuti
e delle diverse regole religiose. Osservava poc'anzi il collega Colaianni che addirittura ci sono dei problemi terminologici, relativamente ad alcune confessioni religiose, che possono essere risolti nelle singole intese.
Sulla base di quanto precede, può concludersi che le confessioni, come tutte le associazioni religiose, possono acquisire personalità giuridica e possono godere del regime privatistico degli enti riconosciuti, senza che peraltro sia necessaria a tale scopo una legge apposita. Le norme legislative non sembrano invece legittimate ad attribuire in via generale poteri pubblicistici a tali persone giuridiche e, dunque, a regolare in modo indifferenziato i rapporti tra lo Stato e le confessioni. Per esemplificare: gli effetti civili del matrimonio, la scuola pubblica, la sepoltura sono materie che non riguardano la vita privatistica dell'associazione religiosa riconosciuta, ma rappresentano l'esercizio di un potere pubblicistico, il quale può essere attribuito ad una confessione solo da una legge specifica approvata sulla base di un'intesa con la relativa rappresentanza.
Per quanto riguarda la domanda sulla poligamia, a mio parere, il problema non esiste perché il matrimonio celebrato dal ministro del culto, che non ha effetti civili, non produce alcun vincolo giuridico e, quindi secondo me non pone nessun problema giuridico.
Un'ultima notazione concerne il capo III, dedicato alla stipulazione delle intese. Esso codifica una prassi che si è ormai andata consolidando e, sotto questo aspetto, appare un intervento apprezzabile e una attuazione opportuna della Costituzione, anche perché la Costituzione, da questo punto di vista, si limita a menzionare un atto - l'intesa - senza specificarne il procedimento di formazione e di approvazione.
Nel merito, condivido le perplessità dell'onorevole Zaccaria sui tempi parlamentari e mi limito ad osservare che il procedimento potrebbe essere integrato con la partecipazione del Presidente della Repubblica nella fase perfettiva dell'impresa. Trattandosi di un accordo concluso dallo Stato italiano, appare cioè auspicabile che, analogamente a quanto accade sul piano internazionale, l'impegno sia assunto attraverso l'organo che gode della rappresentanza esterna dello Stato, ossia il Presidente della Repubblica.
SERGIO LARICCIA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Signor presidente, voglio annunciare innanzitutto che, purtroppo, oggi pomeriggio non potrò partecipare ai lavori di questa Commissione perché mi devo recare a Firenze per la presentazione di un fascicolo della rivista Democrazia e diritto sul quale ci sono vari contributi in materia di laicità.
Voglio dire subito che - a mio parere - queste proposte di legge, ove venissero approvate, produrrebbero danni; e dico questo proprio per collegarmi a chi, all'inizio della mattinata, ha affermato che, in ogni caso, le stesse non produrrebbero danni. Sono convinto, invece, che ciò avverrebbe e, quindi, sono personalmente impegnato a partecipare a questa audizione per dire tutto il possibile al fine di ostacolare l'approvazione di queste proposte di legge. Infatti, non credo che sia ammissibile e proponibile una prospettiva di «dimagrimento» del testo, una prospettiva di «dieta»; quindi, penso - usando espressioni che sono in qualche modo collegate alla tematica religiosa - che invece occorra parlare di ipotetico «aborto» o addirittura di «eutanasia».
Affermo ciò perché credo che queste proposte di legge siano sbagliate nell'impianto. A tal proposito, mi ricollego a quanto dichiarava poc'anzi l'onorevole Zaccaria in merito ad alcuni
punti fondamentali; infatti, a mio avviso una legge in materia religiosa non può avere come riferimento esclusivo la tematica della libertà.
É troppo chiaro - e questo dovrebbe costituire una premessa imprescindibile - che i profili della libertà e dell'eguaglianza sono indissociabili. Pertanto, un'eventuale proposta di legge deve contenere insieme le garanzie di libertà e di uguaglianza.
Dirò più oltre che è datata la lettura della Costituzione nel senso di ritenere che non vi siano delle disposizioni a tutela dell'eguaglianza delle confessioni religiose in norme diverse rispetto all'articolo 8, primo comma, della Costituzione. L'articolo 3 della stessa, infatti, nel garantire la parità di tutti i cittadini davanti alla legge, garantisce anche il profilo dei gruppi sociali e delle associazioni. Lo ha detto la Corte costituzionale, in importanti sentenze del 1966 e del 1969; inoltre, vi sono moltissimi scritti della dottrina che - da quanto ho sentito - sono completamente ignorati. Mi ricollego in modo particolare a quanto diceva poco fa il collega Marini: la garanzia dell'eguaglianza della Costituzione nei confronti della materia religiosa, non riguardano soltanto la tematica dell'eguale libertà. Infatti, vi è anche un'eguaglianza delle confessioni religiose. Questo lo dico anche con riferimento a ciò che ho letto sui giornali di ieri, a proposito del fatto che non vi sono nella Costituzione delle garanzie per l'eguale trattamento nei confronti delle confessioni religiose: direi che bisogna studiare di più il diritto costituzionale che è fatto di norme, di sentenze costituzionali, nonché di scritti giuridici.
Il secondo punto riguarda il fatto che non è possibile fare una proposta di legge in materia di libertà religiosa senza toccare la problematica di quello che già è stato fatto, vale a dire delle norme concordatarie e di quelle stipulate attraverso
le intese. Infatti, molti problemi di inattuazione della Costituzione in materia di garanzia di libertà sono proprio collegabili alle disposizioni pattizie. Dunque, non si può prescindere da questo e non toccare la tematica di quanto già è stato stipulato con il Concordato del 1984 e delle altre intese stipulate.
Come terzo profilo, non si può immaginare una legge in materia di libertà religiosa che non contenga dei riferimenti ai problemi dei simboli religiosi, ai quali è stato fatto felicemente ed efficacemente riferimento dall'amico Nicola Colaianni, al problema dell'abbigliamento, a quello del crocifisso (sul quale vi è peraltro una recente ed importante sentenza in materia disciplinare del Consiglio superiore della magistratura), alla materia di finanziamento dei culti e all'eguaglianza delle confessioni e delle organizzazioni filosofiche e non confessionali.
Leggo una parte del testo per cercare di dire cose nel modo più preciso possibile. Ricordo che sono qui, come mi sembra - e credo di essere stato -, il più anziano dei professori di diritto ecclesiastico, considerato che ho cominciato a studiare il diritto ecclesiastico sin dal 1954, quando ho avuto la fortuna di avere come maestro Arturo Carlo Jemolo. Da quegli anni è cominciata la lettura costante delle riviste Belfagor e Il Ponte di Firenze, rispettivamente dirette, come sappiamo, da Luigi Russo e da Piero Calamandrei. É nel 1953 che ho appreso quanto nera sia stata la storia della Costituzione italiana e l'attuazione della democrazia in Italia, attraverso una vergognosa pagina di persecuzione degli evangelici in Italia. Devo all'appassionata prosa di Giorgio Spini, il padre dell'onorevole Valdo Spini, la lettura del famoso saggio pubblicato sul n. 1 della rivista Il Ponte del 1953 (pagine 1-14). Invito chi vuole oggi a meditare sul futuro della libertà religiosa in Italia ed a
guardare anche qual è stato il passato dell'Italia democratica. Infatti, ciò di cui parlo è avvenuto ovviamente in un periodo democratico, quando soltanto la passione, lo studio e l'impegno civile di studiosi come Gaetano Salvemini e Arturo Carlo Jemolo valsero a richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica su questi problemi. Anche in Parlamento, vi furono fortunatamente importanti sollecitazioni.
Sono passati molti anni da allora e pur nella consapevolezza di quanto mutate siano le condizioni del rispetto dei diritti costituzionali in materia religiosa, occorre purtroppo sottolineare come, ancora oggi, con riferimento materia religiosa, l'ordinamento italiano non si possa considerare democratico. Infatti, non è garantito il principio di laicità delle istituzioni repubblicane. Al riguardo bisogna precisamente tenere presente che un ordinamento o laico o non è democratico. La mancanza di un qualsiasi riferimento alla laicità in questa proposta di legge non credo sia casuale. In tale proposta, infatti, non sono evitati il riferimento ai nodi problematici.
È noto che nel nostro paese, quando si parla di laicità, vi è una larghissima parte dell'opinione pubblica che fa riferimento a un concetto di «sana laicità» che non è quello di laicità dell'ordinamento italiano. In secondo luogo, non è garantita l'eguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge. A questo proposito ripeto ciò che ho detto poco fa, con riferimento all'importanza dell'articolo 3 della Costituzione. Non è garantita l'eguale libertà delle confessioni religiose giacché, come ha osservato Lelio Basso in Parlamento nella sua relazione di modifica costituzionale - ricordata peraltro da Maria Pia Baccari - del 27 febbraio 1972, l'eguale libertà delle confessioni religiose risulta violata ogni qual volta ad una confessione religiosa sia offerta «la possibilità di una
esplicazione più accentuata della libertà» (cito dalla pagina 16 della relazione di Lelio Basso), ovvero ogni qualvolta, dunque, la libertà si trasformi in privilegio, in violazione della Costituzione italiana e dei principi del Concilio Vaticano II. Tra i presenti vi sono persone che hanno vissuto appassionatamente l'esperienza del Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965. Condivido altresì l'impegno di Giuseppe Alberico che da Bologna insiste nel ritenere che vi siano delle proposizioni tuttora di grande attualità, anche per il futuro della società italiana. Ricordo il contenuto di quel paragrafo 76 della costituzione conciliare, Gaudium Spes, nella quale - come ricorderete - vi era scritto: «La chiesa rinuncerà all'esercizio dei diritti legittimamente acquisiti, ove la loro presenza possa far dubitare della sincerità della sua testimonianza nel mondo». Sono parole che ancora costituiscono riferimenti per alcune persone che vivono con passione questi problemi negli ambienti dei credenti cattolici.
Non sono garantite, anche dopo la stipulazione del concordato di villa Madama del 18 febbraio 1984, le libertà di religione - e verso la religione - di moltissimi italiani, credenti e non credenti, bambini e adulti, donne e uomini, alunni e insegnanti, dentro e fuori la scuola. A questo proposito, ribadisco pienamente quello che diceva poco fa Annibale Marini in merito al fatto che è sconsolante l'esperienza, quando si parla di aspetti della libertà di coscienza, di far riferimento alla sola scuola pubblica. Naturalmente, anche qui credo che i riferimenti non siano casuali, in quanto non si può sempre considerare il rispetto di alcuni principi nella scuola privata e nella scuola confessionale, dal momento che proprio in questi casi vi sono nodi problematici dei quali ha lucidamente parlato poco fa Luigi Lombardi Vallauri.
Il nostro, al momento attuale, non è un ordinamento democratico in quanto non è garantita l'eguaglianza tra credenze religiose e quelle filosofiche, tra confessioni religiose e organizzazioni non confessionali filosofiche. Se dovessi qui stilare una misura di consenso, direi che - tra coloro che hanno parlato - sono soprattutto d'accordo con quello che detto Luigi Lombardi Vallauri.
Sono tuttora previsti in materia religiosa controlli esercitati da giudici come quelli del Consiglio di Stato che non godono delle necessarie garanzie di indipendenza per il loro rapporto con il potere governativo, che tuttora esercita una forte influenza nella composizione del Consiglio di Stato medesimo. Quest'ultimo non ha competenze in materia di diritti soggettivi, mentre invece la materia religiosa è fatta di rispetto di diritti soggettivi e non di interessi legittimi. Quando leggo in una proposta di legge che il problema sul riconoscimento degli enti viene ancora attribuito al Consiglio di Stato che ha diritto, soprattutto con la sentenza n. 204 del 2004, di occuparsi della lesione degli interessi legittimi e non dei diritti soggettivi, mi sento di dire che questo non è l'organo che può avere una voce in proposito e la possibilità di fornire un utile contributo.
Ritengo inesatta l'affermazione che la Costituzione non garantisca la piena eguaglianza. È questa un'affermazione datata poiché non ci si ricorda quando - in attuazione del principio al quale facciamo tanto riferimento - il carissimo amico Paolo Barile parlava della capacità espansiva della Costituzione. Si ignora che vi è stato un lungo periodo nel quale si è affermata la mancata applicabilità - lo ha scritto anche Costantino Mortati, aderendo ad una mia nota sentenza in materia di vilipendio della religione cattolica - dell'articolo 3 della Costituzione, laddove tutela i gruppi sociali e le
confessioni religiose. Nella mia relazione scritta mi sono permesso di dare alcune indicazioni su miei scritti del passato.
Nella Costituzione, comunque, a disciplinare la materia religiosa, non vi sono soltanto gli articoli 7 e 8, ma vi sono soprattutto gli articoli 2 e 3. Per esempio, prima si è fatto riferimento agli articoli 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione: ebbene, amico Roberto Zaccaria, il mancato riferimento anche all'articolo 2 della Costituzione è grave, in quanto la questione è tutta impostata sull' ordine del giorno del 9 settembre 1946, nel quale vi fu la partecipazione di Dossetti e la condivisione di Togliatti. Quest'ultimo ebbe a dire che il fine della democrazia è la tutela della persona umana. Siamo d'accordo, inoltre, con quanto disse l'onorevole Dossetti che quella famosa frase di Togliatti rappresentava una pagina importante che naturalmente in questa sede nessuno può ignorare. Valutiamo, dunque, il problema dal punto di vista degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Al riguardo, dovrei dire qualcosa sulla superficialità con la quale, anche ieri, in un'intervista rilasciata dall'onorevole Spini, si è affermato che il Concordato ha natura di trattato internazionale; ciò non è poi del tutto pacifico. Vi sono studi al riguardo. Incominciò Pino Casuscelli, attraverso scritti importanti su questa materia. Che il concordato abbia anche, in una parte della dottrina, una configurazione di patto di diritto interno, dev'essere ricordato da chi affronta i problemi di tutela della libertà religiosa, perché altrimenti ci si costruisce un'impostazione che può essere deviante! Mi riferisco, in particolare, al concetto dei tre piani; naturalmente, non ho potuto non leggere con passione le interviste apparse su molti giornali di ieri. Quella comprendente tre piani (cattolici al piano nobile, coloro che hanno
avuto l'intesa all'ultimo piano e soltanto in basso coloro che non hanno le intese) è una costruzione basata, in parte, su premesse infondate, sbagliate.
Comunque, se poniamo l'accento sugli articoli 2 e 3 della Costituzione, in conformità ad una tendenza che risulta evidente nella maggior parte degli studi dedicati all'interpretazione delle disposizioni costituzionali in materia religiosa, non v'è dubbio che i cittadini italiani devono tutti abitare sullo stesso piano di un condominio. Ed, infatti, nell'articolo 2 della Costituzione si stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali; inoltre, l'articolo 3 della Costituzione stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione di religione.
Non vi illudete che la norma sul divieto di discriminazione corrisponda alla norma sull'affermazione dell'eguaglianza! Sono due cose diverse! Quello che leggo sul divieto di discriminazione non è sufficiente per dire che, nelle proposte di legge, vi è la tutela dell'eguaglianza. La tutela dell'eguaglianza è imprescindibile per chiunque voglia affrontare il problema della tutela della libertà di religione. Ce lo ha insegnato Francesco Ruffini.
Di tutto questo, laicità, garanzie di eguaglianza, pari dignità sociale, eguale libertà, libertà verso la regione e dalla religione, giurisdizione dei giudici italiani competenti in materia dei diritti soggettivi, nelle due proposte di legge non vi è traccia! Dunque, le due proposte di legge, ove approvate, determinerebbero un decisivo peggioramento delle condizioni di eguaglianza e di libertà di tutti i cittadini.
Occorre ritenere che le tre formule, che devono, comunque, essere contemplate ed espressamente regolamentate in una disciplina legislativa che affronti la tematica religiosa, sono
quelle della laicità (non basta più considerare, come sappiamo tutti, la laicità dello Stato; bisogna parlare di laicità della Repubblica, dopo la riforma dell'articolo 114 della Costituzione), dell'eguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose e delle libertà di religione e verso la religione.
Senza dimenticare (non posso ometterlo, avviandomi alle conclusioni), che, se è vero, come si diceva ieri, sempre nell'intervista dell'onorevole Spini, che la proposta di abolizione del Concordato vorrebbe dire «no» all'approvazione della legge, è anche vero che dire «sì» all'approvazione delle due proposte di legge significa dire definitivamente «no» all'abolizione del Concordato, prospettiva cara e viva non soltanto a Basso, quando nel 1970 scriveva sull'Astrolabio il suo articolo «Perché chiedo l'abolizione del Concordato», ma anche nell'opinione pubblica italiana, che dimostra segni di crescente insofferenza verso le norme concordatarie. Questa insofferenza non proviene soltanto da ambienti di non credenti, ma anche da ambienti di credenti che non ritengono accettabile di poter vivere la vita della Repubblica italiana, sentendosi sempre oggetto, riferimento di privilegi, anziché di libertà. Lo ribadisco: la libertà riconosciuta in maggior misura agli uni rispetto agli altri non è più libertà, si chiama privilegio!
Che l'abrogazione della legislazione fascista degli anni '29 e '30 costituisca un obiettivo degno di essere perseguito, non giustifica, però, l'approvazione di una legge che è più restrittiva per l'esercizio dei diritti di libertà e di uguaglianza rispetto alle disposizioni della Costituzione.
Molte disposizioni delle due proposte di legge - ricordo, in modo particolare, quelle sul riconoscimento della personalità giuridica, che vanno riscritte, qualora si dovesse arrivare ad una modifica del testo, cosa che non auspico, perché spero vi
sia un abbandono del medesimo -, vanno riscritte completamente, perché sono prospettive legate completamente ad una logica superata.
Ma, insomma, questa è la logica della «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», ossia la logica che attribuisce all'autorità amministrativa il potere di regolare la vita degli enti associativi, laddove, invece, oggi, c'è, come ha detto benissimo Marini, una nuova logica del riconoscimento.
Venti anni fa, ho avuto occasione di elaborare un testo sulla base di un suggerimento che veniva da Giorgio Peyrot, un carissimo amico e collega di diritto ecclesiastico, scomparso pochi mesi fa. Egli aveva una pena, un'angoscia. Molti dei presenti probabilmente sanno com'è avvenuta la storia dell'approvazione del concordato nel 1984, avvenuto in concordanza con l'approvazione della legge sui rapporti con la chiesa valdese. Ebbene, Giorgio Peyrot aveva la pena di dovere rispondere ai molti amici e colleghi che gli dicevano: voi, in questo modo, insistendo sul rapporto pattizio con la confessione valdese, avete sacrificato l'istanza abrogazionista del concordato. Quando sollevavamo questa obiezione, rispondeva vivacemente: amici miei, non siete riusciti, nell'ordinamento democratico (come ha detto, poco fa, Sara Domianello) ad affermare un principio di evidente democraticità, quale era quella del superamento della legislazione del '29 e del '30. Non siete riusciti a fare questo e noi abbiamo dovuto ottenere un'intesa, soprattutto per far sì che nei nostri confronti non sia più vigente la disciplina del '29 e '30.
Dunque, ritorno alla soluzione, forse troppo riduttiva per Zaccaria, come ha specificato all'inizio della mattinata, della norma breve, chiara ed incisiva, nella quale si dica la legge 24 giugno 1929, sull'esercizio di culti ammessi nello Stato, il regio decreto 28 febbraio 1930 n. 289, contenente norme per
l'attuazione della predetta legge, sono abrogati: «Per la garanzia dei diritti di libertà e di uguaglianza dei cittadini e dei non cittadini in Italia è meglio che rimangano nella loro pienezza le garanzie contemplate nella Costituzione e che il potere di interpretarne il contenuto ed i limiti continui a spettare alla Corte costituzionale e ai giudici ordinari del nostro paese». Qui, non ho sottolineato, sbagliando, l'espressione ordinari, perché sono convinto che i giudici amministrativi, in questo momento (lo sono stato anche io per undici anni), non meritano fiducia in materia di rispetto dei diritti soggettivi.
ROBERTO ZACCARIA. Presidente, solo poche battute. Ogni volta che si ricorda Paolo Barile, tra gli altri nomi illustri che sono stati ricordati, ho una personale emozione. Ringrazio di questo stimolo che mi ha dato il professor Lariccia.
