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In cerca dell'islam moderato

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 51, 23 dicembre 2006)

A un recente convegno di Reset a Roma il ministro dell’Interno Giuliano Amato ha proposto di “togliere lo stipendio a chi nega che esistano i musulmani moderati”. Consapevole dei rischi che corro – uomo avvisato, mezzo salvato – mi permetto di dire lo stesso che no, non esistono i musulmani moderati. Percorrendo in lungo e in largo i paesi a maggioranza islamica, dal Marocco alla Malaysia, non ne ho mai incontrato uno. Viceversa, in Italia ho avuto molte difficoltà a incontrare un musulmano che non si dichiarasse “moderato”, tanto che quando m’imbatto in qualcuno che nega apertamente di esserlo mi viene quasi da prenderlo in simpatia. I musulmani che vivono in Italia hanno capito che per vivere tranquilli da noi e farsi invitare a Porta a porta bisogna presentarsi comunque come “moderati”, salvo quei rari casi (spesso pagati, però, con un decreto di espulsione) di personaggi disposti a fare audience esibendo al contrario il loro estremismo. Per esempio, un esponente dei Fratelli Musulmani, il movimento da cui trae origine gran parte del fondamentalismo islamico, si presenterà come “moderato” alla televisione in Italia mentre non userebbe mai questo aggettivo in Egitto o in Giordania.

La colpa non è solo dei musulmani. Buona parte della stampa divide i seguaci dell’islam in due sole categorie: “terroristi” e “moderati”. Non senza una certa logica, molti musulmani ne concludono che se non ci si auto-definisce “moderati” si sarà etichettati come “terroristi”, con tutte le conseguenze del caso. Così, decodificando il suo discorso, un esponente dei Fratelli Musulmani potrebbe stare cercando semplicemente d’ingannare l’interlocutore italiano presentandosi come “moderato”. Ma se vuole dire di non essere un terrorista e non avere simpatie per Bin Laden (anche se ne ha per Hamas) non sta, a rigore, mentendo.

Un identikit difficile

Decodificare è la parola chiave, perché “musulmano moderato” è usato alla rinfusa per un buon numero di categorie, creando una notevole confusione. Il fenomeno potenzialmente più fuorviante è la presentazione come “musulmani moderati” d’intellettuali che sono moderati ma non sono musulmani. C’è cascato anche il ministro Amato al convegno di Reset citando fra i “musulmani moderati” pensatori rigorosamente marxisti o seguaci convinti di Voltaire nati da genitori musulmani. Sarebbe come presentare Marco Pannella o Emma Bonino al Cairo o ad Algeri come “cattolici moderati” solo perché sono nati in Italia (un errore, detto per inciso, in cui cadono talora musulmani dei Paesi arabi, dove per esempio la Bonino è piuttosto conosciuta). Certamente ingannarsi è più facile per l’islam, che – almeno nel mondo sunnita – non ha un’organizzazione gerarchica o una “Chiesa” che definisca in modo autorevole chi è dentro o chi è fuori. E – sempre per essere comprensivi – è favorito dalla situazione che regna nell’ebraismo, dove molti si definiscono insieme “ebrei” e “non credenti”, dichiarando di accettare l’ebraismo come “eredità culturale” ma non come “eredità religiosa”. Tuttavia anche qui ci sono dei limiti. Nessuno ascriverebbe Karl Marx, benché nato da genitori ebrei, all’ebraismo inteso come religione. E qualunque autorevole pensatore musulmano ci direbbe che per essere musulmani bisogna credere obbligatoriamente che Allah sia l’unico Dio (il che presuppone – è una banalità, ma non è poco – essere anzitutto certi che Dio esista) e che Muhammad sia il suo profeta, dunque che il Corano sia “il” Libro (non solo “uno dei libri”) che contiene la pienezza della rivelazione divina. Poiché l’islam è una religione che comporta un certo formalismo, la maggioranza delle scuole teologiche e giuridiche negherebbe che sia musulmano chi non rispetta almeno i doveri della preghiera quotidiana e del digiuno del Ramadan, e s’insospettirebbe di fronte a chi mangia carne di maiale o beve alcolici, mentre sarebbe più tollerante sulla mancata frequentazione delle moschee, che per la maggioranza dei musulmani – a differenza di quanto accade per i cattolici, che hanno l’obbligo di andare a Messa – non rientra fra i doveri fondamentali del culto.

