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L'Occidente resti fuori dalla Palestina dilaniata

di Massimo Introvigne (il Giornale, 18 dicembre 2006)

Mentre D’Alema - che sembra vivere in politica estera in un mondo tutto suo, più occupato a controllare i senatori a vita senza i quali tornerebbe a casa - annuncia come imminente la prossima formazione di un pacifico governo di unità nazionale fra Hamas e Fatah, in Palestina i due partiti continuano pacificamente a spararsi tra loro. Sul piano militare l’esito della partita non è davvero in dubbio. Quando la milizia più aggressiva di Fatah, Forza 17, ha cercato di assalire il convoglio del primo ministro di Hamas, Haniyeh, dopo che gli israeliani lo avevano fermato al valico di Rafah confiscandogli trentacinque milioni di dollari di aiuti iraniani in contanti - con l’evidente intento di ucciderlo e dare la colpa agli israeliani - una pattuglia di Hamas ha distrutto il commando avversario esattamente in cinque minuti. Domenica i miliziani di Hamas hanno assalito il campo di Forza 17, che si trova a settecento metri dalla residenza del presidente palestinese e capo di Fatah, Abu Mazen, uccidendo uno dei capi della milizia rivale. Tempo di resistenza di Forza 17 all’assalto delle Brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas: venti minuti. Sabato ci sono state manifestazioni parallele dei seguaci di Abu Mazen e di Hamas. Partecipanti alla manifestazione di Fatah: trecento. A quella di Hamas: dodicimila.

Ora, è possibile che Forza 17 - che secondo il principale quotidiano israeliano, Haaretz, riceve sottobanco armi e aiuti dagli Stati Uniti - si riorganizzi e che nel segreto delle urne, in caso di elezioni anticipate, la maggioranza dei palestinesi, che non va in piazza per paura di lasciarci la pelle, voti per Abu Mazen. Ma la cosa è tutt’altro che sicura. Molti palestinesi, infatti, non apprezzano affatto che Fatah, che ha perso le ultime elezioni politiche dove Hamas ha vinto senza brogli, chieda a pochi mesi di distanza di rivotare senza che in Parlamento sia cambiata la maggioranza e sulla base di pressioni che vengono soprattutto da Washington.

Di fronte a quella che è ormai una guerra civile tra palestinesi - solo D’Alema e qualche giornalista ossessionato dai presunti complotti sionisti sostengono che la colpa sia nella sostanza sempre e comunque di Israele - che cosa può fare l’Occidente? La maggioranza democratica del congresso americano, suggestionata dal rapporto Baker-Hamilton, spinge perché s’intervenga, se del caso con aiuti militari, a favore di Abu Mazen. L’Unione europea, dopo avere promesso fermezza, sta pensando di sbloccare gli aiuti al governo di Hamas con l'argomento secondo cui si tratta dell’unico mezzo per evitare sia una guerra civile sia la trasformazione di Hamas in satellite iraniano.

Entrambe le posizioni hanno qualche ragione, ma la scelta più saggia sembra quella israeliana: restare scrupolosamente neutrali. Se Abu Mazen - che non è il favorito - vincesse grazie all’aiuto occidentale, la guerra civile contro di lui continuerebbe all’infinito. Restando fermi, c’è il rischio che vinca Hamas. Ma, si osserva in Israele, fino ad ora Hamas, impegnato nella lotta contro Fatah, ha mantenuto la hudna, la tregua con gli israeliani. Se Hamas fosse battuto da un Abu Mazen finanziato e armato dall’Occidente, ricomincerebbe gli attentati suicidi contro Israele. Quanto all’Iran, si confida nell’Arabia Saudita e nel Qatar, che restano i primi finanziatori di Hamas, per bilanciarne l’influenza sulla formazione ultra-fondamentalista palestinese. Converrebbe anche all’Europa e all’Italia restare saggiamente neutrali.