Vorrei fare una parziale ammenda; effettivamente, questa mattina non ho ricordato l'articolo 2, ma ho rinviato, come testo generale, alla mia relazione che fa riferimento a ciò. L'ho fatto per ragioni di sintesi, altrimenti il presidente Violante mi avrebbe rimproverato. Volevo essere sintetico ed ho citato solo gli articoli che, esplicitamente, parlano di religione.
Quando all'inizio ha detto che alcuni vorrebbero una legge fatta solo di un articolo abrogativo, pensavo a lei, professore, che ho incontrato in un altro seminario a Firenze. Nonostante ciò, nel mio ottimismo c'è il tentativo di fare una legge più ampia.
Terremo conto, nella misura del possibile, delle cose che lei dice, ma certamente l'ambizione, oggi, è più ampia.
SERGIO LARICCIA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università «La Sapienza» di Roma. È ottimismo o pessimismo?
ROBERTO ZACCARIA. No, no, è ottimismo. Oggi, è ottimismo.
MARCO BOATO. Presidente, intervengo ora perché so che il professor Lariccia non potrà trattenersi per il pomeriggio.
Anche io avevo ascoltato durante il seminario di Firenze, che non era un seminario parlamentare, ma di sede universitaria, l'intervento del professor Lariccia, il quale, tra l'altro, cita una serie di nomi, a cominciare da quelli di Carlo Arturo Jemolo, Gaetano Salvemini, Ruffini, Giogio Spini, tutti nomi anche a me carissimi, anche se non sono un chierico del diritto, ma un laico del diritto da questo punto di vista.
Vorrei solo attirare l'attenzione comune (semmai, interloquiremo meglio nel pomeriggio, se saremo ancora qui, altrimenti non ha importanza, perché continueremo il nostro lavoro) sulle opposte valutazioni, esattamente e simmetricamente opposte, che abbiamo ascoltato nel corso della seduta odierna che è interessantissima dal punto di vista di proposte di modifica, di semplificazione, di arricchimento del testo che, di volta in volta, vengono fatte.
Stiamo acquisendo uno straordinario materiale dal punto di vista conoscitivo, ma abbiamo ascoltato simmetricamente opposte valutazione dalla professoressa Maria Pia Baccari Vari e, da ultimo, dal professor Lariccia.
Non so se sia opportuno che ci interroghiamo - e alcuni l'hanno fatto - sull'accusa a questo tipo di proposte. Si tratta di proposte di legge che sono tali proprio perché devono essere esaminate, modificate, corrette, vagliate, semplificate da una parte ed arricchite dall'altra. Altrimenti, non faremmo le audizioni, che non sono una presa in giro dei nostri ospiti, ma un riconoscimento straordinario che il Parlamento dà agli esperti sotto diversi profili, proprio perché diano un aiuto ai lavori parlamentari. Da una parte abbiamo ascoltato che
questa è una legge individualista e laicista: mi dispiace, perché ho una memoria carissima, anche sul piano personale, del professor Giorgio La Pira. Sono cattolico ma siamo in un Stato di diritto laico e, dunque, cattolici o non cattolici, credenti o non credenti, o islamici che siamo, in questo Parlamento, credo che ai principi della laicità dello Stato di diritto dovremmo tutti tenere profondamente.
Il professor Marco Ventura ed altri sono intervenuti criticamente, però con l'idea di dire quali sono gli elementi essenziali che dovrebbero essere contenuti in una proposta di legge di questo tipo. Vorrei sottolineare che chi legittimamente in Parlamento - anche se con il mio totale dissenso - si contrappone ad una proposta di legge di questo tipo lo fa da posizioni esattamente opposte a quelle espresse ora dal professor Lariccia.
In Parlamento vi è un'opposizione - legittima, ci mancherebbe altro - che dura da tre legislature sulla base di concezioni che riguardano l'identità cristiana, il rifiuto del riconoscimento dei diritti di altre confessioni ed una stigmatizzazione demonizzante dell'Islam in quanto tale (non, ovviamente, del fondamentalismo e del terrorismo che tutti noi rifiutiamo). Vorrei solo porre qualche interrogativo dal punto di vista del contesto storico-politico in cui tutto ciò sta avvenendo. Cito il professor Lariccia solo perché ha detto che poi dovrà assentarsi. Le mie prime iniziative politiche da cattolico conciliare sono state contro il Concordato: questo è legittimo da parte sua, professore, e da parte mia, cittadino prima e deputato oggi. Tuttavia, il Concordato sta nella Costituzione. Certo che è un dinosauro giuridico, come ha detto il professor Lombardi Vallauri. Da quando ero giovane la vicenda di Cordero e quella che abbiamo ascoltato adesso mi ha appassionato enormemente. Ripeto: sono un cattolico,
ma sono integralmente laico sul piano politico, e credo che le due cose possano stare insieme, anche se abbiamo conosciuto qualche riflessione critica al riguardo. Si può dire che andrebbero abrogati gli articoli 7 e 8 della Costituzione, ma quelli sono in Costituzione. Ci sono gli articoli 2, sui diritti inviolabili dell'uomo, e 3, che costituiscono i principi fondamentalissimi, ma ci sono anche gli articoli 7, 8, 19, 20 e 21, che non riguarda la libertà religiosa definita come tale ma la libertà di pensiero in cui rientra, ovviamente, la libertà degli atei, degli agnostici e di tutti di esprimere il proprio pensiero. Forse, bisogna tener conto di questa complessità e di questa peculiarità della nostra Costituzione. Dubito si possa dire - non l'ha detto lei - che si immagina che si abrogano gli articoli 7 e 8 o non se ne tiene incontro in via interpretativa. Si tratta di due principi fondamentali della nostra Costituzione, che possono piacerci o non piacerci. Tutti voi conoscete le vicende dell'Assemblea costituente sull'allora articolo 5, poi diventato articolo 7 in sede di approvazione, ma questa è la nostra storia, è la Costituzione con cui dobbiamo fare i conti, con tutte le osservazioni critiche, anche di grandissima rilevanza ed interesse, che stiamo ascoltando e continueremo ad ascoltare. Però, forse, un richiamo a tale contesto - che nel primo intervento, del resto, c'era stato - sarebbe opportuno. Lo dico semplicemente in termini di interlocuzione, e domando scusa al presidente per il tempo impiegato.
SERGIO LARICCIA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Signor presidente, vorrei dire solo due parole perché l'onorevole Boato mi ha chiamato in causa...
MARCO BOATO. Con grandissimo rispetto!
SERGIO LARICCIA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università «La Sapienza» di Roma. In realtà, le parole dovrebbero essere di ringraziamento perché non posso che essere grato sia dell'occasione datami, sia delle parole pronunciate. Infatti, sapete che chi insegna soltanto all'università e non esercita la professione si propone il compito di smuovere le coscienze - diciamo così - e di richiamare le memorie del passato. La materia dei rapporti tra Stato e confessioni religiose è molto complicata. Chi la legge con cinquant'anni di partecipazione a convegni, di scritti, di lavori, ha l'impressione che in questa sede sia stata ridotta a qualcosa di meno significativo di quanto è effettivamente. Il contrasto tra la mia interpretazione e quella di Maria Pia Baccari, alla quale mi lega un rapporto di amicizia, dovuto anche ad un rapporto di amicizia e ad un fortissimo contrasto di opinioni con suo padre, Renato Baccari, su questi problemi, dimostra che quella difficoltà di collegamento tra tesi diverse continua a sussistere anche oggi perché vi sono varie interpretazioni. Ad esempio, vi siete fatti carico di pensare che la Costituzione dice che i loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi e che, secondo un'interpretazione che risale a Franco Finocchiaro, ma che ha tanti altri sostenitori, la Costituzione non continua ad offrire l'ombrello costituzionale al Patto di Villa Madama? Mi riferisco al fatto che quello che era immodificabile in precedenza, quando si parlava dei patti del 1929, diventa oggi modificabile nella prospettiva di un nuovo Concordato che sostituisce il Patto lateranense del 1929. A me non sembra che, anche dall'intervento dell'onorevole Boato...
MARCO BOATO. La Costituzione dice che le modificazione dei patti accettate dalle due parti non richiedono procedimenti di revisione. Però, devono essere accettate dalle parti.
SERGIO LARICCIA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Insisto, parlo dei Patti lateranensi. Noi oggi non abbiamo più se non un Patto lateranense, il Trattato, quello sì con natura internazionale. Innanzitutto, a mio avviso il Concordato non ha pacificamente natura di trattato internazionale: se uno dei proponenti le proposte di legge mi dice il contrario mi preoccupo. Inoltre, se non si ricorda che l'articolo della Costituzione potrebbe non sostenere più con la sua garanzia costituzionale il nuovo Patto del 1984 continuo a preoccuparmi. Le preoccupazioni vengono, quindi, dalle parole dei due presentatori della proposta di legge, con tutta la stima e l'affetto nei loro confronti e la lettura di testi e scritti del passato, che devo a Marco Boato; penso ai contributi di Valdo Spini, oltre che a quelli di Giorgio Spini, dal 1945 ad oggi; ricordo moltissimi interventi dell'onorevole Boato. Bisogna riflettere ancora un po', ma per le strettoie dei lavori procedurali del Parlamento capisco che stanno per finire i tempi della riflessione.
MAURIZIO TURCO. Signor presidente, vorrei davvero ringraziare lei, il collega Zaccaria ed i colleghi di tutti i gruppi che hanno indicato ed invitato i professori qui presenti. Ho avuto varie volte durante questa audizione la tentazione di sottoscrivere gli emendamenti - per parlare in termini parlamentari - dei professori Casuscelli, Colaianni e Lombardi Vallauri.
PRESIDENTE. Infatti, immaginavo il suo entusiasmo...
MAURIZIO TURCO. Alla fine, penso che l'intervento del professor Lariccia abbia fatto una buona sintesi di tutti questi interventi. Soprattutto, ha confermato una mia convinzione del
tutto politica - che ho già preannunciato nel corso delle precedenti audizioni con la Conferenza episcopale italiana e con la Consulta islamica - che, mentre noi parliamo di libertà religiosa, una religione è considerata diversa dalle altre, inficiando così il termine stesso di libertà religiosa, che dovrebbe porre sullo stesso piano tutte le confessioni. Ma ascoltare il professor Lariccia mi ha commosso davvero perché, in questo Parlamento, Gaetano Salvemini ed Arturo Carlo Jemolo (per non parlare di Ernesto Rossi e di Piero Calamandrei) vengono citati sempre incidentalmente - e nemmeno strumentalmente - per un onore alla loro memoria, come se fosse un atto dovuto e quasi per far prevalere un pedigree rispetto ad un altro. Penso, invece, che occorra rivendicare l'attualità di queste persone. Credo che il professor Lariccia, nel suo intervento, l'abbia tanto bene incarnata al punto che le sensibilità o le sensazioni che ho manifestato nelle precedenti audizioni si sono trasformate in determinazione. Ritengo dunque necessario - e preannuncio che lavorerò in tal senso - che venga presentato un progetto di legge per l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica.
Vorrei davvero chiedere a tutti i professori qui presenti di leggere l'intervento scritto depositato da monsignor Betori (perché fa fede) e di verificare se che ciò che vi è riportato corrisponde a quanto è stato detto e scritto nel corso del Concilio Vaticano II, il quale è diventato, per quanto riguarda la Santa Sede, la base per la stipula degli Accordi del 1984. Bisognerebbe quindi capire, assieme agli uomini di scienza, se, alla luce delle questioni poste da monsignor Betori, tale Accordo del 1984 sia ancora valido, anche se potrei dire che, politicamente, ho già maturato una mia convinzione.
Mi limito a citare solamente una parte di tale documento: «(...) in mancanza di un sicuro criterio dogmatico» - e chi dovrebbe stabilirlo, lo Stato? - «idoneo a definire, in modo univoco, il concetto di religione e di confessione religiosa, pare opportuno riaffermare» - lo dice la Conferenza episcopale italiana cosa debba riaffermare lo Stato! - «che lo Stato può intervenire, legittimamente, per negare il riconoscimento come tale a realtà connotate da caratteri contrastanti con qualsiasi forma di religiosità (...)».
Lascio davvero nelle vostre mani detta documentazione. Ricordo, inoltre, una serie di attività svolte dalla Santa Sede, nel corso di questi decenni, contro l'ordinamento interno della Repubblica italiana per quanto riguarda la vicenda dei delicta graviora. Tale vicenda, a mio avviso, ha messo ulteriormente in discussione il citato Accordo del 1984. Si tratta dei reati di pedofilia, signor presidente.
Vorrei segnalare, infatti, che è stata data disposizione a tutti i vescovi, a partire dal 1962, di tenere segrete - e, quindi, di sottrarre alla giustizia civile - tutte le notizie relative alla commissione di reati...
PRESIDENTE. Nell'ordinamento della Chiesa.
MAURIZIO TURCO. Sì, nell'ordinamento della Chiesa. Oltretutto, se posso approfondire tale questione, nel 2003 il cardinale Tarcisio Bertone, che mi pare sia attualmente Segretario di Stato della Santa Sede, aveva dichiarato che tali disposizioni erano state superate dalla riforma del diritto canonico operata nel 1983 (giusto un anno prima della stipula dei Trattati con la Chiesa cattolica).
Vi è, però, un piccolo particolare: nel 2001, il cardinale Ratzinger aveva ribadito la validità di quelle disposizioni. Questa è stata l'origine di quel processo intentato a Houston,
in sede civile, contro il cardinale Ratzinger, a cui si sarebbe dovuto presentare se non fosse stato eletto Papa (Commenti)... Sì, sì: è così: si sarebbe dovuto presentare se non fosse stato eletto Papa e non avesse chiesto lui stesso l'immunità diplomatica, che gli Stati Uniti d'America gli hanno accordato.
Penso che queste siano questioni essenziali non per la Chiesa cattolica, per le confessioni e per la libertà religiosa, ma per la Repubblica, le quali, in occasione dello svolgimento di questo dibattito, assumono tutta la loro rilevanza. Infatti, se non tentassimo di comprendere come quegli accordi vengano o meno rispettati, non potremmo sicuramente gettare le basi per futuri e nuovi accordi con la Chiesa.
FRANCO RUSSO. Signor presidente, come dovrebbe risultare dagli atti dei lavori della I Commissione (perché si tratta solamente di resoconti sommari), in qualità di esponente del gruppo Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, pur aderendo al lavoro che si sta compiendo per consentire alla proposta dell'onorevole Boato di diventare legge dello Stato, ho ricordato l'impegno che abbiamo assunto, da sempre, per il superamento del Concordato. Si tratta di un obiettivo finalizzato a rendere effettivamente paritarie tutte le confessioni religiose nel nostro paese.
Vorrei dire al professor Lariccia, tuttavia, che non ravviso una contraddizione tra tale scopo e l'esistenza, in Italia, di un regime concordatario ex articolo 7 della nostra Costituzione. Non comprendo, infatti, perché non possa essere approvata una legge sulla libertà religiosa che si imperni, come ha affermato la professoressa Domianello, sulla libertà dei singoli di poter esprimere le proprie convinzioni, religiose o meno: quindi, non condivido il suo pessimismo, professor Lariccia.
A mio avviso, dunque, occorre utilizzare la proposta di legge in oggetto proprio per stabilire l'eguaglianza delle confessioni.
L'ultima considerazione che intendo formulare, professor Lariccia, è la seguente. Il presidente Violante, secondo me molto giustamente ed opportunamente, ha ricordato che il problema non riguarda la concessione, da parte dello Stato, di diversi privilegi, come la libertà generale per tutti, il riconoscimento della personalità giuridica o la stipula di un'intesa; egli ha evidenziato, invece, come la pluralità degli strumenti possa essere interpretata quale garanzia, per le diverse convinzioni religiose, di avvalersi o meno dei differenti istituti previsti.
In altri termini, vorrei rilevare che non è pacifico che le differenti religioni abbiano una struttura gerarchica (mi riferisco, ad esempio, ai ministri di culto); dunque, la normativa deve far in modo che anche le confessioni che non siano dotate di un'organizzazione di tipo gerarchico, o non prevedano ministri di culto, possano intrattenere con lo Stato determinati rapporti.
Non mi sembra fondato, quindi, il pessimismo manifestato dal professor Lariccia, anche se spero di non essere successivamente smentito dalla redazione finale e dall'approvazione definitiva della proposta di legge in questione. Infatti, non ravviso il motivo per cui si debba immediatamente vedere in essa un'esaltazione del regime privilegiato accordato alla Chiesa cattolica ed una discriminazione nei confronti degli altri culti.
Al contrario, ritengo possibile utilizzare tale proposta per garantire, in primo luogo, il diritto soggettivo dei singoli ad avere una propria convinzione religiosa o meno. In secondo luogo, si devono tutelare le persone all'interno sia delle
comunità, sia delle famiglie che vogliano educare religiosamente i propri figli. Ribadisco, infine, che occorre assicurare l'uguaglianza delle confessioni religiose.
Comunque, considero gli interventi dei professori Lombardi Vallauri e Lariccia come uno sprone, affinché siano ribaditi i principi fondamentali sanciti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.
MARIA PIA BACCARI VARI, Professore associato di istituzioni di diritto romano presso l'Università «LUMSA». Signor presidente, intervengo brevemente per rendere una precisazione. Ringrazio l'onorevole Boato per l'attenzione che ha dedicato al mio intervento. Riprendendo una sua battuta, voglio dire che sono presente in questa sede veramente come «chierico» del diritto; anzi, come diceva Ulpiano, quale «sacerdote del templum iustitia».
Ricordo che ho citato La Pira e, immediatamente dopo, De Martino. In realtà, vorrei segnalare che amo i concetti di «popolo» e di «libertà». È per tale motivo che mi sono appoggiata all'autorità del rivoluzionario Saint Just, di Robespierre, di Marx e di Gramsci.
PRESIDENTE. Come citazioni sono un po' eterogenee, però (Commenti della professoressa Baccari Vari)!
LUIGI LOMBARDI VALLAURI, Professore ordinario di filosofia del diritto presso l'Università di Firenze. Signor presidente, vorrei solo spendere, come vecchio «romanista», qualche parola sulla libertà e sul popolo. La libertà «del popolo» può essere molto pericolosa per la libertà «nel popolo»: si tratta, ad esempio, del problema di tutte le minoranze canadesi, eccetera. Bisogna scegliere, quindi, se far prevalere l'ontologia delle relazioni «nel popolo» o l'ontologia sostanziale della persona.
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. Signor presidente, mi sento un po' in minoranza perché, in questa sede, sono presenti molti giuristi e solo pochi sociologi...
PRESIDENTE. Lutero diceva: «Juristen bösen Christen», cioè: «giuristi cattivi cristiani»!
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. No, assolutamente no! Comincio col dire che è la terza volta che partecipo a tale iniziativa e lo faccio sempre con grande piacere, perché imparo molte cose anche dai colleghi giuristi (una per ogni legislatura). Spero che alla quarta si intenda parlare dell'interpretazione della legge, non dell'opportunità di approvarla.
Dico subito - è una delle ragioni per cui non ho presentato un intervento scritto - che a me la legge piace e, forse, anche da questo punto di vista sono in minoranza. Credo, peraltro, che, con modesti aggiustamenti di carattere tecnico, sia adeguata a risolvere i problemi sollevati; evidentemente non sono tutti i problemi sotto il profilo dei rapporti tra le persuasioni religiose e lo Stato nel nostro paese.
Vorrei rapidamente sviluppare cinque punti che sono, tranne l'ultimo, di carattere sociologico. Il primo è il seguente: non possiamo troppo facilmente paragonare l'Italia ad altri paesi perché (in questo caso emerge la differenza con i giuristi). Ad esempio, facendo riferimento agli ordinamenti giuridici, nel Regno unito la religione ha un grande rilievo istituzionale. Poi però, nell'ultimo numero del Journal for the Scientific Study of Religion vi sono dei bellissimi quadri statistici di David Voas, che, tra l'altro, è un sostenitore della
teoria della secolarizzazione che io non condivido, secondo cui in Gran Bretagna il 20 per cento delle persone si dichiarano religiose contro l'81 per cento in Italia.
È evidente che l'Italia si trova in una situazione diversa da quella degli altri paesi; lo testimoniano gli altissimi richiami del Presidente della Repubblica che non sarebbero presenti in Danimarca o in una Olanda, non perché i Capi di Stato di questi paesi non abbiano dei personali sentimenti religiosi, forse magari più del Presidente Napolitano, ma perché la situazione sociologica è ampiamente diversa.