Il ministro Amato ha elencato fra i “musulmani moderati” Ayaan Hirshi Ali, la compagna del regista assassinato olandese Theo Van Gogh. Avendo pubblicamente dibattuto a Toronto con la signora Ali – cui non nego, beninteso, tutta la mia solidarietà quando i terroristi cercano di ucciderla –, mi sento di escludere che sia musulmana, dal momento che sostiene senza tatticismi che Dio non esiste e che tutte le religioni – islam, ebraismo, cristianesimo, induismo – sono nocive all’uomo e ancor di più alla donna e al gay, giacché perpetuano un pericoloso sistema patriarcale e una morale sessuale arcaica. La posizione di Ayaan Hirshi Ali, ancorché più diffusa di quanto si creda fra certe élite, è estrema. Molti altri intellettuali nati da genitori islamici non rispettano il digiuno del Ramadan, mangiano carne di maiale, bevono alcolici, non credono che il Corano sia il Libro rivelato da Dio ma nello stesso tempo rivendicano il valore dell’islam come “eredità culturale” vantando magari lo splendore dell’arte islamica o la grandezza di Avicenna o Averroè.

In questa categoria troviamo quelli che per Amato – ma anche per il suo predecessore Giuseppe Pisanu, che ne ha inseriti alcuni nella Consulta per l’islam italiano – sono il prototipo dei “musulmani moderati”: Khaled Fouad Allam, Souad Sbai e magari anche Magdi Allam, che con Pisanu invece (che non lo ha voluto nella Consulta) aveva ultimamente rotto i rapporti. Ma anche questi, secondo la definizione più corrente, normale e ragionevole del termine non sono musulmani. Possono essere intelligentissimi osservatori della realtà musulmana nazionale e internazionale, bravi giornalisti, consulenti preziosi: ma non sono “musulmani moderati” perché non raggiungono il livello di ortodossia e di ortoprassi minimo per essere definiti “musulmani”.

Alcuni di loro probabilmente risponderebbero – dal momento che sono nati da genitori sunniti (il discorso sarebbe parzialmente diverso per gli sciiti) –  che non esiste nessuna autorità che possa negare loro il carattere di musulmani, e che certamente questa autorità non può essere rappresentata né da me né dall’ex-ministro Pisanu. Obiezione impeccabile dal punto di vista formale.

Tuttavia, dal punto di vista sostanziale, il fatto che l’islam (sunnita) sia una religione “orizzontale” (come l’induismo), senza una gerarchia in grado di stabilire in modo autorevole chi è musulmano e chi no, non significa che la parola “musulmano” sia diventata completamente priva di senso. Anche se un talebano dell’ateismo come il filosofo torinese Carlo Augusto Viano ha definito nel suo Laici in ginocchio cripto-cattolici anche Eugenio Scalfari ed Emma Bonino perché talora parlano con un rispetto per lui improprio e inopportuno dell’eredità cristiana dell’Italia, non abbiamo bisogno di un pronunciamento del Papa per affermare che né Scalfari né la Bonino sono cattolici. Bastano il buon senso e l’uso normale delle parole.

Così – anche se l’islam non ha un Papa per certificarlo (ma neanche per certificare il contrario) – non sono musulmani coloro che non credono nel carattere divino del Corano e non praticano i doveri fondamentali della fede, che in una religione senza gerarchia e senza teologia condivisa sono più normativi che nel cattolicesimo: mentre ci sono “cattolici non praticanti” è difficile concepire “musulmani non praticanti”, nel senso che non pregano e non digiunano, mentre ci sono “musulmani che non vanno in moschea” i quali sono musulmani a tutti gli effetti, e spesso sono pure tutt’altro che “moderati”. Per costoro – la cui funzione resta utile per capire molte cose dell’islam, in quanto si tratta spesso d’intellettuali acuti e raffinati, ma che dai veri musulmani sono non tanto seguiti quanto inseguiti con intenzioni poco amichevoli – si può parlare al massimo di “intellettuali di origine musulmana” o di “intellettuali laici” nati in un paese o in una famiglia musulmana.

