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Qualcuno volò sul nido di Kurelek

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 16, 22 aprile 2006)

immagineDavvero l’arte moderna non riesce a diventare universale. Quasi sconosciuto nell’Europa continentale, ma ammirato in tutto il mondo anglosassone, William Kurelek (1927-1977) in Canada è considerato il più grande pittore nella storia del paese, e una sorta di istituzione nazionale. “Pittore del popolo”, soprattutto è amato perché ha dipinto il Canada – il paese delle minoranze per eccellenza – provincia per provincia, e minoranza per minoranza. Partendo sempre da una ricerca meticolosa, da viaggi in tutta la nazione e dallo studio di vecchie fotografie, ha ricostruito in una serie di cicli famosi la vita dei pionieri delle grandi praterie, dei cattolici francofoni, degli ucraini come lui (il quarto gruppo etno-linguistico del Canada), dei polacchi, degli ebrei. Kurelek ha dedicato la vita a polemizzare contro il concetto di arte per l’arte. Per lui l’arte ha due funzioni: una storica, intesa a preservare memorie che la modernità rischia di far sparire; e una pedagogica, destinata a fare riflettere sulle grandi domande dell’uomo e sui mali del nostro tempo. È un tributo alla tolleranza del Canada, un paese ormai ampiamente secolarizzato, che la passione nazionale per Kurelek non sia ostacolata dal fatto che le risposte che egli ha ultimamente fornito a queste domande siano quelle di un cattolico conservatore.

William Kurelek nasce il 3 marzo 1927 in una fattoria presso Whitford, nella provincia dell’Alberta. I genitori, cristiani ortodossi, sono immigrati dall’Ucraina. La vita nella prateria è dura perché la Grande Depressione, una serie di incendi e un’invasione di cavallette mettono a dura prova gli ucraini dell’Alberta e del Manitoba. In qualche modo, i genitori di William pensano che Dio li abbia abbandonati: quando la loro casa brucia in uno dei grandi incendi dell’epoca, dalla nuova abitazione spariscono le icone. Il giovane William cresce così senza un’educazione religiosa; ne farà un rimprovero ai genitori solo molti anni più tardi, ma il conflitto con il padre è comunque durissimo.

Solido agricoltore, questi rimprovera al figlio un disinteresse per le cose pratiche. Anziché eccellere nel lavoro dei campi o nello sport come gli altri giovani ucraini della zona, William è un ragazzo timido che appena può prende carta e matita, e comincia a disegnare. Almeno, è bravo a scuola, e quando la famiglia si trasferisce in un’altra fattoria nel Manitoba, a Stonewall, lo manda a studiare nel capoluogo, Winnipeg, prima al prestigioso Liceo Newton e poi all’Università del Manitoba. Ma lui non accetta l’aiuto dei genitori e preferisce pagarsi gli studi lavorando nelle vacanze come boscaiolo, a dispetto di una gracilità che gli fa evitare il servizio militare e la guerra. La famiglia vorrebbe farne un medico o un avvocato. ma William, dopo essersi laureato nel 1949, non resiste alla sua vocazione artistica e si trasferisce al prestigioso Ontario College of Art.

Il conflitto con la famiglia continua a essere devastante per William. Gli causa problemi psichiatrici, un’incapacità di accostare le donne che supererà solo dopo la conversione (si sposerà nel 1962), e una dipendenza da farmaci originariamente assunti per un problema tiroideo che diventano una sorta di droga.

