L’11 settembre 2001 è iniziata la quarta guerra mondiale (la terza è stata quella «fredda» tra mondo libero e comunismo), dichiarata dall’ultra-fondamentalismo islamico all’Occidente. Fino all’11 luglio 2006 la quarta guerra mondiale è stata asimmetrica, combattuta non in campo aperto ma attraverso lo strumento vile e barbaro del terrorismo. L’11 luglio 2006 - mentre Al Qaida metteva a segno a Bombay il secondo più sanguinoso attentato della sua storia - la quarta guerra mondiale è passata dalla fase asimmetrica a una mista. La cupola internazionale che guida il jihad islamico contro l’Occidente - che comprende Al Qaida, la Siria e l’Iran - ha deciso di scatenare una guerra a metà strada fra il terrorismo e la campagna militare tradizionale contro Israele, preludio e modello di campagne simili che potranno essere scatenate in futuro contro gli alleati musulmani dell'Occidente: l’Irak e l'Afghanistan qualora fossero privati del presidio militare europeo e americano, la Giordania, in futuro l'Arabia Saudita e il Marocco.
Né gli Hezbollah libanesi né le milizie palestinesi, ormai divise in micro-bande che si sgozzano tutti i giorni fra loro e che né Abu Mazen né Hamas controllano più, sono protagonisti autonomi dell’attacco a Israele. Le strategie, gli ordini, le armi, il denaro vengono da Teheran e da Damasco, talora da Al Qaida. I cittadini libanesi e molti palestinesi sono vittime innocenti di questa nuova fase della guerra mondiale. Ma non sono vittime di Israele. Sono vittime dell’asse del terrore che unisce Damasco a Teheran e che, dopo l’uscita di scena di chi si opponeva alla collaborazione fra terrorismo sunnita e sciita, al-Zarqawi (che probabilmente la stessa cupola di Al Qaida ha eliminato facendo arrivare le opportune informazioni agli americani), comprende anche Bin Laden e al-Zawahiri. L’Europa e la sinistra italiana non capiscono che parole come «moderazione», «reazione proporzionata», «soluzione diplomatica», road map hanno ormai perso qualunque significato. Si invita Israele a «negoziare». Con chi? L’Autorità Nazionale Palestinese non esiste più. Abu Mazen rischia che gli sia fatta la pelle - da altri palestinesi, non dagli israeliani - se solo mette il naso fuori del suo palazzo. Il governo di Hamas nei Territori rilascia dichiarazioni che sono regolarmente smentite da dirigenti della stessa Hamas che vivono a Damasco e che si ritengono mandatari non degli elettori palestinesi ma del trio Bin Laden-Assad-Ahmadinejad. Il governo libanese, che aveva imbarcato esponenti degli Hezbollah sperando di tenerli buoni, non è affatto in grado di controllare l’organizzazione terroristica sciita, che non risponde a Beirut ma a Teheran.
Come in tutte le guerre mondiali, si vede bene in che direzione va la storia, ma nessuno ha troppa voglia di parlarne. Questa guerra può finire solo con la caduta dei regimi in Siria e in Iran. È assai difficile che a questa soluzione si possa arrivare evitando lo strumento militare, tramite rivolte popolari locali: ma la speranza è l’ultima a morire. Nel frattempo, non si tratta di «evitare» una guerra in Medio Oriente come pensano qualche burocrate europeo e Romano Prodi. La guerra c’è già. Per l’Occidente, la prima battaglia da vincere - al fianco di Israele, ma anche di chi combatte le cellule che preparano attentati in Europa - è l’eliminazione fisica delle milizie terroriste che operano agli ordini diretti della Siria, dell’Iran e di Al Qaida. Ma, vinta questa battaglia, non sarà finita la guerra.