L’islam inoltre è, secondo le sue fonti e come emerge dal Corano, uno stile di vita globale – è insieme religione, società, politica – per cui, se si dà all’aggettivo laico il senso più comune in Occidente, anche il famoso “islam laico” a rigore non esiste, e si tratta solo di una forma del pensiero laicista (che è e resta un fenomeno di origine occidentale) che ha conquistato persone nate in terra o in ambiente islamico.

Sgombrato il campo dai “musulmani moderati” che non sono musulmani, possiamo occuparci di quelli che sono musulmani ma non sono moderati. La moderazione è, per la verità, una caratteristica difficile da definire se non per relationem. Se è difficile dire che cos’è un moderato, è relativamente facile dire che qualcuno è più moderato di qualcun altro. Possiamo dire, per esempio, che – se utilizziamo parametri come il rapporto con il terrorismo, con gli Stati Uniti o con Israele – il re dell’Arabia Saudita è più “moderato” dei dirigenti egiziani dei Fratelli Musulmani, e che questi ultimi sono più moderati di Bin Laden.

Etichette comode ma ingannevoli

Tuttavia, se utilizziamo i criteri formulati in Turchia da Benedetto XVI come condizione per il dialogo con l’islam – rifiuto incondizionato del terrorismo (il che implica la condanna di Hamas e non solo quella di Al Qa’ida), rispetto dei diritti umani in genere e della libertà delle minoranze religiose in particolare – e chiamiamo “moderato” chi si conforma a questi criteri, non sono “moderati” né il re dell’Arabia Saudita, né i Fratelli Musulmani, né Bin Laden. Ma, mentre giungiamo a questa doverosa conclusione, ci accorgiamo che la griglia che divide un miliardo e mezzo di musulmani in “moderati” e “terroristi” è clamorosamente inadeguata, perché mette dalla stessa parte tagliagole di professione e nemici giurati di Al Qa’ida come il sovrano saudita Abdullah, nonché filo-americani e anti-americani, una distinzione in Medio Oriente e altrove non proprio irrilevante.

Emerge allora l’opportunità di abbandonare la comoda ma ultimamente ingannevole etichetta “moderati”, che in alcuni paesi a maggioranza islamica del resto molti rifiutano mentre altrove è pressoché ignota, e di seguire piuttosto i criteri più complessi elaborati dagli studiosi accademici. Anche se talora non aiutano i politici adottando una pletora di terminologie diverse, questi dividono il miliardo e mezzo di musulmani in almeno cinque categorie che chi scrive, con altri, preferisce chiamare ultraprogressisti, progressisti, conservatori, fondamentalisti e ultrafondamentalisti.

I progressisti non sono in aumento

 Le parole scelte per designare ciascuna categoria variano, ma la sostanza – pure fra studiosi di tendenze diverse – è spesso simile in modo perfino sorprendente. Se il tema è quello del rapporto con la Modernità – e con la nozione moderna dei diritti umani – i progressisti sono quei musulmani che accettano la Modernità come inevitabile, e gli ultraprogressisti quelli che la abbracciano con entusiasmo, così lentamente corrodendo l’integrità tradizionale della dottrina, pur rimanendo ancora all’interno dell’islam (diversamente, non sarebbero musulmani, neppure ultraprogressisti, ma intellettuali non credenti di origine islamica). Queste posizioni non sono inesistenti né nei paesi islamici né nell’emigrazione: ma sono ultra-minoritarie. Quando si presentano alle elezioni – dove ci sono le elezioni – raramente raggiungono percentuali a due cifre. Non si può neppure affermare con certezza che i progressisti siano in aumento. Li si trova soprattutto fra gl’intellettuali, e radunati in due luoghi: nei paesi islamici, nei cimiteri – perché è facile che i governi o gli ultrafondamentalisti facciano loro la pelle –, e in Occidente nelle università e nelle redazioni dei grandi giornali.

Concorrenti degl’intellettuali di origine islamica non musulmani per la partecipazione ai talk show e ai convegni, anche fra gl’immigrati radunano minoranze inversamente proporzionali all’importanza che danno loro i giornali. Talora cercano di accreditarsi sostenendo che il fatto che la grande maggioranza di musulmani immigrati in Europa – e in Italia – non vada in moschea mostra che c’è una maggioranza silenziosa di musulmani favorevoli alla Modernità e progressisti.