Non vi intratterrò sulle statistiche di cui si dibatte in ogni convegno di sociologia delle religioni, ma, certamente, al di là di tutte le controversie, chi partecipa con frequenza almeno mensile a cerimonie religiose in Italia è in proporzione doppia rispetto alla Spagna e quadrupla o quintupla rispetto alla Francia. Ciò non riguarda soltanto la religione cattolica, perché in Italia vi sono oltre 600 minoranze religiose, tra cui, in particolare, centinaia di piccole denominazioni protestanti (nell'Enciclopedia delle religioni in Italia di cui sono editore ne elenchiamo 630): dai loro problemi partì il professor Maselli qui presente, quando formulò le sue prime proposte.
La seconda osservazione è di profilo politico. Direi che oggi, come emerge dal dibattito giornalistico, nonché da quello pregevolissimo cui abbiamo assistito, non è immaginabile che in Italia su una materia così delicata si legiferi a colpi di strette maggioranze ed è necessario un vasto accordo sia nel Parlamento sia nel paese. Quindi, ogni intervento che riduca il nervosismo manifestatosi negli ultimi giorni dovrebbe essere il benvenuto.
Per ridurre il nervosismo e creare un clima favorevole a questa legge, che considero giusta e necessaria, sui diritti delle minoranze religiose, la sociologia ci insegna che occorre che
siano d'accordo le maggioranze. Questo può non piacere a qualche giurista, ma, purtroppo, le cose stanno in questo modo. Laddove le maggioranze si sentono minacciate nei propri diritti, i diritti delle minoranze non passano nei Parlamenti come nel paese. Confido che oggi vi siano pochi giornalisti e mi pare che sia così, perché diversamente...
PRESIDENTE. Vi è la trasmissione sulla rete televisiva satellitare!
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. Il dibattito è stato molto tecnico e spero che i giornalisti si siano un po' annoiati, ma domani potremmo leggere sulla prima pagina di diversi giornali - è un rischio - articoli dal seguente titolo: «Vogliono usare la legge sulla libertà religiosa per abolire il concordato»! Se qualcuno pensa di poter varare in Italia una legge sulla libertà religiosa contro la Chiesa cattolica o di utilizzarla come clava contro la stessa non troverà una maggioranza nel Parlamento e non troverà la maggioranza nel paese.
Pertanto, starei molto attento a far rientrare nella legge affermazioni di principio che, forse, non c'entrano o ad andare a toccare temi delicatissimi. Penso, per esempio, alla destinazione degli edifici religiosi a fini diversi dal culto. Immagino che il professore Casuscelli non ce l'abbia con il sindaco di Torino che ha organizzato «Settembre musica», in cui si sono susseguite manifestazioni di grande rilievo internazionale. Io sono torinese ed a Torino, nelle sue belle chiese barocche, si suona anche musica profana! Se, per caso, ce l'avesse con le omelie dedicate principalmente ad attaccare i Pacs o l'aborto, allora si scivolerebbe su un terreno molto scivoloso, perché qualcun altro potrebbe dire che non si possono tenere omelie pacifiste per attaccare la presenza di truppe italiane ieri in
Iraq ed oggi in Afghanistan, mentre le Chiese, da sempre, hanno anche la funzione profetica di contestare, nei limiti del lecito ed esclusa ogni apologia di reato, scelte e leggi dello Stato che non condividono. Così il problema delle scelte non espresse.
Dopo l'esperienza tedesca, se andassimo a riesaminare tutto l'iter che portò ai patti di Villa Madama, ci accorgeremmo che solo la norma sulle scelte non espresse convinse la Chiesa cattolica a transitare dal regime precedente al regime dell'otto per mille. Quindi, se rimettessimo in discussione tutto ciò, troveremmo il muro della Chiesa cattolica e, per la verità, anche di molte altre confessioni religiose che godono del principio delle scelte non espresse.
Non credo si debba legiferare a colpi di sondaggi, ma vi segnalo che nel volume Un singolare pluralismo, pubblicato l'anno scorso dal Mulino, l'84 per cento degli intervistati, fra cui - cosa curiosa - anche molti che si dichiarano non credenti o addirittura atei, era favorevole all'esposizione di simboli religiosi, in particolare il crocifisso, in luoghi pubblici in Italia.
Proprio perché io non credo, a differenza di una certa stampa, che vi sia nulla in questa proposta di legge che metta in discussione il ruolo della Chiesa cattolica in Italia (vorrei, a tale riguardo, citare non De Gasperi, che mi sarebbe più consono per storia politica, ma Togliatti, il quale affermò in un'intervista, dopo la Costituente, che, con realismo, si era preso atto che in Italia tutte le religioni sono uguali, ma la Chiesa cattolica è un po' più uguale delle altre; è un dato sociologico che può non piacere, ma è attestato da qualsiasi sondaggio), credo sia giunto il momento di dare esecuzione ad una legge che tuteli seriamente i diritti delle minoranze.
Il test per verificare se uno Stato, un Parlamento tutela i diritti delle minoranza è rappresentato precisamente dalle minoranze meno popolari, quelle che a qualcuno non sono simpatiche.
A mio avviso, è assolutamente inopportuno che la legge contenga una definizione di religione o di confessioni religiose. Sono stato il rappresentante italiano al progetto LISOR dell'Unione europea sulla definizione di religione; è stato redatto al riguardo un grosso volume, ma all'ultima pagina si conclude che non esistono due definizioni uguali di religione nell'Unione europea, ma, in realtà, neppure fra i partecipanti al progetto.
Ricordo una sentenza della Corte di cassazione del 1997 sul caso molto controverso della chiesa di Scientology, una sorta di enciclopedia, una sentenza di 200 pagine, dove si diceva che, giustamente, i costituenti non hanno previsto una definizione di religione, perché la religione è un fatto evolutivo. Nascono religioni nuove che si accostano al sacro ed al fatto religioso in un modo completamente diverso da come accadeva negli anni quaranta. Pertanto, se abbiamo intenzione di fare una legge che duri non possiamo inserire una definizione di religione.
Dobbiamo anche essere molto cauti, con tutta la simpatia per la vicenda personale del professor Lombardi Vallauri, ad entrare nel merito degli ordinamenti interni.
Tutti sappiamo, i giuristi lo sanno meglio di me, che vi è stata una lunga vicenda processuale in Puglia di un testimone di Geova che, allo scopo precipuo di dare noia ai testimoni di Geova, si è rivolto alla magistratura ordinaria per essere reintegrato dopo che i testimoni di Geova lo avevano disassociato per eresia.
Certamente, dal punto di vista procedurale, si può condividere tutto quanto è stato detto sul diritto di difesa, anche alla luce della decisione Pellegrini della Corte di giustizia, ma, dal punto di vista sostanziale, è evidente che dobbiamo riconoscere agli ordinamenti ecclesiastici ciò che riconosciamo all'ordinamento calcistico. Non può, il giudice ordinario, sindacare le squalifiche della Federcalcio o della Lega e non può il giudice ordinario...
PRESIDENTE. Il diritto di insegnamento ha un peso diverso dal diritto al calcio...
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. Certamente, però, il giudice ordinario, nel caso dei testimoni di Geova, avrebbe qualche difficoltà, forse, a dire se la nozione dei rapporti fra l'unicità di Dio e la concezione della figura di Gesù Cristo è conforme o difforme dalla teologia dei testimoni di Geova. Il giudice dovrebbe conoscere tutte le teologie per dire se il procedimento di esclusione di un membro, per ragioni teologiche, da una confessione religiosa è o meno giustificata.
Vorrei fare due rapidissimi riferimenti ad altri problemi, che non attengono a questa legge, ma che, a mio avviso, chiedono coerenza al Parlamento. Il primo è quello delle «intese nel limbo», perché credo di capire che il professor Zaccaria non abbia riferito opinioni sue, ma di terzi, quando nella sua relazione ha affermato che sono stati sollevati problemi sulla conformità alla Costituzione italiana dei principi dei testimoni di Geova. Questo problema fu discusso prima della firma dell'intesa. All'epoca, stavo scrivendo un libro su di loro, di cui ho copia, ed essi depositarono diverse casse di documentazione che, a mio avviso, risolvono questi problemi.
Quindi, credo che un buon segnale potrebbe essere quello di dare corso a queste intese, che sono già state dibattute tempestivamente prima della firma da parte del Presidente del Consiglio, che allora era l'onorevole D'Alema, e che sarebbe ora che il Parlamento si decidesse a ratificare.
Segnalo anche un altro elemento in controtendenza: la Polizia ha istituito delle squadre che, se si occupano del problema del satanismo giovanile, fanno molto bene (abbiamo visto il caso delle «bestie di Satana»), ma che, purtroppo, si chiamano «squadre anti-sette». Capisco che la sigla SAS affascini (Sua Altezza Serenissima piace anche in ambiente repubblicano), però, con tale espressione si rischia che tali squadre si occupino anche di minoranze religiose che non sono le «bestie di Satana», ma che, forse, hanno il solo difetto di non essere eccessivamente popolari.
Due ultime osservazioni. Abbiamo ascoltato oggi, molti interventi interessanti, ma credo che, se vogliamo una legge in materia e non vogliamo ritrovarci, nella prossima legislatura, a riprendere la questione da Adamo ed Eva, non possiamo pretendere che questa legge risolva tutto: i problemi delle scuole, del diritto di famiglia,e via dicendo. Dobbiamo avere le idee chiare: o adottiamo un codice di diritto ecclesiastico, come i vecchi codici dei culti, che esistono ancora in qualche paese, oppure variamo una legge che si prefigga degli scopi più modesti - mi pare di capire -, ma che, almeno, li raggiunga. Di solito, voler legiferare dell'universo significa non legiferare affatto.
Infine, nelle audizioni svolte nella precedente legislatura e in quella ancora prima, ricordo la grande difficoltà di riportare il discorso a qualcosa che non attenesse all'Islam. Quando l'onorevole Maselli pensò a questa legge, intendeva non una
legge sull'Islam, ma sulle centinaia di minoranze religiose prive di intesa che esistono in Italia. Questa non è una legge sull'Islam.
Tuttavia, se, per pacificare la coscienza di qualcuno, si deve pagare il «pedaggio» di una modifica dell'articolo 11, per chiarire - per me è chiaro - che nessuno di coloro che ha proposto questa legge voleva sposare diverse mogli o introdurre la poligamia nel nostro ordinamento, lo si faccia. Se si vuole dire che il matrimonio avvenga nella sala principale o nella sacrestia, sotto forma di redazione di un contratto o di cerimonia solenne, stabilendo che la lettura degli articoli del codice civile, prevista dall'articolo 11, che lega il matrimonio ai principi del nostro ordinamento, debba avvenire nel contesto e nello stesso giorno della cerimonia matrimoniale, facciamo pure questa modifica. Altrimenti, rischiamo di passare giorni in Parlamento con persone che ci diranno che vogliamo introdurre la poligamia. Sarebbe strumentale, ma non importa.
Se la modifica dell'articolo 11 serve a superare questa problematica, attraverso la lettura degli articoli del codice civile, non al momento della pubblicazione, ma il giorno stesso della cerimonia religiosa, forse, si tratta di un piccolo «pedaggio» (la politica è l'arte del compromesso) che si può pagare per ottenere che, finalmente, al terzo tentativo, questa legge vada in porto. In realtà, non sono i massimi sistemi ad essere in discussione, né le grandi confessioni, ma quelle più piccole e più deboli, che non possono permettersi grandi avvocati e grandi studi legali e che hanno bisogno di questa legge semplicemente per sopravvivere.
KHALED FOUAD ALLAM. Sono stato sempre contrario, ovviamente, agli eccessi del diritto, però, ho sempre creduto, e credo ancora, alle virtù pedagogiche del diritto. Lo dico
perché, in realtà, il nostro problema non riguarda tanto il rapporto tra diritto e religioni, in quanto le religioni sono sempre doppie, nel senso che una religione non è soltanto un corpus di testi, ma è anche un insieme di fattori culturali e storici che la definiscono e la incarnano all'interno di uno spazio-tempo. È vero che le religioni sono uguali su un livello, quando esprimono quella che potrebbe essere chiamata una «logica di eternità», ma sono diverse nell'ambito delle loro espressioni storiche, culturali, sociali e antropologiche.
Quindi, il nostro problema, in realtà, lo ripeto, non riguarda tanto il rapporto tra diritto e religioni, ma quello tra diritto e culture. Allora, perché la legge, ampiamente riveduta, potrebbe avere una virtù pedagogica? Perché essa aiuterebbe, in alcuni casi, il processo di trasformazione sociale laddove questa non è avvenuta.
Bisogna dire che, di fronte alla questione dell'uguaglianza e della laicità, è evidente che un sostrato giuridico potrebbe aiutare alcune religioni, per esempio l'Islam, a filtrarsi, a dividere e ad aiutare la canalizzazione delle grandi questioni complesse dell'Islam verso un atteggiamento e un posizionamento molto più laico di quello che esiste all'interno dei paesi islamici.
Se perdiamo di vista la problematica del rapporto fra diritto e culture, perdiamo di vista il ruolo che può giocare il diritto nell'aiutare questa trasformazione sociale, che è fondamentale - l'ho ricordato ieri - per la grande questione delle nostre democrazie, in Italia e in Europa in generale: come il diritto può aiutare il mantenimento della coesione sociale e culturale tra un'eterogeneità culturale che sarà sempre più complicata e complessa da gestire.
PRESIDENTE. Vorrei ricordare ai colleghi che l'onorevole Allam più volte ha posto il problema della coesione civile di
un paese e di come questo tipo di leggi debbano favorire la coesione, e non romperla. Questa è la linea di fondo.
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. Nel ringraziare la Commissione per avermi invitata, premetto che non sono una giurista. Sebbene abbia imparato tantissimo stamani, non ho da proporre, quindi, osservazioni di tipo tecnico-giuridico. Aggiungo che molte delle argomentazioni che anch'io avrei desiderato svolgere sono già state esposte, peraltro in maniera egregia, prima del mio intervento. Tuttavia, mi preme ribadire due considerazioni che giudico molto importanti.
È già stato rilevato che l'impianto delle proposte di legge pone qualche problema. In primo luogo, si vogliono ribadire, sancire, consolidare e rafforzare i diritti garantiti non soltanto dalla Costituzione italiana, ma anche dalla normativa internazionale che l'Italia ha ratificato. Ho sentito citare la Carta internazionale per i diritti del fanciullo, ma è molto importante fare menzione, nel particolare ambito della religione, anche della Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Invero, nel legiferare in materia di religione e di sfera privata delle famiglie, molti Stati hanno avuto e continuano ad avere, se così si può dire, grossi grattacapi. Nemmeno ho sentito citare - ma bisogna farlo - il Patto internazionale sui diritti civili e politici. Insomma, la libertà di religione ed il diritto a professare la propria religione è un diritto sacrosanto ai sensi non soltanto del dettato costituzionale, ma anche di tutta la normativa internazionale che l'Italia ha ratificato.
Da una parte, si vuole ribadire e consolidare il carattere laico e democratico di questo paese; dall'altra, però, alcuni articoli delle proposte - in particolare, sono stati citati l'articolo 11, in materia di matrimonio, e tanti altri - esprimono la volontà di entrare nel merito tecnico di alcune
questioni e di attribuire specifici poteri (mi scuso se non rispetto il linguaggio tecnico-giuridico, ma sono sociologa: lavoro da tanti anni sugli effetti delle leggi sulla società piuttosto che sulla loro elaborazione, nonché sui danni che da esse derivano).
Più specificamente, attribuire un potere civilistico ad una certa organizzazione a condizione che essa abbia stipulato un'intesa può rivelarsi un'arma a doppio taglio: da una parte, lo Stato ha modo di controllare e governare una serie di formazioni religiose, dall'altra, però, come ha già detto qualcuno molto meglio di me, il meccanismo rafforza dei privilegi.
Non sono una specialista in materia ma, con riferimento all'esperienza del diritto di famiglia algerino, quando si è posto il problema dei rapporti tra la religione del popolo e lo Stato laico (ricordo che l'ordinamento giuridico algerino è laico), sono sorte alcune questioni. Poiché ho seguito tutto l'iter del famigerato - purtroppo - diritto di famiglia algerino, tuttora vigente, ho avuto modo di constatare che si tenta di legiferare in ordine a quelli che sono rapporti collettivi dimenticando che c'è un diritto sacrosanto di cui bisogna tenere conto: il diritto fondamentale della persona, inteso come diritto che non può essere condizionato da disposizioni che ne limitano di fatto l'esercizio. Da questo punto di vista, alcune norme contenute nelle proposte di legge limitano i diritti enunciati nell'articolo 1.
Sono d'accordo, pertanto, su un progetto di legge che sia molto snellito e che, soprattutto, sia focalizzato sul consolidamento di tre principi fondamentali: la democrazia dello Stato italiano, la sua laicità, la non discriminazione e la pari opportunità.
Riguardo alla non discriminazione ed alla pari opportunità, anch'io attendo da tanti anni una legge, soprattutto perché
sono stata spettatrice e, talvolta, anche vittima di pregiudizi. Ad esempio, non sempre ho potuto esercitare il diritto di pensare in maniera diversa oppure di poter difendere altri che si trovavano nella mia stessa condizione. Quando sono arrivata, mi sono preoccupata, perché ho sentito parlare delle questioni della poligamia, del velo e di altre consimili. Ebbene, non penso che un testo di legge che deve indicare e soprattutto garantire le libertà e l'uguaglianza - e che, com'è stato precisato, è atteso dal 1948 - debba entrare nel merito delle singole situazioni collettive. Sarei più per un testo di legge che pensi all'individuo e che rafforzi l'esercizio della cittadinanza completa, a prescindere dall'appartenenza religiosa.
Allo stesso modo, penso che il testo della legge dovrebbe garantire a tutti, senza concedere privilegi, l'esercizio della propria religione. Sotto questo profilo, due sono gli aspetti delle proposte di legge che mi preoccupano. Sono sanciti, giustamente, il diritto di professare la propria religione in forma associata e quello di farne propaganda. Tuttavia, proprio con riferimento all'impianto delle proposte, sono preoccupata perché, mentre da una parte ad ognuno è riconosciuto, giustamente, il diritto di organizzarsi in forma associata, di professare la religione e di farne propaganda, dall'altra, tali diritti sono legati ad un'intesa o ad un iter che, comunque, non offre pari opportunità a tutte le formazioni.
Se, ad esempio, pensiamo all'Islam - in Italia, i musulmani non sono tantissimi, ma neanche tanto pochi -, ci accorgiamo che all'interno della categoria dei musulmani vi sono, benché non siano mai state contate (forse, qualcuno l'ha anche fatto), almeno quaranta o cinquanta formazioni, le quali sono diverse tra loro non soltanto per il modo in cui vivono e praticano la religione, ma anche dal punto di vista delle regole che si sono
date. Questa è una delle ragioni per le quali lo Stato italiano non ha ancora stipulato un'intesa con l'Islam (chiamiamolo così).
È da anni, ormai, che non seguo in modo continuativo la questione, ma ricordo bene alcune discussioni tra UCOII, COREIS, Sufi: ognuno voleva un'intesa con lo Stato! È chiaro che se, all'interno dell'Islam, un'organizzazione ha stipulato un'intesa con lo Stato ed un'altra no, chi fa propaganda la fa per la sua formazione. Mi sembra che il legislatore pensi, anche quando vengono in rilievo minoranze, ad una popolazione uniforme, a cittadini uniformi. Ad esempio, c'è un Concordato con la Chiesa cattolica, eppure le organizzazioni cristiani sono tantissime (anche se non so quante siano precisamente).
Insomma, l'impianto delle proposte rafforza, sia pure non direttamente, il privilegio di un'organizzazione rispetto ad un'altra e in tal modo limita, di fatto, l'esercizio della libertà religiosa.
Desidero accennare, infine, a due questioni specifiche. All'inizio del mio intervento ho menzionato la Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Ovviamente, la Costituzione e tantissime altre leggi, il codice civile, il diritto di famiglia, garantiscono pari diritti e pari opportunità anche di genere. Tuttavia, sulla questione religiosa, forse, bisogna che lo Stato non entri nel privato delle relazioni familiari (il matrimonio, il divorzio, la poligamia, il ripudio) perché esiste un codice civile. Credo che sussistano dei rischi di interpretazione, almeno degli articoli così come sono scritti.
