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Referendum e dottrina sociale: “Obbligo del sì per i cattolici”

di Massimo Introvigne (il Giornale, 23 giugno 2006, p.1)

schedaContro il sì al referendum sulla riforma costituzionale si è schierato il solito fronte di cattolici - nostalgici di quel cattocomunismo di cui pure tutti oggi ammettono la crisi culturale e morale, terzomondisti, pacifisti che vanno a brindare con Bertinotti - il cui criterio politico ha almeno il pregio della semplicità: è buono tutto quanto favorisce Prodi, è cattivo tutto quanto va a vantaggio di Berlusconi. Ma anche tra i cattolici non obnubilati dall'antiberlusconismo patologico tira negli ultimi giorni un vento di incertezza: anche fra chi ha sostenuto la Casa delle Libertà il 9 aprile si levano voci che o dubitano dell'utilità del referendum e sono tentate dall'astensione, ovvero temono che la riforma che il referendum confermerebbe possa indebolire la solidarietà delle regioni più ricche verso le più povere.

La questione rimanda al cuore stesso della dottrina sociale della Chiesa, parte integrante della fede cristiana per il magistero - lo ricorda spesso Benedetto XVI - ma optional citato solo quando fa comodo dai «cattolici adulti» alla Prodi, che si rifanno a quella «scuola di Bologna» che della dottrina sociale diffidava sistematicamente. La dottrina sociale riposa su due pilastri. Il primo è il principio di sussidiarietà, per cui lo Stato deve fare solo quanto è indispensabile che faccia, lasciando ai corpi intermedi e ai privati la massima autonomia possibile, secondo la formula «tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario». Il secondo è il principio di solidarietà, secondo cui lo Stato deve farsi carico delle esigenze dei più deboli e dei più poveri. Ma deve farlo nei limiti rigorosi del principio di sussidiarietà. Diversamente, lo Stato fa danni. «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese»: parole che non sono né di Berlusconi né di Bossi, ma di Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus Annus.

Il sistema italiano è caratterizzato da un deficit di sussidiarietà e da un frequente stravolgimento della solidarietà nella forma dello «Stato assistenziale» denunciata da Giovanni Paolo II. Anche il presunto sostegno delle regioni più ricche alle più povere è trasformato dalla logica perversa del sistema assistenziale in sostegno alla crescita di un apparato pubblico abnorme sia centrale sia locale, che non arreca vantaggi reali a nessun italiano - dovunque abiti - ma solo ai burocrati.

La riforma costituzionale del 2005 non è la panacea universale ma almeno va nella direzione giusta e comincia a curare alcune delle più evidenti difformità fra legislazione italiana e insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Lo fa anzitutto introducendo più autonomie locali - dunque più sussidiarietà -, quindi eliminando sprechi e costi inutili, così riducendo il rischio che si spacci l'assistenzialismo per solidarietà secondo quella «logica burocratica» che, come insegnava appunto Giovanni Paolo II, non favorisce i cittadini ma solo gli «apparati». Si tratta di materie su cui la gerarchia lascia ai laici il diritto e il dovere di riflettere in autonomia. Ma il cattolico che riflette basandosi non sulla volontà di puntellare il traballante governo Prodi ma sui principi della dottrina sociale della Chiesa ha ottime ragioni per votare, e per votare sì, senza nessuna esitazione.