Ma i sociologi li smentiscono: oltre al fatto che, come abbiamo visto, andare in moschea non fa parte a rigore dei doveri del culto islamico, le indagini effettuate tramite questionario mostrano che la maggioranza degl’immigrati non solo segue il digiuno del Ramadan e afferma di pregare, ma ha su tutti i problemi cruciali idee che non sono quelle progressiste.

La buona notizia è che le idee della maggioranza degl’immigrati – e della maggioranza dei musulmani nel mondo – non sono neppure fondamentaliste o ultrafondamentaliste. Si definisce in genere fondamentalista un musulmano che giudica in modo globalmente negativo la Modernità e l’accostamento occidentale ai diritti umani (anche se si serve dei suoi prodotti, dalle armi moderne a Internet: chi diffida anche dei prodotti è chiamato, più che fondamentalista, tradizionalista) e ultrafondamentalista chi non esclude la violenza e il terrorismo dalla gamma di strumenti attraverso cui manifesta tale rifiuto. I fondamentalisti non sono, come spesso si dice, una piccola minoranza. Lo sono i terroristi ultra-fondamentalisti e i loro fiancheggiatori diretti (da 50mila a 100mila musulmani: la maggiore massa d’urto nella storia del terrorismo mondiale ma lo 0,01% dell’islam nel suo complesso), mentre le organizzazioni fondamentaliste possono contare all’incirca su 50 milioni di adepti e simpatizzanti nel mondo (meno del 5% dei musulmani), cui si aggiungono almeno altrettanti “tradizionalisti” che sono vicini ai fondamentalisti per teologia, ma che si occupano più di morale individuale e meno di politica.

La grande maggioranza dei musulmani non è né progressista né fondamentalista. Si situa al centro fra progressisti e fondamentalisti e la parola più adatta per definirla è conservatori: anche se neppure i “conservatori” sono tutti uguali e andrebbero introdotte ulteriori e più complesse distinzioni. I conservatori non sono progressisti: rimangono assai perplessi sulle dichiarazioni occidentali dei diritti umani perché pensano che i diritti dell’uomo mettano in pericolo i diritti sovrani di Dio, non vogliono neanche sentir parlare di accostamento moderno – cioè storico-critico – al Corano (temono che faccia la fine della Bibbia nelle mani dell’esegesi universitaria occidentale degli ultimi due secoli), vogliono che alle donne sia permesso (non imposto, ma caldamente consigliato) di portare ovunque il velo.

Su questioni che stanno a cuore agli europei e agli americani come la libertà religiosa delle minoranze nei paesi islamici, i diritti delle donne, la poligamia, l’esistenza dello Stato di Israele non sono pronti ad abbracciare immediatamente il punto di vista occidentale, ma sono disposti a discuterne, il che li differenzia dai fondamentalisti.

Necessario condannare la violenza

Come molti di loro – alcuni dei quali dirigono movimenti che contano milioni, e anche decine di milioni di membri anche se si tratta di gruppi i cui nomi rimangono sconosciuti in Occidente a differenza di realtà più piccole come i Fratelli Musulmani o Al Qa’ida – hanno scritto al Papa dopo Ratisbona, non sono d’accordo con lui quando afferma che le nozioni di Dio e del rapporto ragione-fede che sono prevalse nell’islam lasciano di per sé una porta aperta alla violenza, ma sono disposti a dialogare sul fatto che la violenza e il terrorismo siano effettivamente una piaga aperta nell’islam contemporaneo, non possano essere liquidati semplicemente come non islamici, e chiamino in causa la responsabilità almeno per omissione (di condanna) di élite islamiche che non hanno approfondito per tempo il problema.

I musulmani conservatori non sono come Ayaan Hirshi Ali. E neppure come Magdi Allam. Né “come noi”, da nessun punto di vista. Non sono “musulmani moderati” come l’immagina Amato. Ma sono la stragrande maggioranza dei musulmani: un miliardo e più di persone verso le quali – come ha mostrato nelle parole e nei fatti il viaggio apostolico di Benedetto XVI in Turchia – la Chiesa cattolica è disponibile ad aprire un dialogo. Precisando, però, che la chiave della porta del dialogo è nelle mani di questi musulmani. Dibattano pure sui loro problemi. Ma il dialogo è possibile solo con chi condanna la violenza e il terrorismo – sì, anche contro Israele – e concede nei Paesi musulmani quei diritti delle minoranze religiose che reclama per sé in Occidente.