In primo luogo, sussiste la questione del matrimonio. Si è parlato della poligamia, ma si tratta di un falso problema perché in Italia non ci saranno matrimoni poligamici; non è
questo il problema. Conosco molto bene l'Islam e non le altre religioni, ma nell'Islam il matrimonio è un contratto e, come tale, le due persone si mettono d'accordo; tuttavia, se si vuole seguire alla lettera il Corano, esistono alcune condizioni che ledono fortemente la pari opportunità e l'uguaglianza fra donne e uomini. Questo non è tanto insito nella poligamia - peraltro, quest'ultima è lecita se la prima moglie è d'accordo, per cui la questione non si pone -, mentre spesso il matrimonio con rituale religioso viene celebrato e convalidato dal punto vista religioso, e in molti paesi anche dal punto di vista civile, solo con l'autorizzazione di un tutore matrimoniale. Quindi, in realtà, ciò che è il diritto garantito della cittadina, italiana o non, musulmana, se si desse potere civilista ad un capo religioso - nell'Islam non c'è il clero, per cui anche in quel caso il capo religioso sarà quello che ha più potere -, di fatto, non dico si renderebbe lecito, ma si introdurrebbe una materia dove lo spazio per le discriminazioni sarebbe molto ampio.
È vero che ognuno di noi può ricorrere ad un avvocato, fare ricorso ed arrivare anche alla Corte costituzionale, ma la gente comune non usa questi strumenti. Pertanto, credo che occorra stare molto attenti laddove gli articoli entrano nella sfera non del principio, ma in cui si deve gestire o governare alcuni rapporti fra lo Stato e la religione.
LUCIANO MUSSELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Pavia. Ringrazio molto per l'invito e cercherò di essere estremamente sintetico.
Per quanto riguarda lo schema del professor Zaccaria, l'impianto proposto - che è di tipo risalente ma classico -, tutto sommato, potrebbe avere ancora una sua positività organica. Ho notato che, per quanto riguarda l'articolo 8, si considerano due realtà molto diverse, che forse dovrebbero
essere scisse: il trattamento degli appartenenti alle Forze armate e di Polizia assimilati, e quello dei degenti in istituzioni chiuse (ospedali, istituti penitenziari). Sono situazioni molto diverse, perché i primi possono allontanarsi quando sono in libera uscita - ormai le forze militari sono di tipo volontario e professionale - e, quindi, non hanno gli stessi problemi dei secondi. Inoltre, per i secondi parlare di cessazione di attività non ha molto senso, perché non ci sono attività coattive: quindi, scinderei questo articolo in due.
Per quanto riguarda il problema, estremamente interessante, sollevato da alcuni colleghi sulle attuali questioni (il velo, l'abbigliamento, i simboli religiosi), assistiamo in ambito europeo ad un proliferare, dalla legge francese del 2004 in avanti, di leggi o normative già formate in itinere su quest'oggetto. Quindi, sarebbe bene che si affrontassero e si risolvessero questi argomenti «brucianti», ma sono cosciente che ciò darebbe luogo ad ulteriori polemiche e ad un contenzioso che, forse, rischierebbe di non permettere il raggiungimento dello stesso progetto.
Dal punto di vista formale, mi permetto di segnalare che, all'articolo 1, si fa cenno a livello di fonte alla Costituzione, alle convenzioni internazionali e ai principi di diritto internazionale. Noi viviamo nell'Unione europea, ci sentiamo tutti - su questo tutte le forze politiche sono concordi - cittadini europei, e, pertanto, andrebbe menzionato l'articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche per ricordare la nostra comune matrice.
MARCO BOATO. Scusi, in riferimento alla Convenzione internazionale sui diritti inviolabili dell'uomo, non comprende anche la Convenzione di Strasburgo?
LUCIANO MUSSELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Pavia. Io non sono uno specialista, ma credo che il diritto europeo non sia qualcosa di concettualmente diverso dal diritto internazionale.
MARCO BOATO. La Convenzione non riguarda l'Unione europea ma il Consiglio d'Europa.
LUCIANO MUSSELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Pavia. È la CEDU.
MARCO BOATO. È stata recepita nell'ordinamento interno nel 1957.
LUCIANO MUSSELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Pavia. Sì, ma per la dignità che ha questo documento, forse una menzione sarebbe qualificante, anche per sentirci più europei.
Vengo invece a questioni più puntuali e molto più importanti. Per quanto riguarda l'articolo 2, la libertà di religione è spesso intesa anche in senso negativo (la libertà religiosa era nata come libertà dalla religione); quindi, libertà di professare una confessione religiosa o di non professarne alcuna. Forse, andrebbe anche specificato questo lato della religionsfreiheit in senso negativo, secondo gli schemi classici in questo settore.
MARCO BOATO. All'articolo 2 si dice: «(...) comprende inoltre il diritto di mutare religione o credenza o di non averne alcuna». Quindi, al secondo periodo dell'articolo 2, c'è scritto quello che lei chiede.
LUCIANO MUSSELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Pavia. Allora, posso ritirare questa obiezione.
Una questione molto più interessante riguarda i limiti. L'articolo 2, nel suo ultimo comma, recita: «Non possono essere disposte limitazioni alla libertà di coscienza e di religione diverse da quelle previste dagli articoli 19 e 20 della Costituzione». Il relatore è un insigne costituzionalista e vorrei chiedergli se, in questo caso, non si vada oltre il testo della Costituzione. La Costituzione non dice che non possono essere disposte limitazioni, ma all'articolo 19 pone semplicemente il limite del buon costume rispetto ai riti. Adottando un testo di questo genere, potremmo correre alcuni rischi non del tutto indifferenti.
Questo articolo potrebbe porre seri problemi nel caso che la libertà religiosa venga usata come strumento o paravento, all'ombra del quale porre in essere attività illegali od eversive, da parte sia delle sette che del terrorismo religiosamente connotato. A parte queste ipotesi estreme, problemi potrebbero porsi anche nel caso in cui occorra porre limitazioni di carattere contingente o temporaneo dettate da esigenze eccezionali di tipo sanitario (si pensi ad una processione che porti al pericolo di una diffusione di epidemia) o di altro genere. Infatti, la Costituzione non vieta espressamente l'apposizione di limiti ma semplicemente non li menziona. I limiti, come diceva il collega, ci sono.
Vi è, innanzitutto, il limite del rispetto dei diritti e delle libertà altrui, il limite del diritto penale e spesso anche della legislazione extrapenale. Per fare un esempio cattolico, nel nostro ordinamento vi è una ricca giurisprudenza sul suono delle campane - tutto ciò potrà sembrare un po' singolare -, considerato legittimo se praticato in certi orari e con un'intensità non superiore a quella della normale tollerabilità. Anche la signora che passeggia con il chador in ogni circostanza, in base ad una norma di questo genere, potrebbe dire
che non è contro il buon costume andare in giro in questo modo e potrebbe appellarsi a questa norma in caso di qualsiasi limitazione.
Risolverei questa situazione facendo richiamo non solo agli articoli 19 e 20 della Costituzione, ma anche all'articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la quale prevede limitazioni che, in una società democratica, costituiscono misure necessarie per la protezione dell'ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui. Quindi, un richiamo alla CEDU potrebbe rendere vani questi timori.
Sempre per quanto riguarda i limiti, ricordo che il ministro per le pari opportunità poneva il problema di limitazioni a favore dell'eguaglianza della donna quando, in campo religioso, vengano avanzati pregiudizi (almeno potenziali) a questo principio. Da questo punto di vista, mi sembra interessante richiamare la necessità del rispetto della Convenzione ONU sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, del 18 dicembre 1979, ratificata in Italia con la legge n. 32 del 15 marzo 1985.
Comunque, già il richiamo agli articoli 19 e 20 della Costituzione e all'articolo 9 della CEDU darebbe la possibilità di reagire contro comportamenti non più a tutela della libertà di espressione religiosa, ma che potrebbero perseguire altri fini.
Aggiungo qualcosa sull'articolo 4, riguardante il potere educativo dei genitori, che certamente viene limitato, dovendo essere esercitato nel rispetto della personalità del minore. Io farei riferimento anche all'integrità psico-fisica del minore, poiché i fatti di cronaca ai quali abbiamo assistito sono abbastanza preoccupanti.
Tralasciando questioni di dettaglio, che eventualmente potranno essere esaminate dalla Commissione attraverso i miei scritti, passerei a trattare il problema, che interessa molto anche al presidente Violante, posto dall'articolo 11, dalla poligamia e dalla celebrazione del matrimonio.
Per quanto riguarda la giusta preoccupazione del presidente, espressa nella sua introduzione, circa il matrimonio poligamico...
PRESIDENTE. Scusi, vorrei fare una precisazione per coloro che stamani non erano presenti. La mia preoccupazione nasceva dal fatto che questo è un tema sul quale, più volte, vi è stato conflitto all'interno della Commissione: voglio dire che non ho una particolare propensione per la questione.
LUCIANO MUSSELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Pavia. Il problema non è semplicissimo, anche se non esiste per quanto riguarda l'ambito del diritto italiano; infatti, nessuno pensa che possano venire celebrati matrimoni con effetti civili di uomini con più donne. La questione delicata è data dall'accertamento dello stato libero dell'uomo quando si tratti di cittadini non italiani o, comunque, di individui che, prima di diventare cittadini, abbiano vissuto a lungo in un altro paese, contraendovi matrimonio. Quindi, nel caso in cui l'ordinamento originario consideri lecito il matrimonio poligamico, è possibile che lo stesso individuo si veda rilasciare un certificato di stato libero che lo abilita al matrimonio, pur avendolo egli già contratto.
Un altro grosso problema riguarda quei paesi nei quali non esiste un ordinato stato civile; in questo caso, diventa molto difficile accertare la realtà dello stato libero delle persone. Non chiedetemi, però, ricette per questo tipo di problemi, poiché il compito è certamente da attribuire agli ufficiali di stato civile,
che dovranno portare avanti indagini molto precise, magari con l'ausilio di qualche circolare.
Per quanto riguarda la celebrazione del matrimonio e la famosa questione della lettura degli articoli del codice civile, avverto - come sostenevano anche i colleghi civilisti - che, quando questi ultimi vengono letti prima ci si trovi certamente in presenza di un'anomalia. In ogni caso, occorre anche considerare che per alcune confessioni religiose - in particolare, per quella islamica -, non è affatto scontato, in base alla sharia, considerare uguali i diritti-doveri della donna: semmai, sono equivalenti, e lo posso dire perché per qualche anno ho insegnato questa materia.
Dunque, poiché ci muoviamo in un campo minato estremamente delicato, mi sembra opportuno - in assenza di specifiche intese - che questi articoli vengano letti sempre e comunque in sede di pubblicazioni. In questo modo, la persona - in particolare la donna e, forse, anche l'uomo - si sente leggere i suoi diritti e prende coscienza della sua posizione dal punto di vista giuridico grazie alla voce di un funzionario italiano. Tra l'altro, occorre considerare anche un problema che nessuno ha mai sollevato; infatti, la lettura di questi diritti potrebbe ledere la libertà di coscienza del ministro di culto. Ad esempio, un imam che crede a fondo nella sharia si potrebbe trovare costretto a dire cose contrarie alle sue basi di fede; quindi, su di esso potrebbe essere esercitata una violenza, nel momento in cui gli si imponesse di affermare qualcosa che va contro le sue convinzioni. Certo, dal punto di vista pedagogico, ciò, forse, potrebbe considerarsi molto opportuno e apprezzabile, come ha sostenuto l'onorevole Allam, ma l'ottica va considerata nel suo insieme.
Da questo punto di vista, bisogna anche stare attenti a non affidare a chiunque la celebrazione dei matrimoni, secondo
quanto dettato dall'articolo 10, comma 3, della proposta Spini. Proprio per questo, sarei del parere che, comunque, occorre previamente leggere gli articoli del codice.
Spero di non avervi annoiato con la mia relazione, ma si tratta di questioni molto delicate: sono comunque convinto che attraverso la buona volontà si possa trovare una soluzione.
PRESIDENTE. Vorrei sottolineare che ieri, nell'incontro che abbiamo avuto con gli esponenti della Consulta islamica, è emerso con chiarezza che non esiste un matrimonio religioso islamico; quindi, questo problema non sussiste poiché, per l'Islam, il matrimonio è un contratto civile.
Lei ha posto un problema finora non affrontato da nessuno. Se ho contratto un matrimonio nel mio paese, che per legge riconosce la poligamia, questo è un problema. Infatti, se poi vengo in Italia, bisognerà vedere che tipo di rilevanza ha quell'atto e se è ostativo al matrimonio.
MARCO BOATO. Presidente, la proposta di legge afferma che l'ufficiale dello stato civile, il quale ha proceduto alle pubblicazioni richieste dai nubendi, accerta che nulla si oppone alla celebrazione del matrimonio secondo le vigenti norme di legge. Si tratta di norme dello Stato italiano, e non dello Stato da cui proviene il soggetto. Ovviamente, in questi casi, l'ufficiale dello stato civile dovrà operare un accertamento approfondito. In un caso recente, da me più volte citato, l'ufficiale dello stato civile di Cles si è rifiutato di concedere il nulla osta perché non aveva certezze circa lo stato libero di un individuo.
PRESIDENTE. Bisogna evitare che questa incertezza si tramuti in un impedimento al matrimonio.
KHALED FOUAD ALLAM. Per voi giuristi: attenzione all'utilizzo del termine sharia, lo ripeto per l'ennesima volta.
La sharia non è un assoluto. La sharia ha sempre bisogno di una norma che la attui. La prova è che le legislazioni dei paesi arabi e islamici, in generale, definiscono la sharia in modo diverso. Attenzione a non cadere in questa trappola.
PRESIDENTE. Sì, è una forma interpretativa.
KHALED FOUAD ALLAM. Il fondamentalismo islamico vuole una definizione unica della sua sharia, si batte su questo da cento anni!
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. Senza voler insegnare ai giuristi il loro mestiere, secondo noi, la proposta di legge fa molto bene a parlare di limiti alla libertà religiosa che derivano dal buon costume e non dall'ordine pubblico, perché questo emerse anche dalla discussione svoltasi nell'ambito dell'Assemblea costituente. In quella sede, si decise di non parlare di ordine pubblico nella Costituzione, perché in epoca fascista si era utilizzato l'ordine pubblico, inteso come insieme delle leggi, per porre alla libertà religiosa dei limiti intollerabili.
La stessa discussione - questo interessa forse meno - si è avuta di recente nella Chiesa cattolica, in sede di redazione del nuovo catechismo: dal paragrafo sui limiti della libertà religiosa, su istanza soprattutto dei vescovi americani, è stato fatto sparire il riferimento, che c'era nella bozza, all'ordine pubblico, sostenendo proprio che negli Stati totalitari l'ordine pubblico, concepito come l'insieme delle leggi, è sempre stato utilizzato per imporre limiti inaccettabili alla libertà religiosa.
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. Mi sembra che, quando si parla di Islam, in realtà si mettano in mostra conoscenze più pregiudiziali che reali.
PRESIDENTE. Dica pure superficiali...
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. Sento, anche da parte di giuristi, molte cose che non hanno fondamento. Per esempio, non esiste un matrimonio religioso; stiamo parlando di matrimoni di popolazioni musulmane, ma ciascun paese ha legiferato in maniera diversa dall'altro. Se vogliamo, possiamo parlare di rituali, di cultura, di modo di celebrare, però questo non ha niente a che fare con il tema di oggi. Se una persona vuole portare l'ufficiale del comune in moschea perché è più bello, perché ci si sente a casa, che lo faccia, ma non si tratta di un matrimonio religioso.
Vorrei soffermarmi sulla questione della poligamia e del nulla osta. A parte il fatto che l'Italia ha tanta esperienza su questo argomento, considerato che esistono delle normative che contrastano questo tipo di false dichiarazioni, il problema che si pone in Italia, però, riguarda il matrimonio delle donne e non quello dei maschi. Tutte noi non abbiamo il diritto - secondo le nostre legislazioni nazionali, non secondo la nostra religione, che è una cosa privata - di sposare chi vogliamo. Si deve ricorrere ad un giudice, e il giudice deve dimostrare che vi è una normativa che lede le libertà individuali, perché le nostre ambasciate - parlo di stranieri - non danno il nulla osta. Forse, su questa norma - anche se non è oggi in discussione - bisognerebbe intervenire.
Noto che spesso, nei progetti di legge, l'approccio di genere non esiste e spesso, soprattutto quando si parla di religione, quando si parla di minori, c'è una differenziazione di comportamento, che non si può ignorare. Quando si parla di religione, il trattamento delle donne e dei maschi è molto diverso, e questo non può essere tralasciato. Non dico ciò perché sono una donna e voglio parlare di donne, ma perché è un reale problema. Si è parlato di educazione e alcuni
ritengono che la loro libertà religiosa consista nell'educare le femmine in un modo e i maschi in un altro. Anche in questo caso, sancire la pari opportunità e libertà, a prescindere dal sesso del bambino, è molto importante. Credo sia molto importante non lasciare spazio ai pregiudizi e alla superficialità. Il tema è molto complesso.
A proposito dell'Islam, si è parlato del velo, ma una donna ha il diritto di vestirsi e di mostrare la propria fede, se non lede la libertà di altri. Ho sentito parlare - non tantissimo tempo fa, ma già con questo Governo - della possibilità di una legge sul velo: ma da quando si deve legiferare su come mi devo vestire? È una cosa che mi fa rabbrividire!
PRESIDENTE. Se è lei che decide come vestirsi, e non sia un altro a deciderlo...
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. Non deve essere una legge dello Stato a prevederlo. Lo Stato non deve entrare su questo argomento. Lo Stato deve applicare le leggi che garantiscono le libertà individuali e i miei diritti come persona. Se poi chiedo allo Stato protezione, esso deve assicurarmela. Hina nessuno l'ha protetta! Si dà per scontato da qualche parte che sia una questione loro, quando invece è stato un omicidio; in quel caso, non si sono applicate le giuste tutele, che esistono nell'ordinamento dello Stato italiano. In fondo, esiste una specie di relativismo culturale negativo, che non riguarda la questione della garanzia delle libertà religiose; è come se ci fossero delle culture più subalterne rispetto alle quali non intervenire.
PRESIDENTE. Sospendo la seduta che riprenderà alle 14, 30.
La seduta, sospesa alle 13,40, è ripresa alle 14,40.
PRESIDENTE. Avverto che, a seguito della riunione dell'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, appena svoltasi, il termine per la presentazione degli emendamenti al testo unificato adottato dalla Commissione come testo base delle proposte di legge C. 445 ed abbinate, recante «Sistema di informazione e sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto», da ultimo fissato alle ore 11 di mercoledì 17 gennaio 2007, è stato posticipato alle ore 18 di giovedì 18 gennaio 2007.
Riprendiamo l'audizione. La professoressa Khouider, nell'intervallo dei nostri lavori, ha posto una questione di notevole interesse, in ordine al limitato diritto della donna di sposarsi rispetto all'uomo. Chiederei pertanto alla professoressa Khouider di illustrare anche ai presenti tale questione.
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. La normativa in materia di matrimonio in Italia richiede, ovviamente, il nulla osta dello Stato di appartenenza. Il problema cui mi riferivo si pone soprattutto per i cittadini non italiani, che devono chiedere al paese di provenienza il nulla osta per poter contrarre matrimonio in Italia. Nei paesi quali il mio, in cui la legge vieta alle donne il matrimonio con un non musulmano, il legislatore - nonostante siano venti anni che tentiamo di far cambiare la qualificazione del non musulmano equiparato al cittadino straniero, in particolare poi europeo - a tutte le donne che vivono in Italia, che vogliono contrarre matrimonio e che provengono da paesi in cui vige la suddetta legislazione stabilisce che esse non possano liberamente sposarsi perché devono chiedere il nulla osta al consolato del paese di origine, nulla osta che viene loro negato. A questo punto, le donne che hanno alcuni strumenti in più si rivolgono al tribunale. Molte donne, invece, di fatto ricevono un diniego; non solo, si sa anche che alcune donne hanno subito ritorsioni da parte delle
autorità del paese d'origine, perché hanno dichiarato di volersi sposare con un non musulmano. Sono 17 anni che chiediamo allo Stato italiano ed ai comuni di abrogare la richiesta di nulla osta per tutte le donne cittadine di tali Stati (che sono noti). È una norma che lede non solo le libertà individuali nei singoli paesi di appartenza - peraltro, più volte la Corte costituzionale, e mi riferisco ai casi dell'Egitto, dell'Algeria e del Marocco, ha dimostrato che si tratta di una norma anticostituzionale, infatti tutte le Costituzioni normalmente garantiscono le libertà individuali -, ma che impedisce, di fatto, alle donne la libera scelta del proprio coniuge.