Abbandona l’Ontario College of Art e, come molti artisti americani, se ne va in Messico dove c’è una fiorente colonia artistico-letteraria anglofona, che però abbonda di omosessuali, le cui avance – respinte – aggraveranno i suoi problemi psichici. Nel 1952 parte per Londra, dove perfeziona la sua tecnica, e crea i primi quadri che saranno più tardi riconosciuti come capolavori. Trova anche il Maudsley Psychiatric Hospital, all’avanguardia per le terapie basate sull’espressione artistica. Qui si lega particolarmente a una terapista, Margaret Smith, che lo incoraggia a esprimere i suoi problemi attraverso quadri come The Maze, che definirà un “museo della disperazione” e che darà il titolo a un film sulla sua vita. La Smith, fervente cattolica, comincia a riavvicinarlo alla fede. Le sue condizioni mentali però preoccupano i medici, che nel 1953 lo trasferiscono al Netherne Hospital, nel Surrey. L’ambiente è meno familiare, e si fa uso anche dell’elettroshock, ma è ancora incoraggiato a dipingere. L’evento decisivo è però un altro: nella notte, a Netherne, si sente visitato da Qualcuno mentre contempla dalla finestra gli orti dell’ospedale. Gradualmente capisce che quel Qualcuno – da cui il titolo della sua autobiografia: Qualcuno con me – è Dio. Altrettanto gradualmente arriverà alla fede cattolica e alla guarigione.

Nel 1957 riceve il battesimo sub condicione, visto che era già stato battezzato nella Chiesa ortodossa ucraina. Si lega a un ambiente di cattolici conservatori, che si raccoglie intorno al professore di teologia don Edward Holloway (1917-1999), fondatore del movimento e della rivista Faith, che da un ruolo critico nei confronti del progressismo cattolico, degli eccessi dell’ecumenismo, e di un evoluzionismo irreligioso è passata a fungere da anello di collegamento fra l’Inghilterra e gli ambienti theo-con americani.

Curiosamente nell’autobiografia parla pochissimo del periodo successivo alla conversione,dove alla crisi succede la felicità: trionfale ritorno in Canada nel 1959 e lunga luna di miele con il pubblico del suo paese come artista nazionale, matrimonio, figli. Nel 1960 comincia il suo progetto più ambizioso: illustrare con una serie di quadri l’intero Vangelo di Matteo. Ne realizzerà 160, oggi esposti alla Niagara Falls Art Gallery, aperta nel 1979 sul versante canadese delle cascate del Niagara e che ospita anche l’archivio personale di Kurelek.

Kurelek dipinge anche quadri di denuncia, talora molto forti. Quando nel 1969 gli studenti canadesi manifestano per il massacro di civili perpetrato nel marzo del 1968 a  My Lay, in Vietnam, da soldati americani e scoperto dalla stampa un anno dopo, Kurelek dipinge una delle sue opere più famose, L’altra My Lay, una fortissima denuncia dell’aborto dove l’Ospedale di Toronto fa da sfondo a secchi pieni di feti abortiti e buttati via, mentre il sangue cola perfino sulla cornice. L’impegno per la vita e contro l’aborto è una costante degli ultimi anni dell’artista, che chiede espressamente a Dio “se gli consente di scegliere come finire”, di morire di cancro per avere il tempo di offrire le sue sofferenze per i peccati contro la vita. Sarà esaudito: il cancro contratto forse per le esalazioni dei colori a spray che utilizzava tanto volentieri se lo porterà via il 3 novembre 1977, dopo atroci sofferenze sopportate nella preghiera.

Un santo, oltre che un grande artista? Qualcuno pensa anche alla beatificazione. Vari “avvocati del Diavolo” obiettano che l’artista non ha mai superato il risentimento verso i genitori, nonostante gesti formali di riconciliazione e di perdono, che ha avuto momenti difficili con la moglie (non ucraina) quando negli ultimi anni ha dedicato molto tempo alla causa dell’indipendenza dell’Ucraina, di cui non ha fatto in tempo a vedere il trionfo; e che un certo eccessivo lato apocalittico lo spingeva a investire in rifugi anti-atomici e a prevedere come certo un olocausto atomico, castigo di Dio per l’olocausto dell’aborto. Kurelek, certo, pensava al comunismo e all’Unione Sovietica che aveva violentato la sua terra d’origine, l’Ucraina. Eppure i suoi quadri di grattacieli e di stazioni che saltano in aria, sorprendendo un mondo inconsapevole dei propri peccati, preannunciano stranamente anche l’11 settembre.