In attesa del rapporto della commissione americana Baker, che comunque non dispone di bacchette magiche, se si vuole affrontare seriamente il tema della exit strategy dall’Irak, ecco otto punti ampiamente condivisi da esperti di diversa colorazione politica. Il resto è pura demagogia.
1. Smettere di sprecare troppo tempo a discutere se era giusto invadere l’Irak. Continuano ad emergere prove di legami pluridecennali fra Saddam e Al Qaida, ma molto del tempo dedicato a queste discussioni elettorali potrebbe essere meglio speso pensando al futuro e non al passato.
2. Mentre si parla di Irak, non si può lasciare l’Afghanistan ai talebani, che sono assassini sanguinari e irriformabili, ad Al Qaida e ai trafficanti di droga. Non ci sono «soluzioni politiche» per l’Afghanistan e la presenza militare in quel paese non può essere diminuita ma va invece rafforzata.
3. Al Qaida si è insediata anche in Irak, ed è avversata dalla stragrande maggioranza degli iracheni. Va messa in opera subito e senza reticenze (a rischio di colpire qualche civile, come capita in ogni guerra) una dura azione militare tesa a ridurre Al Qaida in Irak ai minimi termini, che sarà applaudita da tutte le fazioni irachene.
4. Decidere se è possibile riparare all’errore iniziale commesso dagli inglesi dopo la Prima guerra mondiale: inventare l’Irak mettendo insieme tre province ottomane che non avevano nulla in comune, abitate rispettivamente da sunniti curdi, sunniti arabi e sciiti. La soluzione «jugoslava» dei tre Stati sarebbe molto ragionevole, ma in pratica è impossibile perché la Turchia e l’Iran minacciano sfracelli se nascesse un Kurdistan indipendente, che attizzerebbe i separatismi curdi nei loro Paesi. Visto che tre Stati non sono possibili, si può considerare una bipartizione fra un Iran curdo-sciita e uno Stato più piccolo sunnita al confine con la Siria. Questa soluzione richiede una collaborazione con la Siria e un assenso implicito dell’Iran.
5. La Siria ha già avuto una finestra di opportunità per trasformarsi da Stato canaglia in Paese in dialogo con l’Occidente quando Asad junior ha preso il posto del padre nel 2000. Dopo iniziali speranze, l’ha persa. Si può offrire una seconda possibilità a Bashar Asad, ma sotto forma di ultimatum e chiedendogli di decidere in tempi brevi. Diversamente, si deve cercare di rovesciare il suo regime.
6. Se trattare con l’Iran significa discutere con i servizi iraniani operazioni contro la fazione di Al Qaida che sfugge al controllo di Bin Laden (il quale con Teheran tratta, eccome) e massacra gli sciiti iracheni, o gli assetti di potere tra sciiti in Irak, queste trattative sottobanco ci sono già, e così è stato ucciso il fanatico anti-sciita al Zarqawi. Una trattativa globale con l’Iran è invece impossibile, a meno che gli ayatollah si liberino di Ahmadinejad, che è un folle islamo-nazista totalmente inaffidabile.
7. Se la soluzione che prevede due Stati, uno sciita e uno sunnita, non è praticabile (se lo è, dipende da Siria e Iran) e l’Irak deve rimanere uno e indivisibile, vanno temporaneamente aumentate le truppe occidentali per sedare i rischi di guerra civile, per poi ridurle progressivamente una volta ottenuti risultati che preludano a un Irak unitario ma federale.
8. Se invece è possibile, dopo avere eliminato militarmente i terroristi, creare uno Stato sunnita iracheno indipendente, dopo la sua nascita si potrà diminuire il numero delle truppe occidentali, la cui prima attività oggi è impedire che sciiti e sunniti si massacrino fra loro.