Succede, quindi, che in Italia - ed immagino che il problema sia emerso nel corso dell'audizione che avete avuto con i rappresentanti delle comunità islamiche - molte moschee, tramite accordi con le ambasciate, abbiano siglato specifici protocolli, in modo tale che i certificati che esse rilasciano valgano per il nulla osta. Immagino che nel corso dello svolgimento di questa indagine conoscitiva avrete notato che vi sono molti gruppi, ognuno dei quali ha le sue regole; per cui, come detto, in alcuni casi, le moschee si sono viste rafforzare il potere di decidere sulla propria sorte. In effetti, alcune moschee hanno opposto un diniego a candidati coniugi - italiani o no - di origine non musulmana, ed il matrimonio è stato assolutamente impossibile da celebrarsi, a tal punto che molti di noi preferiscono consigliare al candidato sposo non musulmano di origine di recarsi nel paese d'origine della donna e farsi rilasciare un certificato da qualsiasi ministro del culto, perché nei nostri paesi il culto è regolamentato dal ministero degli affari religiosi e l'imam è un funzionario dello Stato. Questa è una tra le libertà fondamentali di cui non godono le donne.
Nell'intervallo dei lavori abbiamo ricordato anche un'altra piaga: i matrimoni combinati. Poiché in molte legislazioni vige il consenso del tutore matrimoniale, spesso nella prassi è proprio il cosiddetto tutore matrimoniale ad avere una funzione chiave. Si tratta di una figura ben poco definita - non dal Corano, ma dalle legislazioni nazionali -, che dovrebbe essere il maschio parente più vicino alla donna. Alcuni matrimoni forzati sono stati celebrati attraverso tale istituto. Ho detto di fare attenzione a discriminazioni importanti, sulle quali occorre riflettere. Tra di esse non vi è il problema della poligamia, ma i matrimoni forzati, il non diritto paritetico tra donna e uomo nell'istituto del matrimonio, nel divorzio, nell'esercizio della potestà genitoriale, quest'ultimo un altro dramma. Si tratta del dramma, spesso oggetto di fatti di cronaca, dei bambini «sequestrati» e su tale dramma ci si «ricama» anche sopra, parlando di culture «moderne» e culture «subalterne». In realtà, si tratta di questioni legislative, non solo di tipo culturale e religioso che, di fatto, ledono anche la parità della donna nei confronti dell'uomo. Si tratta, dunque, di materie sulle quali bisogna stare molto attenti ad attribuire potere al ministro del culto.
SARA DOMIANELLO, Professore ordinario presso l'Università di Messina. Signor presidente, vorrei dire, proprio a tal proposito, che una tra le cure che avevo cercato di porre sulla questione dell'aggiornamento dell'articolo 11 era riferita alla rilevanza degli effetti civili del matrimonio, ove mai la confessione prestasse la propria disponibilità in merito. Infatti, è uno dei presupposti necessari la disponibilità della confessione, su cui nessun ordinamento, che non sia giurisdizionalista - come diceva giustamente anche la professoressa Khouider - può pretendere di cambiare le regole, come non può pretenderlo per l'insegnante di religione, se non limitandosi a
stabilire che si deve rispettare il suo diritto di difesa in caso di licenziamento. Pertanto non si possono certamente dettare dall'esterno le regole che garantiscano l'eguaglianza di tutti ed il rispetto delle libertà fondamentali, se, come Costituzione vuole fino ad oggi, nell'ordine del sacro l'autonomia normativa e statutaria di ogni confessione deve essere salvaguardata.
L'impedimento può essere posto dal diritto dello Stato solo nel momento in cui quella confessione intenda prestare ai nubendi il proprio servizio con efficacia civile. In tal caso, sarebbero necessari alcuni limiti all'efficacia civile di tale azione. Per questa ragione, con la mia proposta di modifica ho suggerito di inserire nell'articolato alcune norme concernenti le condizioni relative ai nubendi. Tali norme dovrebbero chiarire innanzitutto chi abbia diritto di avvalersi di tale facoltà: deve trattarsi di un soggetto capace, uomo o donna, di 18 anni, che si trovi nelle condizioni richieste dal diritto italiano in vigore per essere abilitato a contrarre matrimonio davanti all'ufficiale dello stato civile. Inoltre, nell'articolato si dovrebbe inserire una norma secondo la quale, ai fini del riconoscimento come matrimonio civilmente efficace celebrato davanti a ministro di culto di una confessione religiosa, non è richiesta l'appartenenza né di entrambi, né di almeno uno dei nubendi alla stessa confessione rappresentata dal ministro di culto che celebra le nozze e collabora alla trascrizione. Infine, sempre nel medesimo articolato si dovrebbe prevedere che resta fermo il dovere dello Stato di rispettare il diritto di ciascuna confessione religiosa di stabilire liberamente all'interno del proprio ordine, anche con riguardo alla posizione di fede dei nubendi - pensavo proprio a questi problemi - quali sono le condizioni essenziali in presenza delle quali la
confessione si potrà considerare nello Stato obbligata ad accettare di celebrare matrimoni destinati ad esserle civilmente attribuiti.
In altri termini, dobbiamo avere la consapevolezza della necessità di tenere conto di queste diversità di regolamentazione, rispettandole.
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. Mi sono occupato di questo problema a proposito dei convertiti italiani all'Islam. È un problema che riguarda non solo le donne ma anche gli uomini. In realtà, molti italiani che desiderano sposare una donna algerina o marocchina utilizzano un escamotage pratico: fingono, cioè, di convertirsi all'Islam. Perciò il numero di convertiti dichiarato da alcune organizzazioni islamiche è di dieci volte superiore a quello reale. Tale problema, tuttavia, non può essere risolto con queste proposte di legge ed è anche di difficilissima soluzione. Mi riferisco alla prassi torinese, che conosco; in altre città, forse, le cose vanno meglio.
In ogni caso, la realtà è che i consolati di alcuni paesi non si limitano a rifiutarsi di rilasciare il nulla osta. La legge islamica, infatti, per come è interpretata da alcuni paesi, prevede che un uomo musulmano possa sposare una donna cristiana o ebrea e che, al contrario, una donna musulmana non possa sposare un cristiano o un ebreo. Perciò questi consolati, di fatto, rinviano sine die anche la consegna del certificato di stato libero. In conseguenza, lo Stato italiano si trova di fronte al doppio problema della libertà di scelta, da una parte, e della poligamia o, in questo caso, della poliandria, dall'altra. Infatti, senza il certificato di stato libero, o con una legge che affermasse che tale certificato non è necessario per i cittadini di Stati a maggioranza islamica, si rischia di far celebrare nozze che, ai sensi delle norme previste dal nostro
ordinamento, comportano la bigamia. D'altro canto, a meno di accordi precisi da negoziare politicamente, è difficile obbligare i consolati, che sono organi di Stati sovrani, a rilasciare il certificato. Le rappresentanze consolari, infatti, generalmente dichiarano di non poter rilasciare il certificato prima di uno, due o cinque anni, a meno che l'uomo che intende sposarsi si converta all'Islam. Non so se questo problema abbia una facile soluzione. Quella proposta dalla collega, consistente nell'eliminare la necessità di acquisire i documenti provenienti dal paese di origine, sembra semplice ma, in questo modo, lo Stato italiano non potrà accertare - a Torino le autorità consolari negano anche il certificato di stato libero - se la signorina sia o meno già sposata, e non divorziata; si rischia di farla sposare una seconda volta.
PRESIDENTE. Giusta compensazione ai limiti di matrimonio che ci sono.
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. Ho posto questo problema perché ho una preoccupazione, in realtà, proprio in quanto musulmana. Noi siamo musulmani perché siamo nati da genitori musulmani e non perché ci sia stata una volontà da parte nostra in tal senso. Ciò che mi preoccupa è che, in base alle intese con lo Stato, le attribuzioni spettanti alle associazioni musulmane mediante i consolati possono essere sostituite con un escamotage secondo il quale, se il nulla osta non è rilasciato dal paese d'origine, la moschea può concedere una autorizzazione. Questo è quanto alcune organizzazioni islamiche intendevano chiedere nell'ambito dell'intesa.
PRESIDENTE. Esattamente.
SAMIA KHOUIDER, Sociologa. Tutto ciò è molto pericoloso. Infatti, la legislazione del mio paese mi può impedire di
contrarre matrimonio e si può lavorare, all'interno del mio paese d'origine, per rimuovere questa norma. Invece, sostituire a tutto questo una intesa tra uno Stato laico e democratico e una organizzazione, che si applica soltanto perché sono originaria di un paese musulmano, è molto pericoloso.
GIUSEPPE CASUSCELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Milano. Il caso si è già verificato ed esiste un filone giurisprudenziale significativo al riguardo: i tribunali hanno autorizzato le persone a contrarre matrimonio e la sentenza ha sostituito l'accertamento.
ROBERTO ZACCARIA. Quanto tempo ci vuole per ottenere la sentenza?
GIUSEPPE CASUSCELLI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Milano. Il problema è proprio questo. Ho molto insistito sull'effettività dei diritti di libertà. Non ci si può rimettere alle capacità economiche delle parti; inoltre, incaricare un avvocato, affrontare un giudizio e decidere chi citare è un problema complicatissimo. Nemmeno ci si può affidare alle certificazioni. Bisogna individuare uno strumento sostitutivo per cui, trascorso un certo tempo dalla richiesta del certificato di stato libero, una qualche autorità - ritengo opportuno possa essere un'autorità garante per i diritti di libertà di religione - possa supplire, effettuando qualche accertamento. Tale accertamento non può essere rimesso ad un qualunque esercente di una moschea in un altro paese, perché quello dello stato libero è un principio di ordine pubblico nel nostro diritto matrimoniale.
FRANCESCO ZANNINI, Professore del Pontificio Istituto di studi arabi e islamici. Ringrazio la presidenza della I Com
missione della Camera dei deputati per l'occasione che mi offre di intervenire in questa audizione. Se il professor Introvigne affermava di essere un pesce fuor d'acqua, non essendo un giurista, a mia volta, non essendo né un giurista, né un sociologo, sono il pesciolino rosso nel vasetto. La mia qualifica, in teoria, sarebbe quella di islamologo. In realtà, ciò che ho studiato ed è oggetto del mio lavoro è l'esegesi cranica. Iniziai negli Stati Uniti, presso l'Università di Yale, con gli studi sugli autori del primo secolo dell'Islam; a Roma continuo la mia attività, studiando gli esegeti contemporanei e i movimenti islamici contemporanei.
Prima di svolgere alcune osservazioni sul testo delle proposte di legge, vorrei porre alcune premesse che mi permetteranno di essere molto rapido nell'esprimere le mie valutazioni, basate soprattutto sulla mia esperienza personale. Ho vissuto per quasi 20 anni continuativamente in ambiente islamico, prima in Egitto, poi in Bangladesh, in Pakistan e in India. Parlo correntemente il bengalese, avendo insegnato in quella lingua per un certo periodo di tempo. I miei studenti appartenevano sia al mondo cristiano, sia al mondo musulmano. Ciò mi ha permesso un contatto diretto con il mondo musulmano che penso sia importante. Ho sempre molta difficoltà a vedere queste chiusure, queste paure dell'Islam. Recentemente, ho scritto anche un articolo dal titolo: «L'islam non fa paura». A me non ha mai fatto paura. Ho effettuato alcuni pellegrinaggi con i sufi, attraversando tutta l'India, e nessuno ha mai tentato di uccidermi ed ho partecipato alle riunioni della Jamaat-e-Islami, da loro invitato, affinché potessi ascoltare il loro punto di vista, in qualità di studioso. Mi riferisco alla Jamaat-e-Islami di Maududi. Ho anche avuto un appartamento in una casa di musulmani e non mi sono mai
sentito in difficoltà, eccetto che per i normali problemi di vicinato che posso incontrare anche oggi in Italia. Credo che tutto questo sia molto importante.
Avendo trascorso una parte della mia vita in Asia, ho vissuto con maggior chiarezza l'esperienza del pluralismo nell'Islam. Tra poco uscirà un mio libro intitolato L'Islam nel cuore dell'Asia, con il quale cerco di spiegare come l'Islam cinese, l'Islam indiano e l'Islam del Caucaso siano cose ben diverse, nonostante le loro radici originarie. Queste diversità concernono vari livelli. Se, ad esempio, partiamo dall'esperienza mistica della confraternita con cui ero più a contatto, ossia la chistiyya, addirittura essa vive la questione del rapporto con il potere politico con estrema diffidenza. Il potere politico è sempre possibilità di corruzione. Quindi, se si parla di questo legame tra religione e politica nell'Islam, dobbiamo sapere che c'è qualcuno che, invece, addirittura lo vede come un problema.
L'altra questione riguarda il livello amministrativo. Purtroppo, in Italia sento pronunciare troppe volte la parola sharia. La parola sharia o shariah (in arabo) in se stessa significa normativa divina. La normativa divina prima di tutto va individuata, poi va interpretata e, in terzo luogo, va applicata. La prima difficoltà consiste proprio nell'individuazione della sharia. Vi sono testi coranici che devono essere interpretati, poiché non sono così chiari come potrebbero sembrare. Ciò è dimostrato da tutta la letteratura sull'esegesi che ho menzionato e rappresenta un punto fondamentale. Si tratta della giurisprudenza: in altri termini, ciò che molto spesso chiamiamo sharia non è altro che la giurisprudenza islamica - il cosiddetto fiqh - la quale è molteplice e dà varie soluzioni. Quando insegnavo l'introduzione al diritto islamico presso la facoltà di giurisprudenza di Macerata la prima cosa
che dicevo agli studenti era: portatemi il libro della sharia; andate in tutto il mondo e cercatelo. Nessuno me lo può portare.
Non esiste un codice, anche se il movimento integralista, che considero il movimento più occidentalizzato all'interno del mondo islamico, sta cercando di operare una codificazione. Ciò per avere un «codice napoleonico» che possa stabilire cosa si deve fare e cosa non si deve fare. Questo è un elemento molto importante. Vi è addirittura una storia in ordine alle interpretazioni: pensate solo al subcontinente indiano e alla fatawa al-alamgiriyya, fatta da Aurangzeb e costituita da vari volumi. Sulla stessa sono state elaborate delle interpretazioni. Credo che questo sia un punto molto importante, perché spesso si usa la parola sharia a sproposito. La sharia sarebbe il risultato del lavoro della giurisprudenza; non tutti ci sono arrivati e nessuno può affermare nel mondo islamico: questo è, punto e basta. A meno che lo si consideri un monito dell'autorità divina, magari nel mondo sciita, o come monito di un'autorità ideologica indiscussa, come nel mondo delle interpretazioni fondamentaliste.
D'altra parte, tutta la giurisprudenza viene assorbita dalle interpretazioni date negli ordinamenti statali. Anche qui esiste una diversità. La Tunisia nel diritto familiare, ad esempio, vieta chiaramente la poligamia. La stessa Tunisia rifiuta il ripudio, introduce il concetto di divorzio e via dicendo.
MASSIMO INTROVIGNE, Rappresentante del Centro studi nuove religioni. Anche la Turchia !
FRANCESCO ZANNINI, Professore del Pontificio Istituto di studi arabi e islamici. Anche la Turchia, ma qui ci troviamo già in un altro ambiente. Adesso, il Marocco sta cercando di camminare in quella direzione.
Vi sono, poi, le quattro scuole giuridiche: mi viene in mente che il Maghreb è guidato dalla scuola malikita, dove è dominante il discorso del tutore, che non è presente nella scuola hanafita, nella quale il tutore ricorre solo quando il matrimonio è celebrato al di sotto dell'età della pubertà, e ciò per adattarsi all'ambiente indù circostante. Vi è, quindi, una certa varietà ed occorre prestare attenzione a questi aspetti.
Vi è, poi, la questione culturale. Se, ad esempio, guardiamo all'Islam cinese (sembra una cosa strana), esso nella sua elaborazione legata alla scuola hanafita introduce elementi di diritto confuciano. Lo Stato diventa arbitro nelle problematiche o nelle polemiche all'interno della comunità islamica: ciò per la concezione confuciana dello Stato.
Un altro elemento che penso sia molto importante è legato all'approccio. Credo che l'approccio alle problematiche dell'Islam, all'interno di un discorso sulla libertà religiosa, debba essere lo stesso che si dovrebbe avere sia dal punto di vista intellettuale e accademico sia dal punto di vista legislativo. Mi riferisco all'atteggiamento che gli antropologi e, forse, anche i sociologi definiscono «empatia», che consiste nel mettersi nei panni degli altri. Ciò per capire una religione nella sua logica interna. Infatti, ogni religione ha una logica interna diversa dalle altre. Uno dei pericoli di documenti come questo è proprio quello di mettere sullo stesso livello tutte le religioni (poi farò degli esempi al riguardo). Conseguentemente, non una disparità di trattamento, ma una diversità di approccio diventa fondamentale da parte del legislatore. È una voce contraria all'interno di questo discorso.
Tuttavia, l'Islam che vive in Europa (qui non so se i sociologi mi daranno ragione o torto) sta attraversando un processo di assimilazione, ossia si sta adeguando. Ebbi una grande discussione con dei musulmani, ad esempio, sul ruolo
dell'imam o sulla funzione della preghiera. Infatti, con l'assunzione del linguaggio e dei costumi, stanno assimilando l'Islam alla Chiesa cattolica, per cui si stanno creando in qualche modo i presupposti per essere accolti. Questo ci crea un duplice problema: un problema di sfasamento dell'Islam, da una parte, e un problema di difficoltà di operatività, dal nostro punto di vista.
Credo che questo aspetto sia molto importante. Non voglio dilungarmi troppo, ma vi è anche il problema della rappresentatività. Credo che nella relazione dell'onorevole Zaccaria appaia molto evidente la difficoltà di approccio. A questo proposito bisogna tenere presente un punto: concluso il rapporto Stato-religione che era già incrinato dai tempi dell'epoca abbaside, si è creata una società religiosa autonoma all'interno dell'Islam, con un sistema (nel mondo sciita molto più chiaro, nel mondo sunnita meno chiaro) di ulema che facevano riferimento spiritualmente al califfato. Con la caduta del califfato ad opera di Ataturk questo riferimento ideale si rompe e, quindi, anche queste identità corrono il pericolo di sfasciarsi. Accade, prima di tutto in Turchia, che questo vuoto d'autorità religiosa viene assunto in supplenza dallo Stato. Il secolarissimo Ataturk crea la Diyanet, il Ministero degli affari religiosi, e crea la facoltà di teologia. In tutti gli altri paesi islamici lo Stato diventa il garante dell'organizzazione religiosa.
Capirete che ci troviamo in una situazione molto differente rispetto al rapporto dello Stato italiano con la Chiesa cattolica; e questo è un grosso problema. Infatti, l'Islam attuale ha la sua struttura canonica all'interno delle strutture statali. Chi è che nomina gli imam? È lo Stato. Credo che questo sia un punto importante.
Vado velocemente ad altri aspetti. Sul matrimonio si è parlato molto, però attenzione anche in questo caso alla questione del ministro di culto, in termini di assimilazione. In realtà l'imam non è stato mai un ministro di culto del matrimonio, semmai il ministro di culto è il qadi, che è il giudice; infatti il matrimonio nel diritto islamico sta nella sezione dei contratti. Tuttavia è un contratto con delle sue modalità, del tipo dei contratti civili, e non invece del tipo di normatività del nostro matrimonio: nel nostro ordinamento giuridico ci sono le due persone che accettano di fronte ad un rappresentante dello Stato; nel caso del diritto islamico invece vi è proprio una trattativa, dei patti, con firma e con scambi di proprietà. Poi c'è la questione di voler avere anche loro una specie di ministro del culto.
Ministro di culto e luogo di culto: queste sono due definizioni molto problematiche all'interno dell'Islam. Tra l'altro il «ministro di culto» è un termine protestante, al quale poi nella legislazione si è data un'immagine cattolica di colui che ha il potere giuridico (che non ha invece il ministro protestante, all'interno del mondo protestante). Chi è il ministro del culto, dal punto di vista musulmano, nel matrimonio? Non certo l'imam. Questi ha una funzione all'interno del culto. Chi è allora il predicatore? Questo è un altro problema che si pone.
