Molti incauti vaticanisti credevano di sapere già alla vigilia che Benedetto XVI si sarebbe limitato a parlare agli ambasciatori dei Paesi islamici di pace, amicizia e buoni sentimenti. Non è andata così, e il Papa - la metafora non suoni irrispettosa - ha preso tutti in un magnifico contropiede.
Anzitutto, l’evento stesso ha ricordato la strettissima unità nell’islam fra politica e religione. Volendo dialogare con i protestanti, il Papa avrebbe invitato dei vescovi e dei pastori, non gli ambasciatori della Danimarca o della Gran Bretagna. Invece, per parlare con l’islam ha convocato gli ambasciatori dei paesi a maggioranza islamica, ricordando agli ingenui con una pedagogia visiva che le vere guide delle comunità islamiche sono i governanti, non i predicatori o i docenti universitari. È vero, c’erano anche i rappresentanti della Consulta per l’Islam italiano, ma anche la posizione di questi ultimi è politica, perché sono stati scelti dal governo (Berlusconi), non dai musulmani italiani.
Posto che religione e politica sono strettamente unite nell’islam, il Papa si è rivolto a chi ha potere di decidere offrendo un dialogo dichiarato sì indispensabile ma subordinato a due condizioni ben precise. La prima è che ci si opponga a «ogni manifestazione di violenza», senza eccezioni. Il Papa sa bene che tra i suoi interlocutori - stranieri e italiani - c'erano esponenti fondamentalisti e ha in qualche modo fatto sua la strategia di Condi Rice del Global Muslim Outreach, la «Mano tesa globale all’islam». Si dialoga anche con i fondamentalisti non «radicali», cioè non violenti, purché ripudino il terrorismo senza distinguo: il che significa dire no non solo a Bin Laden ma anche ai terroristi che attaccano Israele.
Ma Benedetto XVI ha detto di più, andando in un certo senso oltre Ratisbona. Per molti musulmani c’è una parola tabù che non va mai pronunciata: «reciprocità». Sfruttando a loro vantaggio l’ideologia occidentale del multiculturalismo, affermano che ogni cultura va giudicata secondo le sue tradizioni. È quindi giusto che in Occidente i musulmani possano costituire moschee e cercare nuovi fedeli, in coerenza con i principi occidentali di libertà religiosa, così come è giusto che in Arabia Saudita i cristiani non possano costruire chiese e nella gran parte del mondo islamico non possano fare proselitismo, perché questo comanda la cultura islamica. Il relativismo moderno permette ai musulmani di sostenere che non esistono diritti umani universali che si impongano a tutti a prescindere dai contesti locali. Pertanto è normale che la libertà religiosa protegga i musulmani a Roma ma non i cristiani in Pakistan.
Qui invece è scattato il contropiede del Papa. Rispondendo implicitamente anche a chi lo ha accusato di essere più duro di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha citato il suo predecessore che in un «memorabile» discorso del 1985 a Casablanca aveva ricordato ai musulmani presenti e al re del Marocco che ci sono diritti universali, la libertà di religione non si limita alla libertà di culto ma comprende l’attività missionaria e la conversione, e il dialogo esige «reciprocità in tutti i campi, soprattutto per quanto concerne le libertà fondamentali e più particolarmente la libertà religiosa». La parola che non si voleva fosse pronunciata è risuonata forte e chiara: «reciprocità». I musulmani hanno dovuto incassare: si può attaccare una citazione di Manuele II Paleologo, ma come prendersela con chi cita Giovanni Paolo II, popolarissimo anche in molti paesi islamici?