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L'Islam e i laici sconfitti in partenza

di Massimo Introvigne (L'Indipendente, 31 marzo 2006)

Benché il caso del convertito condannato alla pena capitale in Afghanistan sia stato risolto dal governo Karzai in modo pragmatico, la vicenda ripropone il problema della legge islamica, la sharia, nei Paesi musulmani di nuova democrazia. La stessa interminabile discussione in Irak se la sharia debba essere considerata “una” delle fonti o “la” fonte del diritto acquista all'improvviso un nuovo significato.

I sondaggi dimostrano che la stragrande maggioranza dei musulmani sia nei Paesi d'origine, sia - con buona pace di chi fantastica di “Islam laico” - nell'immigrazione considera la sharia l'unica base legittima del diritto. I soli Paesi dove non si tiene conto della sharia sono quelli dove dittature militari hanno imposto il laicismo (e anche qui con difficoltà ed eccezioni).

Dove si vota, vanno al potere partiti decisi a riaffermare il primato della sharia. Così è avvenuto in Irak, in Afghanistan, e in Palestina con Hamas. Ma di quale sharia si tratta? In teoria la legge di Dio è unica, assoluta, rivelata per sempre, e non ha bisogno di interpretazioni. In pratica la sharia non risulta solo dal Corano e dagli hadith (i detti attribuiti al Profeta) ma anche dalle scuole giuridiche che la hanno diversamente interpretata. Oggi per quei musulmani che (come l'attuale partito islamico al potere in Turchia) sono conservatori ma non fondamentalisti la sharia è più un orizzonte ideale che un libro di ricette immutabili dal Medioevo a oggi. La punizione dell'apostasia con la pena di morte risulta da alcuni hadith - mentre dal Corano si potrebbe argomentare che la punizione è rinviata al giudizio di Dio - ed è condivisa da tutte le scuole giuridiche. La pena di morte per l'apostata è esplicitamente prevista dalla legge (anche se non sempre applicata) in Arabia Saudita, Iran, Mauritania e Sudan, ma altrove la legge tace e rimanda alla sharia, con tutte le ambiguità che abbiamo visto. Quasi ovunque - con l'eccezione della Turchia, dove il partito islamico al potere non ha alcuna intenzione di cambiare la legge che afferma il diritto a cambiare religione - l'apostata è condannato comunque alla morte civile: il suo matrimonio è nullo, la sua eredità può essere confiscata, può essere privato della personalità giuridica.

Nei casi migliori, è di fatto costretto all'emigrazione in Occidente. Nei peggiori, se non dallo Stato sarà ucciso dai familiari, che se la caveranno con pene molto lievi giacché molti Paesi islamici conservano una normativa sul “delitto d'onore”, estesa anche a chi uccide un membro della famiglia che ha lasciato l'Islam. Scagliarsi contro la sharia e chiedere ai musulmani di adottare con entusiasmo il diritto occidentale è incompatibile con la democrazia e le elezioni libere, dove i laici che avanzano queste proposte prendono, come Chalabi in Irak, l'uno per cento. La partita si gioca sull'interpretazione della sharia e del suo ruolo. Qui, come mostrano la Turchia, le posizioni dei cosiddetti neo-fondamentalisti in Egitto e in Europa e la stessa scelta pragmatica del governo afghano, il dibattito è aperto ed evoluzioni positive sono possibili.