Per quanto riguarda la definizione di luogo di culto, la moschea non è mai stata soltanto un luogo di culto. Io ho studiato all'Università di Alazar, o meglio ho avuto l'occasione di avere delle tuition all'Università di Alazar e dopo pranzo andavo a dormire nella moschea di Alazar. La moschea di Alazar nasce come scuola per le quattro scuole giuridiche; è un posto di incontro. Nella moschea sono state programmate
le guerre. Anche in questo caso quindi il problema del luogo di culto, in cui non si potrebbero svolgere altre attività, crea un problema molto serio.
Concludo, sottolineando di porre attenzione a questi due elementi: la specificità dell'elemento islamico e la tendenza dei musulmani (italiani) ad assimilarsi alla Chiesa cattolica, per riuscire ad avere dei riconoscimenti. Il legislatore deve essere a mio avviso molto attento a questi due aspetti. Chiedo scusa se il mio intervento si è protratto, rispetto al tempo a mia disposizione.
PRESIDENTE. Poiché è stato molto interessante il suo intervento, dico a lei come agli altri nostri ospiti, che se avete un testo scritto, o anche degli scritti precedenti, che ci possono essere utili, vi pregherei di farcele pervenire.
MARCO BOATO. Ai fini del resoconto stenografico dell'audizione, vorrei suggerire al professore di fornire un elenco di tutta la terminologia da lui usata.
GIUSEPPE DALLA TORRE, Rettore dell'Università «LUMSA». Vorrei innanzitutto ringraziare per l'invito che mi è stato rivolto. Ovviamente sono d'accordo sul fatto che si elabori un provvedimento legislativo, che ponga fine alla legislazione del 1929 e 1930 e che tenga conto delle nuove situazioni. In linea generale, mi pare che i testi che sono stati dati alla nostra lettura e considerazione siano nella sostanza condivisibili. Vorrei svolgere due osservazioni di carattere generale, che riguardano anche il dibattito svoltosi questa mattina.
Una considerazione brevissima - poi invierò il testo che ho qui preparato -, che riguarda l'idea di laicità. Non si parla nel testo di laicità, ma sappiamo che il nostro ordinamento qualifica lo Stato come laico; la sentenza della Corte costituzionale
del 1989 lo ha precisato nei termini che conosciamo. Vorrei però sottolineare che non esiste un'unica laicità. Esistono molte laicità.
Questa mattina ho sentito dire che non sarebbe laico, o democratico, quell'ordinamento che ha un concordato. Allora mi chiedevo: ma l'Inghilterra, in cui la Chiesa Anglicana è Chiesa di Stato e in cui la regina è Capo dello Stato e Capo della Chiesa, non è democratica? Ovviamente non sono per un ritorno ai confessionismi dello Stato, tutt'altro. Ma dico ciò perché ritengo che certamente anche l'ordinamento inglese sia un ordinamento laico. In realtà, dunque, esistono diverse idee di laicità. Credo che bisogna mantenere molto fissa l'attenzione, nell'elaborare questa legge, sul principio di laicità, così come ricavabile nel nostro ordinamento da tutti gli articoli della Costituzione, che sono stati richiamati nel corso degli interventi di questa mattina.
L'altro aspetto importante, di carattere generale, sul quale vorrei soffermarmi, è relativo all'articolo 8 della Costituzione. A me pare che ci sia una tendenza ad uno scivolamento, ad una diminuzione, o se vogliamo ad una sorta di svuotamento di questo articolo 8, che a mio avviso invece rappresenta una soluzione originalissima dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, che il nostro costituente ha elaborato. Certamente il costituente aveva presente un contesto socio religioso diverso dall'attuale; quindi è evidente che la preoccupazione del costituente era quella di eliminare disparità di trattamento, o troppo evidenti disparità di trattamento. Tuttavia, da questo articolo 8 mi pare che si ricavino con molta chiarezza, nonostante quello che è stato detto da alcuni colleghi questa mattina, alcune considerazioni. Per esempio, un conto è parlare di uguaglianza, un altro conto è parlare di libertà.
L'articolo 8 della Costituzione non a caso parla di eguale libertà; questo perché prevede, nel suo terzo comma, la possibilità delle intese, cioè prevede la possibilità di una legislazione speciale per le singole confessioni religiose, che non è un capriccio o un mero adeguamento analogico al Concordato. Ciò risponde a mio avviso anche oggi ad un'esigenza molto precisa, che adesso è stata espressa dal professore che mi ha preceduto, cioè l'esigenza, che le confessioni religiose hanno, di veder tutelata la loro identità e la loro diversità rispetto alle altre confessioni religiose; e questo non può avvenire attraverso una sorta di legge quadro che è valida per tutti, ma in alcuni casi non può che essere evidentemente calibrata attraverso singoli accordi, che (per fare un esempio banale) riconoscono che il giorno festivo per i cristiani è la domenica, mentre il sabato lo è per gli ebrei. Non a caso questo è recepito nel Concordato e nelle intese.
In sostanza, quando si pone il problema della libertà, si pone il problema di dire che laddove si dà luogo ad una legislazione speciale, perché negoziata, questa legislazione speciale non può però allargare o restringere gli spazi di libertà, che devono essere assolutamente riconosciuti in maniera eguale a tutti. Dunque, da un lato c'è un chiarimento di questa espressione della Costituzione, dall'altro c'è anche un chiarimento del terzo comma dell'articolo 8, che non dice che i rapporti tra Stato e confessioni religiose «possono» essere disciplinati per legge sulla base di intese, bensì dice «sono», che è un termine che ha una sua perentorietà. È evidente che, perché ci sia l'intesa, occorre l'incontro di due volontà. Così come è evidente che ci possono essere confessioni religiose che non vogliono le intese, e questo è liberissimo. Ma è anche evidente che ci possono essere condizioni in cui lo Stato ritenga che non ci siano gli elementi e i requisiti necessari per
avviare delle intese (come il numero, la presenza, dubbi sulla stessa qualificazione confessionale, la mancanza o la mancata conoscenza delle norme reali interne di funzionamento e di organizzazione).
Quindi, da questo deriva che non possiamo pensare ad una legge sulla libertà religiosa come ad una legge svuotatrice del sistema delle intese. Questa è dunque un po' la mia preoccupazione. La legge sulla libertà religiosa è invece una legge che integra il sistema, cioè è una legge che serve a dare una disciplina in tutti quei casi in cui non si vuole o non si può, o non si è ancora potuto, giungere ad un sistema di regolamentazione in via pattizia o in via bilaterale. In altre parole, potremmo dire che dalla Costituzione, se non vado errato - di fronte ai costituzionalisti qui presenti mi sento quasi in imbarazzo -, si ricava il principio che quando lo Stato vuole dettare una disciplina speciale nei confronti di una confessione religiosa non può che farlo in via negoziata. Non può farlo in via meramente unilaterale; in via unilaterale può solo dettare un quadro generale di riferimento, in cui l'eguaglianza da questo punto di vista è garantita, oltre che ovviamente la libertà.
Entrerei ora nell'analisi di qualche punto. Almeno così ho inteso il mio mandato: in caso di necessità, fornirò, comunque, ulteriori spiegazioni.
Il primo problema che si pone riguarda l'articolo 1 dei testi al nostro esame, nel quale si parla di libertà di coscienza e di religione. Mi associo a chi osservava che questa endiadi nella Costituzione non c'è, potrebbe, pertanto, risultare pericoloso - sebbene i documenti internazionali distinguano tra le due forme di libertà - discostarsi dalla terminologia costituzionale.
Soprattutto, a me pare di notare la mancanza di qualsiasi riferimento alla dimensione collettiva, comunitaria ed istituzionale della libertà religiosa.
L'articolo 19 della Costituzione afferma che essa non è soltanto un diritto individuale ma anche un diritto collettivo, questo, però, manca completamente nella disciplina richiamata: infatti, l'articolo 1 parla solo di libertà religiosa come diritto fondamentale della persona. Quanto all'articolo 2, esso fa divieto di stabilire limitazioni alla libertà di coscienza e di religione diverse da quelle previste dagli articoli 19 e 20 della Carta costituzionale: non ripeto le osservazioni sull'articolo 20 della Costituzione, vorrei, però, sottolineare con forza - reputo essenziale ripetere questo concetto, data la sua rilevanza, seppure credo sia stato già evidenziato dal professor Musselli, - che i limiti alla libertà religiosa derivano non soltanto dall'articolo 19, ma anche da quanto stabiliscono le Convenzioni internazionali, a partire dall'articolo 9, comma 2, della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, secondo il quale, la libertà di manifestare la propria religione ed il proprio pensiero non possono essere soggette a limitazioni diverse da quelle previste dalla legge e ritenute misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza pubblica, la protezione dell'ordine, della salute e della morale pubblica o la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Ci sono anche delle ragioni interne da considerare, perché mi sembrerebbe davvero non ammissibile derivare dei limiti alla libertà religiosa, ad esempio, dal diritto alla vita, dal diritto alla libertà personale, dal diritto all'integrità personale, ai sensi dell'articolo 32 della Costituzione, o dal diritto alla salute. In altre parole, vorrei si capisse che sarebbe preferibile non addentrarsi nelle restrizioni per evitare di essere sempre imprecisi, con il rischio di non dire tutto o di porre limiti
eccessivi. Suggerirei, piuttosto, di fare un riferimento generale, nell'ambito di ciò che attiene ai limiti derivanti dal contesto costituzionale. Questo vale anche per ciò che attiene, ad esempio, l'articolo 15, dove si parla dell'unico limite - in questo caso, ripetendo giustamente il contenuto dell'articolo 19 della Costituzione - dei riti contrari al buon costume: non mi riferisco, evidentemente, ai sacrifici umani ma quei riti che prevedessero, ad esempio, l'uccisione di animali in maniera difforme rispetto alle leggi sulla macellazione rituale non sarebbero ammissibili. Posto che il problema sussiste e deve essere affrontato, suggerirei - lo ripeto - di introdurre un riferimento alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali, con i limiti derivanti da questi testi di carattere generale, senza entrare in una specificazione che diverrebbe eccessiva e senza evocare, ovviamente, l'ordine pubblico di cui già è stato detto sufficientemente. Per ciò che attiene l'articolo 8, comma 3, a proposito dei funerali religiosi, mi sembra un poco restrittivo limitare la possibilità solo alle confessioni con personalità giuridica: io sono d'accordo che la personalità giuridica debba essere presa in considerazione per tutti quegli atti che esprimano un potere pubblicistico della confessione religiosa. Nell'ambito, però, della celebrazione delle esequie, questo mi sembrerebbe non rilevante o non talmente rilevante da giustificare una forte compromissione del diritto di libertà religiosa, inteso veramente, in questo caso, come diritto individuale e personale.
Rimane, il nodo dei rapporti tra confessioni dotate di personalità giuridica e confessioni sprovviste della stessa: è chiaro che non si può obbligare una confessione religiosa ad avere una personalità giuridica: è bene, dunque, che il testo mantenga questa distinzione. Però, mi chiedo se non sia necessario o quantomeno opportuno prevedere una qualche
forma di registrazione anche delle confessioni «di fatto», quanto meno nella misura in cui vogliano accedere a tale livello di regolamentazione giuridica, altrimenti, rimarremo in una situazione di incertezza; la stessa incertezza che paradossalmente assilla, o ha assillato per molto tempo, l'ordinamento francese: questo, rimettendo tutto al diritto privato, ha finito per provare terrore - a noi sconosciuto - delle sette, giacché non le conosce, non sa se ci sono, quante sono, che cosa sono, chi rappresentano. Pertanto, una qualche forma di libera registrazione - anche correlata alla dichiarazione di essere confessioni religiose - sarebbe necessaria, per poter accedere a tutti quei diritti e a quelle garanzie che la legge, eventualmente, dovesse prevedere.
Si tocca, ovviamente, a questo punto, il problema della definizione di «confessione religiosa». Sono perfettamente consapevole - questa mattina il problema è stato illustrato in maniera molto chiara - delle difficoltà tematiche da affrontare: si tratta di un terreno sdrucciolevole e, forse, è opportuno non addentrarsi in definizioni capaci di lasciar dentro o fuori cose che non sono precise. Potrebbe, comunque, rivelarsi utile qualche indicazione di grande massima della giurisprudenza della Corte costituzionale, ovviamente, nel rispetto del primato del legislatore che, in un sistema non di common law come il nostro, credo debba permanere: diversamente, rischieremmo da un lato, di cadere, nella discrezionalità troppo pronunciata, addirittura eccessiva, dell'autorità giudiziaria - con tutto il rispetto per quest'ultima, (in proposito, non condivido le osservazioni fatte dal collega Lariccia nei confronti della magistratura amministrativa) -, dall'altro, di dar luogo a forme speculative di accesso alla regolamentazione tipica delle confessioni religiose - nella misura in cui questa sia differenziata
rispetto al diritto comune - da parte di realtà che confessioni religiose non sono, perseguendo scopi di tutt'altro genere.
Ancora, l'articolo 18, richiede che lo statuto delle confessioni religiose interessate ad ottenere il riconoscimento della personalità giuridica non solo non contrasti con l'ordinamento giuridico italiano - requisito giusto perché è l'articolo 8 della Costituzione a stabilirlo - ma neppure contenga disposizioni contrarie ai diritti inviolabili dell'uomo: ebbene, ritengo che tale norma sia tautologica, giacché il nostro ordinamento certamente riconosce e tutela quei diritti. Credo, inoltre, che il problema da affrontare sia un poco diverso: in altri termini, mentre da un lato, si richiama, la sentenza n. 43 del 1988 della Corte costituzionale, che parla non di tutti ma dei soli principi fondamentali dell'ordinamento italiano, dall'altro, si tiene conto di questo elemento, certamente necessario e rilevante, in ordine al problema delle confessioni prive di personalità giuridica. Se infatti non esiste una forma di conoscenza come si fa ad accertare la non contrarietà? La non contrarietà degli statuti con l'ordinamento giuridico italiano non è prevista per le sole confessioni con intesa: quella contenuta nell'articolo 8, è una norma di carattere generale. Perciò, ritengo che, anche sotto questo profilo, il problema di una qualche forma di cognizione nei confronti di chi pretende di chiamarsi «confessione religiosa», rivendicando tale qualificazione, debba esservi.
Mi soffermerò, poi, rapidamente su due aspetti di rilievo. In primo luogo, riguardo all'articolo 23, osserverei - pur sapendo di essere un poco isolato in dottrina - che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di cui all'articolo 20 della Costituzione costituiscono parametri distinti. Peraltro, non è che il carattere ecclesiastico riguardi, come ritiene la
maggior parte della dottrina, gli enti cattolici e gli altri requisiti i restanti enti: in realtà, si tratta di due parametri distinti. Questo è importante da tenere presente, perché potrebbero darsi degli enti ecclesiastici aventi carattere ecclesiastico - dotati, cioè, di un collegamento organico con l'ordinamento confessionale -, epperò sprovvisti di finalità di religione o di culto, almeno intese nel senso stretto che il nostro ordinamento- articolo 16 della legge 222 - prevede.
Da ultimo - so che questo è un punto delicatissimo, rovente, sdrucciolevole da affrontare, ma debbo farvi cenno - vorrei venire al problema della tutela penale. Giustamente, nel testo dei provvedimenti al nostro esame, - punto su cui mi trovo assolutamente concorde - si dice che le disposizioni del provvedimento non modificheranno o pregiudicheranno la legge n. 205 del 1993, cioè quella recante misure contro le discriminazioni razziali etniche e religiose.
Se il legislatore avverte questa esigenza, evidentemente esiste un nodo scoperto. Non vorrei che la tutela fosse soltanto nei confronti degli altri. Possiamo tralasciare questo discorso, visto che sappiamo qual è stata la giurisprudenza della Corte costituzionale e quale la sua evoluzione e che non dovremmo parlare di tutela penale della religione o delle chiese, bensì del sentimento religioso, ovvero della libertà religiosa. Altrimenti, a me pare che il rinvio alla legge n. 205 - pure giusto e pertinente - potrebbe dar luogo in futuro ad interpretazioni monche o zoppicanti. Tra l'altro, anche all'interno delle confessioni religiose con intesa, diverse da quella cattolica sappiamo che l'opinione al riguardo è molto diversa. I valdesi sono assolutamente contrari, mentre gli ebrei l'hanno chiesta. So che il problema è delicato e complesso, ma non può essere trascurato o messo obiter con il riferimento alla legge in questione.
L'ultimo punto riguarda la poligamia. A mio avviso non è tutto sommato molto differente se la lettura degli articoli del codice civile avviene prima o dopo, come contenuto nei testi. Probabilmente collocarla all'interno della cerimonia significa evocare per chi ha una diversa cultura quali sono i valori inderogabili del nostro ordinamento. Quindi, esiste effettivamente una funzione in relazione al matrimonio poligamico.
Vorrei lasciare alla vostra attenzione con un punto interrogativo una seconda riflessione: siete sicuri che il matrimonio meramente religioso non ha mai rilevanza civile? Anche nella laicissima Francia il matrimonio religioso ha rilevanza civile, quantomeno a livello penale. Quindi, non si può dire che l'islamico poligamico sposa solo religiosamente. Invece il discorso non è così semplice perché bisogna vedere quali sono gli effetti che comunque, anche se non voluti, questo atto può avere all'interno del nostro ordinamento.
PRESIDENTE. Il problema è il seguente: se l'islamico maltratta la seconda moglie, è un delitto di maltrattamenti in famiglia?
PIERFRANCESCO GROSSI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «Tor Vergata» di Roma. Ringrazio per la parola che mi viene concessa e ne approfitto preliminarmente per fornire tre ordini di scuse: agli oratori nei confronti del cui pensiero dissento; nei confronti dei punti delle due proposte di legge da cui dissento; nei confronti degli interventi di cui seguo la linea, illudendomi tuttavia di portare motivazioni diverse o aggiuntive.
Per tracciare in breve alcune notazioni essenziali, a me sembra che alcuni di noi abbiano trattato in maniera mescolata problemi di eguaglianza e problemi di libertà. Essendo di formazione costituzionalista, non posso dimenticare che
l'eguaglianza è disciplinata, in via di principio, all'articolo 3 della Costituzione, mentre la libertà in una serie di altre disposizioni. A mio avviso l'equivoco non può sorgere perché - scusate l'esempio barbino - se qualche buontempone ci chiude all'interno di questa sala, impedendo a ciascuno di uscire, è fatta salva la nostra eguaglianza ma non la nostra libertà di uscire ed andare a spasso. L'eguaglianza è una cosa, la libertà un'altra. Le libertà, inoltre, non hanno trattamento identico, bensì tante discipline, garanzie e possibilità di limiti quante sono le puntuali corrispondenti disposizioni costituzionali che se ne occupano.
Premesso questo, si tratta di vedere come questi problemi si atteggiano nei confronti della libertà religiosa, tema dell'indagine conoscitiva. Non si può prescindere dalla trattazione congiunta fatta dalla Costituzione. Mentre in linea di principio l'eguaglianza ha una disciplina mentre le libertà ne hanno altre, per le religioni ci imbattiamo, oltre che nell'articolo 20, anche nell'articolo 8 di cui leggo il primo comma: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge».
Questa mattina si è parlato tanto e con la dovuta venerazione del pensiero di quel maestro, apostolo di libertà, che è stato Francesco Ruffini, al cui insegnamento sono stato educato attraverso Arturo Carlo Jemolo che ne fu discepolo prediletto a Torino. Si deve proprio al pensiero di Ruffini se in sede di Assemblea costituente si scelse tale formula. L'eguaglianza nella libertà non significa eguaglianza totale e generale in ogni aspetto, ma solo nelle problematiche della libertà.
Un secondo punto di vista, anch'esso abbastanza elementare ma sul quale mi sembra utile insistere, è quello che concerne una riflessione fondamentale. È vero che esiste una
libertà religiosa anche delle confessioni, degli enti, dei gruppi e delle associazioni; tuttavia, nell'impostazione che leggiamo nel testo essa è prima di tutto libertà dei singoli. Anche nell'articolo 19, pur in forma associata, i protagonisti delle libertà restano sempre i singoli. Non dimentichiamo mai tale aspetto perché troppe volte nella lettura di un'altra disposizione, quale quella dell'articolo 2, sembra quasi che vi sia una garanzia per i singoli e una per le formazioni sociali. Vorrei che fosse chiaro - e spesso anche nella letteratura non trovo questa chiarezza - che nell'articolo 2 non è contenuta una garanzia per le formazioni sociali. Lo ha ricordato assai bene il collega Colaianni: vi è garanzia per i singoli entro e contro, al limite, le formazioni sociali, come sancisce la nota sentenza da lui richiamata in materia di partecipazione obbligatoria alla confessione ebraica.
Direi che il tema è più vasto e coinvolge anche altre norme che il relatore ha doverosamente e puntualmente richiamato per completezza di trattazione. Mi riferisco agli articoli 17 e 18. Tali articoli trattano le libertà del singolo; i singoli hanno le libertà di riunirsi e di associarsi. In questo caso forse una parola in più - in proposito rimando al mio scritto - va spesa - ma il tema è stato già affrontato in dottrina - sul rapporto tra la libertà individuale religiosa e queste due libertà. Quale è la norma derogante e quale quella derogatrice? Quale quella generica e quale quella specifica? Vorrei leggere due notazioni fondamentali, ma che si rifanno alle autorità di Barile, Ciprotti, Mortati, Finocchiaro, Paladin e di altri autori secondo cui questa libertà specifica prevale sull'altra. Quindi, la libertà di riunione, se in luogo pubblico, deve essere preavvisata e può essere sciolta o vietata, anche se fa parte della libertà di riunione religiosa. Parallelamente, per la libertà di associazione esiste un problema su cui si è soffermato anche l'amico
Dalla Torre. Tuttavia, esiste l'articolo 18 che, nonostante la libertà religiosa individuale, impedisce che i singoli associati possano perseguire fini vietati dalla legge penale. Tutto ciò che ai singoli è vietato dalla legge penale, è al di fuori della garanzia ed è pertanto inutile tentare un'elencazione preventiva quando già il sistema di per sé ha una sua completezza.
Per ragioni di brevità aggiungerei soltanto un argomento che a me sembra meritevole di qualche attenzione. Invece, l'ultimo punto che tratterò corrisponde a poco più di una battuta di spirito. Vorrei fare riferimento alla possibilità, enunciata nel testo di tutte e due le proposte di legge e chiarita nella relazione, di abrogare la legge del 1929 sui culti ammessi. La premessa ovvia è che il regime della legge del 1929 si mantiene tuttora in vigore in quanto compatibile con la Costituzione. Per le parti non compatibili, prima o poi, esiste la garanzia della Corte costituzionale che può liberarcene.
Quindi, partiamo dal presupposto che vi sono parti superstiti di quella vecchia legge non incostituzionali.
Pertanto, si tratta di verificare se sia possibile sostituire quella legge con un'altra legge di carattere generale. Nel vecchio regime, la garanzia era fornita dalla generalità del trattamento per tutte le confessioni. Se osserviamo l'attuale sistema costituzionale la garanzia si riscontra, all'opposto, nella specificità delle intese.
Mi domando: una disciplina generale per le confessioni che prescinda dalle singole intese e che pretende di stabilire un diritto comune è possibile ai sensi della Costituzione? Non contraddice la garanzia attuale?
ROBERTO ZACCARIA. L'idea proposta è quella di fornire una disciplina generale, però le intese diventano diritto speciale.
PIERFRANCESCO GROSSI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «Tor Vergata» di Roma. La premessa che possa esserci una legge generale per tutte le confessioni costituisce il punto qualificante dei miei dubbi, che mutuo da un'autorevole costituzionalista, prematuramente scomparso, qual è stato Finocchiaro.
Finché si tratta della sopravvivenza del passato la manteniamo finché non si riescono a concludere le intese con tutte le confessioni, ma stabilire oggi una disciplina a carattere generale - anche se successivamente modificabile attraverso le leggi sulle intese - non so se possa essere considerata compatibile con la Costituzione. In questo ordine di idee, intendo aggiungere una piccola notazione critica. Le intese si sono raggiunte e tutti ci auguriamo che se ne possano concludere sempre di più e che una volta concluse si traducano in leggi. Man mano che questo processo, ormai avviato, si completa, quella generalità che funzionava nel vecchio regime per assicurare una qualche garanzia oggi, nell'attuale regime, diventa una particolarità. Dunque, quelle poche confessioni che rimangono escluse dalle intese o che raggiungono intese non tradotte in una legge finiscono per avere un trattamento che non è nemmeno generale, ma residuale. Quindi, vi è un ulteriore motivo di perplessità.
In senso opposto, se la disciplina generale fosse più favorevole rispetto alle intese, ciò potrebbe costituire per le confessioni una disincentivazione alla conclusione delle intese.
PRESIDENTE. Basta non firmare l'intesa.
PIERFRANCESCO GROSSI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «Tor Vergata» di Roma. Per quanto riguarda la lettura degli articoli del codice civile prima o dopo le pubblicazioni aderisco a quanto detto
da Marini senior aggiungendo solo una battuta; forse è una battuta, ma forse scherzando potrebbe essere presa sul serio: invece di dilaniarci tanto su questa lettura, se riflettiamo su un altro dato posto in evidenza dal relatore nella sua relazione, vale a dire sul fatto che ormai si tratta di un fenomeno immigratorio, che ne direste se alla lettura dei soliti articoli del codice civile si aggiungesse anche quella degli articoli 29 e 30 della Costituzione?
Se nella maggior parte dei casi i nubendi non sono cittadini italiani, ma stranieri...
PRESIDENTE. Comunque, anche agli italiani non farebbe male, non ne sarebbero danneggiati.
NICOLA COLAIANNI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Bari. Volevo svolgere una puntualizzazione sulla questione se il matrimonio solo religioso abbia rilevanza civile. Naturalmente, è chiaro che il problema che prendiamo in considerazione è quello della rilevanza del matrimonio religioso poligamico.
La questione trova risposta positiva già nel nostro ordinamento, in quanto anche in Italia il matrimonio religioso senza effetti civili dà luogo alla rilevanza civile che noi attribuiamo alla famiglia di fatto. Ciò significa che, laddove il musulmano sposato in seconde nozze, dovesse poi scombinare, nel contratto di locazione potrà succedere la persona con la quale in precedenza era unito in matrimonio che, dal nostro punto di vista, è soltanto un convivente di fatto.
PRESIDENTE. Quale delle due?
NICOLA COLAIANNI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Bari. Parliamo del matrimonio
poligamico nel quale tutte le mogli stiano in casa. Queste soluzioni la giurisprudenza le ha già trovate; infatti, anche nel caso di maltrattamenti in famiglia, il relativo reato emerge anche nel caso di persone che non sono legate da un matrimonio avente effetti civili, ma con riferimento a qualsiasi persona che stia in famiglia. Ciò che conta è il concetto di famiglia di fatto e non quello giuridico.
PIERFRANCESCO GROSSI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «Tor Vergata» di Roma. Addirittura, la Cassazione in alcune sentenze ha stabilito che il reato di maltrattamenti in famiglia può riguardare anche la concubina.
PRESIDENTE. La concubina lo capisco.
MARCO BOATO. In riferimento all'intervento del professor Dalla Torre, che ho ascoltato con grande interesse, ho notato che ha svolto una critica all'articolo 1 perché riferito soltanto al diritto fondamentale della persona, senza far riferimento all'aspetto associativo. Tuttavia, all'articolo 2, si prevede che la libertà di coscienza e di religione comprende il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa o credenza, in qualsiasi forma individuale o associata. Quindi, l'aspetto associativo è immediatamente contenuto nel successivo articolo 2.
Allo stesso titolo, riguardo alla questione dell'intesa e sull'aspetto discrezionale - sull'uso dell'indicativo, per intenderci - il terzo comma dell'articolo 8 della Costituzione stabilisce che i rapporti con lo Stato sono regolati - e non, possono essere regolati - per legge sulla base di intese.
ROBERTO ZACCARIA. Ha detto questo!
MARCO BOATO. Allora siamo d'accordo, le chiedo scusa forse avevo equivocato l'espressione.
MARCO VENTURA, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università di Siena. Per quanto riguarda il riferimento all'immigrazione, che ripropone il tema di metodo, occorre analizzare l'iniziativa legislativa in relazione alla sua portata in rapporto ai vari problemi. Il caso della Carta dei valori che si sta elaborando in seno alla Consulta per l'Islam italiano ne è il migliore esempio, visto che tale Carta dovrebbe essere applicata a tutte le comunità immigrate.
Se esaminiamo questa legge nella prospettiva della soluzione di tutti i problemi non possiamo che addivenire ad un giudizio negativo sulla stessa, in quanto il provvedimento in esame non può risolvere tutti i problemi. Occorre che tale legge sia formulata in modo tale da essere compatibile, quale legge quadro in riferimento ai grandi principi, con tutto il resto che si sta faticosamente elaborando nel sistema e che necessariamente dovrà essere poi delegato ad altri momenti di intervento.
Il secondo nodo rispetto all'impossibile esaustività della legge è di nuovo il tema del matrimonio e dell'efficacia civile del matrimonio solo religioso Infatti, già sulla questione immigrazione emerge l'impossibile esaustività della legge rispetto alla complessità del fenomeno. Sul problema del matrimonio emerge l'impossibile esaustività della legge rispetto a ciò che comunque resta alla politica. Mi spiego meglio: il caso dell'autonomia e indipendenza della Chiesa cattolica - uso un termine non giuridico - nella gestione dei propri matrimoni. È vero che da questo punto di vista attraverso il Concordato si riconosce alla Chiesa cattolica la massima autonomia. Ma attenzione: fuori dal diritto cosa c'è? C'è una
Chiesa cattolica italiana che, in coincidenza con l'accordo di Villa Madama, produce un proprio decreto, valido solo canonicamente, in cui vincola attraverso un meccanismo la celebrazione dei propri matrimoni canonici, prevedendo un meccanismo di dispensa rispetto all'assenza nello specifico matrimonio canonico di un riconoscimento civile. Questo è un diritto puramente canonico, privo di effetti civili, ma dal punto di vista della dinamica politica è fondamentale perché e la garanzia che la Chiesa cattolica, in qualche modo, fornisce allo Stato della propria lealtà, nel momento stesso in cui si vede riconoscere una autonomia. Mi sembra che sul piano di questa difficile relazione tra diritto e politica sia questo che si pone oggi rispetto all'Islam; infatti, l'autonomia del matrimonio islamico, in questo caso, non è coperta da una garanzia di lealtà istituzionale e politica dell'autorità musulmana competente.
CESARE MIRABELLI, Professore ordinario di diritto canonico e diritto ecclesiastico presso l'Università« Tor Vergata» di Roma. Grazie, signor presidente, per l'invito ad essere ascoltato in questa sede; grazie alla Commissione affari costituzionali, al relatore Roberto Zaccaria e ai parlamentari che hanno presentato queste proposte di legge che ci offrono l'opportunità di esprimere qualche osservazione.
Il quadro sistematico è chiaro; probabilmente dirò alcune cose che già sono state rilevate, mentre su altre la mia diversità di posizioni, semmai ci sarà, non sarà adeguatamente motivata in rapporto agli interventi che purtroppo non ho potuto ascoltare.
Il quadro sistematico mi sembra chiaro: integrare e completare l'attuazione della Costituzione in connessione con il mutamento della politica di legislazione ecclesiastica - accordo di revisione del Concordato, intese - così come era
avvenuto nel 1929, (ai grandi tornanti della politica ecclesiastica c'è una disciplina che poi diventa complessiva) e superare definitivamente la legislazione del 1929.
I progetti di legge che sono stati presentati non riguardano soltanto le confessioni senza intesa, ma disciplinano anche le modalità e le procedure con le quali arrivare alle intese. Se si dovesse usare un'espressione che non è propria del nostro sistema, si direbbe forse che si è in presenza di una legge che aspira ad essere una legge organica del settore, inserendosi in un sistema di questo tipo.
È indispensabile questa legge? Direi che non vi è una necessità in senso assoluto di una legge di questo tipo in presenza di una legge del 1929 che è stata depurata di alcuni elementi di maggiore illibertà o che può essere depurata con gli interventi che la Corte costituzionale può attuare. Ricordo le primissime sentenze della Corte costituzionale e rammento che nella prima Jemolo era l'avvocato che difendeva il diritto di aprire i templi senza l'autorizzazione governativa e di tenere riunioni religiose senza che vi fosse un ministro del culto autorizzato, cioè senza quel sistema di controlli che lo Stato imponeva attraverso l'autorità governativa; però, il fatto che non sia necessitata ed indispensabile non significa che non sia o non possa essere altamente opportuna, proprio perché è, in qualche modo, una legge di sistema. È opportuna, non perché ha una carica innovativa dirompente, ma perché è sistematica, perché indica distintamente facoltà che sono comprese nel diritto di libertà religiosa dal punto di vista individuale, specifica aspetti collettivi e specifica e tocca anche alcuni aspetti istituzionali. Questa come indicazione di quadro.
A questo punto offrirei alcune osservazioni che sono solo di dettaglio e perciò possono apparire minimali, ma attraverso le quali può essere utile vedere alcuni aspetti di principio. Per
quanto riguarda l'articolo 1, è vero, il diritto di libertà religiosa è già riconosciuto dalla Costituzione e forse non ci sarebbe nulla da aggiungere; ma c'è un elemento di novità, un elemento importante che troviamo a livello di nomenclatura e non è solamente un vezzo il dire che si tratta di un diritto fondamentale della persona. È un'espressione leggermente diversa dalle altre che qualifica, in qualche modo, questo diritto, ne assicura la garanzia a tutti; e mi sembrerebbe non irrilevante anche il richiamo, non solo alle convenzioni internazionali, ma ad un punto - non so se sia stato osservato o meno - che riguarda i principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti in materia. Attraverso questa «operazione» si inseriscono, secondo la visione che lo Stato può avere, i diritti fondamentali nell'alveo del diritto internazionale generalmente riconosciuto, vincolando in qualche modo anche le stesse convenzioni internazionali, rafforzandole e dando anche un riconoscimento di efficacia molto forte a questo diritto. Inoltre, c'è un qualche effetto di collegamento indiretto con l'articolo 117 della Costituzione, quale risulta dalla legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001, laddove si afferma che la legislazione deve rispettare gli obblighi derivanti dagli atti internazionali; quindi, è un farsi di sistema e inserisce la stessa interpretazione del diritto di libertà religiosa a livello interno in un flusso complessivo che è proprio della caratterizzazione dei diritti fondamentali. Perciò, quello che potrebbe apparire inutile, in realtà ha un elemento di stimolo per una costruzione di sistema.
Nell'articolo 2 la enunciazione del diritto di diffondere la propria religione, non solamente nella forma della propaganda, ma anche nella forma della enunciazione, quindi pubblica, della conoscenza del proprio sentire religioso e delle proprie convinzioni, ha un carattere di sottolineatura non in
contrasto con quanto il diritto costituzionale già prevede, di specificazione chiarificatrice. E così quando si afferma il diritto di mutare religione o credenza, in corrispondenza di previsioni comprese nel diritto e affermate in convenzioni internazionali, si enuncia qualcosa che ha una forza chiarificatrice anche all'interno, laddove ad esempio vi siano difficoltà nel mutare confessione religiosa, appartenenza confessionale, convinzione religiosa e questo atto, in ipotesi, porta conseguenze dannose sul piano personale o dal punto di vista normativo oppure dal punto di vista delle condizioni di vita della persona; vi è quindi una garanzia di un diritto di libertà che potrebbe essere violato anche da attività di privati, non solamente da autorità pubbliche.
Sull'articolo 3 segnalo una cosa minima che potrebbe apparire quasi come una sofisticata «toletta topografica»: si dice che non si può essere obbligati a dichiarazioni specificatamente relative alla propria appartenenza confessionale. Questo sembrerebbe ancorato più al testo dell'articolo 2, piuttosto che a quello dell'articolo 3; quindi, se inserita nell'articolo 3 mi chiedo - e forse questa può essere la ragionevole collocazione - se tale norma non sia riferita proprio alla necessità di interpretare anche questa disposizione nel senso di evitare enunciazioni idonee a dar luogo ad una discriminazione, cioè la forma che riguarda la cautela nella conoscenza e nella conoscibilità delle convinzioni religiose è connessa all'esigenza di protezione, rispetto alla discriminazione potenziale.
L'articolo 4 presenta anch'esso un elemento che mi pare di novità e di coerenza con il sistema: esplicitare che vi è un diritto-dovere dei genitori all'educazione religiosa dei figli secondo le proprie convinzioni, ma allo stesso tempo stabilire elementi di tutela e protezione dei minori, laddove si tratti di
pregiudizi che riguardano la loro salute. Ciò è associato altresì alla definizione di diritti di cui i minori sono titolari immediatamente nella pienezza dell'espressione, quando cioè la maturità psicofisica già si ritiene esistente per queste scelte (ad esempio, a 14 anni).
Così, tra le diverse specificazioni, mi permetterei di segnalare l'articolo 6, laddove vi è la chiara affermazione del diritto di ricevere la confessione senza subire molestie ed effetti dannosi ovvero discriminazioni. Talvolta, anche l'esperienza giurisprudenziale ci offre segnali contrari rispetto alla garanzia che la norma propone. Allora, anche qui si tratta di un'innovazione rispetto ai principi - i quali per loro natura hanno potenzialità di esprimersi in una molteplicità di disposizioni - che esplicitano quel cono di facoltà che gli stessi diritti fondamentali in sé prevedono.
Può esserci tuttavia un margine di incompletezza in questo, poiché non vi è esaustività nelle enunciazioni ovvero un'elencazione. Infatti quest'ultima, in genere, tende a individuare quei punti di maggiore crisi rispetto ai quali l'enunciazione formale della norma assicura una garanzia non rimessa alla successiva elaborazione derivante dal contenzioso. Invece, in questo caso si tratta proprio di una chiarificazione di tipo normativo.
Pur rientrando nel più vasto diritto della libertà religiosa, l'obiezione di coscienza trova una specifica collocazione in rispondenza proprio ad altri atti, come espressamente previsto nella Carta di Nizza. Tuttavia, lo ripeto, la funzione generale di questa legge mi parrebbe quella presente al Capo I, vale a dire una chiarificazione del sistema dal punto di vista dei diritti individuali, come ad esempio all'articolo 8, riguardo le
pratiche religiose nei luoghi in cui vi sia una restrizione della libertà della persona nell'accesso all'esercizio della libertà religiosa.
L'altro elemento individuabile nei rapporti tra privati è la garanzia che è già prevista da altre norme, in questo contesto di sistema, relativa alla condizione della persona rispetto alla libertà religiosa nell'ambito dell'attività lavorativa e sociale. Perciò, mi parrebbe che, sotto questo aspetto, ci possano essere delle osservazioni riguardo alla completezza o meno delle indicazioni di rifinitura, ma complessivamente il tessuto della legge può reggere.
Ometto alcune osservazioni e, tra queste, una minima riguardo al matrimonio: deve essere chiaro che si tratta di un matrimonio civile, celebrato in forma religiosa. Ciò è in sottofondo e non so se sia necessario esplicitarlo. Tuttavia, un'altra osservazione che vorrei esprimere è sull'articolo 14, laddove si tratta di edifici aperti al culto pubblico. Mi chiedo se la garanzia contro la requisizione, l'espropriazione e la demolizione di tali edifici non richieda una caratterizzazione ulteriore rispetto all'apertura degli stessi al pubblico, con riferimento alla loro diretta destinazione al culto che sia stabile ed esclusiva. Abbiamo sentito che ci possono essere delle difficoltà, ma la garanzia non può eccedere quella che è la funzione tipica e non occasionale. Solo una destinazione permanente può giustificare una norma di questo tipo.
MARCO BOATO. Come la formulerebbe?
CESARE MIRABELLI, Professore ordinario di diritto canonico e diritto ecclesiastico presso l'Università« Tor Vergata» di Roma. In ipotesi, aggiungerei l'espressione: «Gli edifici stabilmente ed esclusivamente destinati ed aperti al culto pubblico», vale a dire puramente con un'indicazione della caratterizzazione
che questi edifici devono avere per godere della garanzia, oltre a quella dello stesso articolo 831 del codice civile che prevede il vincolo di destinazione privilegiata. Quando questa destinazione fosse promiscua o non permanente, non vi sarebbe ragione per il mantenimento della garanzia. Questo poi ha un effetto anche sulle contribuzioni pubbliche che possono essere date rispetto agli edifici di culto, come indicato in un'altra parte del testo, non legate solamente ad un decorso del tempo. Ciò significa che non ci potrebbe essere una destinazione diversa dell'edificio per vent'anni, anche se ancorerei la destinazione degli edifici al recupero delle risorse allocate in funzione dell'interesse pubblico. Ciò al fine di dare soddisfazione al godimento del diritto di libertà religiosa attraverso il culto il quale richiede l'utilizzazione di edifici - di templi - a ciò destinati.
Le parti che invece lasciano qualche dubbio di assetto e di approfondimento, nonché elementi di una qualche ambiguità o crisi - non per difetto della penna del redattore dell'iniziativa, ma forse per la difficoltà insita in questo aspetto - sono quelle relative alle confessioni religiose e alle intese. Infatti, qualche problema emerge perché mi pare ci sia un margine di equivoco nell'individuazione della confessione religiosa e del riconoscimento della personalità giuridica dell'ente esponenziale. Ciò vuol dire che, attraverso il riconoscimento dell'ente, vi è anche quello della confessione che ha caratterizzazioni in parte diverse dall'ente. Anche quando parliamo di statuto, ho l'impressione che la persona giuridica sia cosa diversa dallo statuto medesimo, come si legge dall'epigrafe «Normazione autonoma propria della confessione religiosa». Ci potremmo trovare di fronte ad un statuto che limpidamente organizza alcuni aspetti della gestione amministrativa
e ad una confessione religiosa avente una struttura normativa propria e contrastante con l'ordinamento dello Stato e, come tale, non rilevabile dallo statuto.
Questo disallineamento tra confessione e personalità giuridica può essere un punto di crisi che si riverbera anche sull'articolo 18. Infatti, quando si fa riferimento alle norme di organizzazione, dobbiamo riferirci a quelle della confessione e non dello statuto o dell'ente come persona giuridica. Così anche quando si fa riferimento al carattere confessionale dell'ente o alla natura della confessione, il riferimento alla natura religiosa ed al credo religioso danno sostanza e determinano la nascita e l'esistenza della confessione. Forse ciò andrebbe in qualche modo sottolineato, al fine di non creare - in un certo senso - una linea di autoqualificazione e perché il fatto di essere una entità religiosa possa corrispondere alla natura stessa della confessione.
Qui si inseriscono altri problemi di definizione: confessioni senza intesa e confessioni con intesa. Mi chiedo - e pongo in chiave di domanda la questione - se non dobbiamo distinguere fra le confessioni religiose che vivono in un ambito di libertà, non disciplinate dal diritto comune perché è questa la loro scelta o perché lo Stato non ritiene di avere intese con esse, e discipline capaci di intesa. Ciò non per discriminare nell'ambito delle confessioni religiose, ma per individuare la natura propria di ciascuna di esse dal punto di vista strutturale.
È evidente che lo Stato non entra nelle convinzioni religiose e nella valutazione delle convinzioni religiose.
Uno sforzo di questo tipo è stato compiuto, nell'ambito di una tradizione ormai amplissima, nel sistema tedesco, dove si opera una distinzione tra confessioni di diritto privato e confessioni che hanno uno statuto pubblicistico, o per il
riferimento storico, le confessioni tradizionali, o perché tale indicazione risale alla Costituzione di Weimar; sono assimilabili alle confessioni tradizionali, tenendo conto del loro coordinamento, del numero dei propri membri, della garanzia di durata che offrono. Si tratta di confessioni che si pongono come ordinamento, ossia che rispondono ad una comunità presente e radicata, che ha una sua consistenza come comunità ed una consistenza da punto di vista ordinamentale - proprie norme, propria struttura organizzativa, propri uffici -, rispetto alla quale vi è l'esigenza di un rapporto e di uno statuto di tipo pubblicistico.
Si pone un aspetto delicato, ossia se una comunità di questo tipo riguardi cittadini o altri, perché la garanzia di durata o di stabilità e la presenza della comunità come comunità che acquista uno statuto pubblicistico riguarda la libertà religiosa, la libertà di fede e l'eguale libertà delle confessioni religiose.
Un'osservazione ancora minima, poi mi blocco...
PRESIDENTE. Si autoblocchi, professore; svolga, in ogni caso, la sua considerazione, per carità.
CESARE MIRABELLI, Professore ordinario di diritto canonico e diritto ecclesiastico presso l'Università« Tor Vergata» di Roma. Mi domando se si possano evitare alcune previsioni di dettaglio, come le composizioni ed il grado degli appartenenti alle commissioni che studiano o che propongono le intese; mi dà un'idea di amministrativizzazione di elementi che sono di carattere politico.
Un ultimo ricordo (richiamo un'espressione che già ho ascoltato) è dedicato a Ruffini: si faccia attenzione proprio all'insegnamento di Ruffini, per quel che riguarda la condizione delle chiese e delle confessioni religiose e la distinzione, in un ordinamento schiettamente liberale e laico, tra le ragioni
storiche, numeriche e sociali che caratterizzano la realtà; l'uguaglianza non è un'uniformità di disciplina o di valutazioni. Questo riguarda il contenuto delle intese, senza che ci debba essere o ci possa essere alcuna discriminazione. Differente disciplina non significa discriminazione, ma anche (uso questo termine inappropriato) accesso alle intese, che non diventi uno strumento di auto-legittimazione di realtà; o non hanno una caratterizzazione genuinamente religiosa o non hanno la consistenza sociale e strutturale, direi ordinamentale, propria di una confessione che si pone su un piano negoziale con lo Stato, garantendo a tutte, ovviamente, il massimo di godimento della libertà e l'eguale libertà.
ROBERTO ZACCARIA. Presidente, mi scuso, ma purtroppo devo lasciare l'aula; mi sono già scusato con il professor Maselli, che avrei interesse a sentire, ma che ho già ascoltato in altre occasioni.
PRESIDENTE. L'onorevole Zaccaria deve partire necessariamente. Lo sostituirò indegnamente io. Prego, professor Maselli. Ricordo che quello del professor Maselli è l'ultimo intervento.
DOMENICO MASELLI, Professore di storia del cristianesimo e delle religioni presso l'Università di Firenze. Ringrazio moltissimo per questa giornata. Vorrei ringraziare particolarmente il relatore Zaccaria per ciò che ha fatto, che sta facendo e che farà. In più, lo ringrazio per l'introduzione generale, che ci ha insegnato moltissimo e che ho paragonato, dopo tanti anni, alla mia relazione, cercando di vedere le cose che sono mutate in questi 15 anni.
Da questo punto di vista, la mia relazione di oggi sarà particolare. È una relazione storica. Vorrei spiegare perché
siamo arrivati a queste leggi e chi oggi le difende è uno che non ci credeva e non le voleva per una ragione. Io ero scolaro di Peyrot, legatissimo a Lariccia, e chiaramente anche io ho condiviso pienamente l'autentica separazione tra Chiesa e Stato, completamente. Senonché, mi sono convinto per le esigenze pratiche che constato giorno per giorno e che oggi, per l'incarico pubblico che ricopro, verifico ancora di più, proprio sulla pelle.
La sola via indicata dalla Costituzione è, con buona pace di tutti, quella del comma 3 dell'articolo 8: non c'è altra strada. Non c'è scritto «i rapporti con lo Stato possono» o «qualche volta sono»! C'è scritto: sono regolati. Io posso anche capire perché. Infatti, i rapporti dei culti diversi dal cattolico con lo Stato sono regolati sulla base di intese. Avendo scelto la via pattizia con la Chiesa cattolica, lo Stato non ha ritenuto di legiferare erga omnes per tutti gli altri; quindi, sceglie la via pattizia anche con gli altri enti.
I costituenti, però, pensavano a due o al massimo a tre intese. Pensavano ad un'intesa con gli ebrei e ad una con i protestanti. Si affacciavano allora i testimoni di Geova che potevano essere un'eventuale terza intesa. L'inadempienza dello Stato, che ha stipulato la prima intesa con la Tavola valdese 36 anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, ha determinato gravi conseguenze.
La prima: i protestanti, che erano pronti ad una sola intesa, comune, nel 1948, non lo erano più 36 anni dopo, perché erano stati costretti a vivere ognuno la sua via! Quindi, 36 anni dopo, ognuno ha voluto la sua intesa, con il seguente risultato: oggi, con la devoluzione dell'8 per mille, si è aperta una pagina che mi fa soffrire, come protestante. Infatti, non
capisco perché vi debbano essere cinque diverse richieste dell'8 per mille. Dal 1984 abbiamo potuto cominciare a fare delle intese.
Seconda inadempienza. Dal 1984 al 1995 si è riusciti solo a raggiungere cinque intese con i protestanti ed una con gli ebrei, ossia esclusivamente con i gruppi cristiani o giudeo-cristiani, ma nessun'altra soluzione, anche se, ormai, nel paese la situazione si era aggravata. Dal 1995 ad oggi, nessun'altra intesa. Le ultime due hanno avuto me come relatore nel 1995. Due sono state firmate dal Governo D'Alema, ma poi non sono state portate in Parlamento la seconda volta. Cinque sono state siglate dal sottosegretario Gianni Letta, ma non presentate in Consiglio dei ministri per un'opposizione. Due piccole modifiche alle intese con la Tavola e gli Avventisti, approvate e firmate dal Primo ministro Berlusconi, ma non presentate alle Camere.
Vi è stato un mutamento della situazione religiosa italiana dovuto al cambiamento di religione tra gli italiani, con un aumento enorme dei pentecostani, dei testimoni di Geova, dei buddisti. Pensate che nella diocesi di Firenze vi sono ben 25 mila buddisti! Questo è stato riscontrato dalla chiesa fiorentina.
Per quanto riguarda i musulmani, non quelli immigrati, ma i musulmani convertiti, ricordo che, tra gli altri, si sono convertiti alla religione musulmana due ambasciatori.
Di fronte a questa situazione, che non aveva ancora ricevuto l'impatto grandissimo dell'immigrazione, Andreotti ha avuto una soluzione andreottiana. Nel 1990 propose empiricamente una soluzione pragmatica tipica di lui: una legge sulla libertà religiosa. Noi siamo stati tutti contrari...
NICOLA COLAIANNI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Bari. Nel discorso con cui Craxi,
Presidente del Consiglio, nel gennaio del 1984 diede un'informativa al Parlamento sulla conclusione dell'accordo di revisione del Concordato e della prima intesa con la Tavola, disse anche che vi era l'esigenza di fare una legge comune in materia religiosa proprio perché si cominciavano a differenziare.
DOMENICO MASELLI, Professore di storia del cristianesimo e delle religioni presso l'Università di Firenze. Però poi, nel 1990, venne presentata la prima bozza.
NICOLA COLAIANNI, Professore ordinario di diritto ecclesiastico presso l'Università di Bari. Certo, però non è stato Andreotti; è stato Craxi in conseguenza del Concordato e dell'intesa, perché si stava frammentando la disciplina.
PRESIDENTE. Insomma, fu Craxi che assunse una soluzione andreottiana.
MARCO BOATO. Bisogna aggiungere che il testo del 1990 non fu mai presentato al Parlamento.
DOMENICO MASELLI. Professore di storia del cristianesimo e delle religioni presso l'Università di Firenze. Non fu presentato per la reazione che ebbero la dottrina - ricordo benissimo che in quel momento Peyrot e tutti gli altri reagirono fortemente - e le Chiese stesse, quelle con l'intesa e quelle che ancora non l'avevano. Nel frattempo, vi è stata l'immigrazione, e tra le altre religioni mi ero dimenticato di citare la Bahai. A questo punto la situazione è diventata insostenibile, dato che oggi abbiamo sette diverse posizioni di un gruppo religioso di fronte allo Stato: il Concordato, le intese, chi ha stipulato le intese ma non le ha viste accettate dal Parlamento, chi ha il riconoscimento giuridico, chi ha il riconoscimento giuridico a titolo personale, chi ha un miniriconoscimento al Ministero
dell'interno per la previdenza dei ministri di culto, chi non ha nessuna forma di riconoscimento. Vedendo la sofferenza giorno per giorno di questi ultimi, vi è la necessità di creare una legge quadro senza fermare le intese.
Quello che ha convinto me ed altri ad accettare anche la legge quadro è stata proprio la presenza del terzo titolo, che può favorire la presentazione di intese. Ad esempio, probabilmente, se ci fosse già stata questa legge i testimoni di Geova avrebbero avuto approvata l'intesa. Era stata richiesta da Giovanardi e da altri una dichiarazione di accettazione dello Stato da parte dei testimoni di Geova che erano pronti a fornirla, ma non potevamo farlo senza rimettere in discussione la firma. Per tale ragione, ora prevista da questa legge, dopo i tanti anni passati dal 2000 non abbiamo ancora l'intesa.
Ecco perché abbiamo accettato tale idea: ho voluto fare questo discorso perché capisco tutte le esigenze che stamattina sono emerse da parte della dottrina e che molte volte mi trovano consenziente. Si è vista, poi, una reazione violenta da parte di molte forze parlamentari che ha portato ad un testo che non è quello che avremmo voluto. D'altra parte, Spini e Boato bene hanno fatto a ripresentarlo, altrimenti se ne riparlerebbe tra anni. Contemporaneamente, tale testo può aiutare le intese a continuare. Credo si debba dare atto al presidente Violante di aver voluto mettere in discussione questi due testi senza aspettare quello del Governo: in questo modo la discussione preliminare è già svolta.
Un punto sembra assolutamente fuori da questo discorso: introdurrei un articolo per l'insegnamento della storia delle religioni nella scuola superiore. Infatti, credo che non vi possa essere vera libertà religiosa finché tutti non conoscono tutti gli altri. Questo vale particolarmente per l'ingresso degli immigrati, ma non solo. Il fatto che nella scuola media superiore
non vi sia alcuna forma di insegnamento scientifico di storia delle religioni mi sembra una mancanza grave del nostro ordinamento: lo dissi al ministro Berlinguer a suo tempo e lo ribadisco ora. Questo non c'entra con l'ora di religione cattolica, che qui non è in discussione; è in discussione un dovere dello Stato verso i suoi cittadini.
Vorrei aggiungere che abbiamo scritto «scuole pubbliche» senza discriminazione perché in quel momento con «pubbliche» si intendeva sia quelle statali, sia quelle parificate. Occorre specificare «pubbliche o parificate» perché sia ben chiaro che nessun tipo di scuola, confessionale o meno, può operare discriminazioni di carattere religioso. Questo è molto importante per eventuali scuole islamiche che si aprano nel nostro paese. Se poi vieteremo una discriminazione che non è prevista in una legge ordinamentale dello Stato, avremo una giusta ribellione. Se oggi, invece, prevediamo che nessun tipo di scuola che rilasci titoli pubblici può subire una discriminazione avremo creato una base di partenza.
Sull'articolo 1 condivido molti discorsi che ho sentito, ma aggiungerei una citazione degli articoli 1 e 8 della Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme di intolleranza e discriminazione fondate sulla religione o la convinzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 25 novembre 1981, perché mi sembra la dichiarazione più completa contro ogni forma di discriminazione. Sono d'accordo su molte osservazioni espresse: ad esempio, sulla proposta di sdoppiare l'articolo 8.
Per quanto riguarda il matrimonio, personalmente ero d'accordo con Peyrot quando chiese di fare la lettura nelle pubblicazioni per lasciare all'ufficiale di stato civile questo dovere-diritto. Aggiungerei anche il particolare della firma per presa visione da parte dei nubendi della legge dello Stato e
delle due norme costituzionali: lo scritto, poi, rimane al ministro di culto nel suo archivio. Questo toglierebbe possibilità di discussione in seguito sulla validità della lettura delle leggi. Ho sentito, in chiese cattoliche e non, leggere le norme durante il culto all'ultimo momento, esattamente come si fa quando si vogliono leggere gli spot pubblicitari sui farmaci: li leggono in modo che nessuno li senta. Dobbiamo anche garantirci che chi accetta di contrarre il matrimonio con forme civili conosca il codice italiano.
C'è un'altra, ultima osservazione da formulare. Personalmente, aggiungerei alla proposta di legge in questione un articolo che preveda fino a cinque giorni di vacanza all'anno per ragioni religiose e fino a due ore per la preghiera, da «restituire», nell'uno e nell'altro caso, entro un mese. Ad esempio, si potrebbe sottrarli dalle vacanze natalizie, o da altri periodi.
PRESIDENTE. Ciò vuol dire che i beneficiari andranno a scuola quando gli altri saranno in vacanza?
DOMENICO MASELLI, Professore di storia del cristianesimo e delle religioni presso l'Università di Firenze. No, presidente: voglio semplicemente riferirmi al mondo del lavoro, perché, nel caso ammettessimo tale facoltà senza contemplare qualche forma di restituzione, avremmo una grave crisi.
LUIGI LOMBARDI VALLAURI, Professore ordinario di filosofia del diritto presso l'Università di Firenze. Signor presidente, ho rinunciato, perché la considero perdente, alla prospettiva di ritenere costituzionale solo la riduzione del fenomeno religioso al diritto comune (la quale mi sembra però, filosoficamente e costituzionalmente, la sola fondata), ed ho accettato la prospettiva delle intese, poiché, a mio avviso, è quella che alla fine avrà successo.
Pertanto, ribadirei l'importanza di usare indiscriminatamente l'espressione «convinzioni in materia religiosa». In altri termini, interpretare l'espressione «confessioni religiose» come «convinzioni in materia religiosa» costituisce, a mio parere, un'interpretazione evolutiva oggi obbligata. Si tratta, infatti, dell'unica interpretazione compatibile con la Costituzione.
Inoltre, la collegherei alla distinzione tra «retaggi» e «valori» contenuta nella bozza di Costituzione europea che è stata approvata; vorrei segnalare, tra l'altro, che ho seguito una tesi proprio su tale argomento. La Costituzione europea, infatti, nel preambolo ed in altre due parti, parla di «retaggi europei» e di «valori universali». Ebbene, i retaggi europei non vengono considerati valori universali: valori universali, infatti, sono la libertà, la democrazia, la laicità dello Stato e via dicendo.
L'unico interesse pubblico dello Stato, a livello di Costituzione europea, è non un particolare pensiero religioso, e nemmeno il pensiero laico antireligioso, ma la laicità.
Allora, usando l'espressione «convinzioni in materia religiosa», si rende il provvedimento compatibile con l'articolo 8 della Costituzione. Dall'altro, ricordo che siamo già membri dell'Unione europea, nella quale è chiaro che i valori universali sono le convinzioni: nel caso della proposta di legge in oggetto, si tratta delle convinzioni in materia religiosa.
FRANCESCO ZANNINI, Professore del Pontificio Istituto di studi arabi e islamici. Signor presidente, sono d'accordo con il professor Maselli a proposito della questione della concessione delle due ore per motivi religiosi, da recuperare successivamente per ragioni finanziarie. Tuttavia, vorrei evidenziare che si potrebbe aprire un problema di reciprocità. Ciò perché - ricordo che sono stato molto tempo nei paesi islamici - ai
cristiani le ore per la domenica vengono concesse senza recupero: quindi, si rischia di penalizzare alcuni soggetti e di creare un problema.
PRESIDENTE. Signori e signore, vi ringraziamo molto per la vostra pazienza, nonché per i contributi che ci avete offerto. Avete capito che si tratta di un tema che ci sta molto a cuore e che risulta essere pieno di complessità: del resto, credo che lo sappiate molto meglio di noi.
Tranne alcuni deputati particolarmente esperti, gli altri - tra cui chi vi parla - stanno constatando, passo dopo passo, la complessità delle questioni alla nostra attenzione. La presente audizione conclude il ciclo di audizioni stabilito. La Commissione procederà, quindi, con l'esame delle proposte di legge in materia di libertà religiosa; vedremo se il Governo intenderà predisporre un proprio disegno di legge, che valuteremo con attenzione.
Non è escluso che, tra un po' di tempo, potremmo nuovamente disturbarvi, una volta redatto il testo base, per ascoltare la vostra opinione sullo stesso. Come abbiamo detto, ci incontreremo tra un mese con i rappresentanti della Consulta per l'Islam italiano, perché dovrebbero rispondere alle questioni che abbiamo posto. Se del caso, vi disturberemo di nuovo, per ascoltare i vostri suggerimenti sul testo base che predisporremo.
Ringrazio ancora i nostri ospiti per la loro partecipazione. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16,35.
ALLEGATI