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Ariel Sharon, soldato biblico

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 2, 14 gennaio 2006)

La parola che ricorre di più in Israele nei giorni del lungo addio di Ariel Sharon è “orfani”. Con Sharon abbandona la scena un padre della patria, ma soprattutto un padre di cui la patria aveva disperatamente bisogno. L’Occidente, sgomento, si ferma rendendo omaggio al guerriero caduto, ma si interroga anche ansiosamente sul futuro.

Sulla base di un libro di enorme successo pubblicato nel 1992 dal medico americano John Gray – Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere –, un esponente di punta del mondo neoconservatore americano, Robert Kagan, non ha resistito nel 2003 alla tentazione di applicare la metafora all’Europa nel suo Paradiso e potere. Per Kagan l’americano medio – che crede ancora che nella politica mondiale non si debba aver paura di usare la forza e il potere – viene da Marte, l’europeo medio (di cui vede un simbolo in Romano Prodi) da Venere. Pratica una politica “femminea”, in quanto considera il potere e la forza sinonimi di violenza, e crede di vivere nel Paradiso kantiano della pace universale. Su Sharon almeno non ci sono dubbi. Il vecchio guerriero veniva da Marte.

Laico, ma meno disinteressato alla religione di tanti suoi predecessori israeliani, il guerriero Ariel leggeva quello che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento e ci trovava non solo la pace ma anche la guerra feroce tra Israele e i suoi vicini. Una guerra fatta di stragi, sangue – tanto sangue, che talora sembra schizzare dalle pagine del Libro addosso al lettore – e buio, che evoca le battaglie di J.R.R. Tolkien più che le guerre al computer postmoderne.

Sharon leggeva la storia dell’antico Israele e ci trovava anche l’intelligence e l’eliminazione mirata dei capi nemici. Se oggi Israele inviasse una bella agente del Mossad prima a sedurre e poi a decapitare nel sonno il capo di un esercito nemico si possono immaginare facilmente gli starnazzi dei politici che vengono da Venere. Tuttavia null’altro ci racconta la storia di Giuditta e Oloferne: anche se il Libro di Giuditta non è considerato canonico dagli ebrei, la relativa storia è notissima.

Lo Sharon soldato – geniale, ma talora accusato di non rispettare gli ordini dei superiori e di perpetrare o almeno lasciar perpetrare stragi – fa la guerra al modo di quell’Antico Testamento dove non c’è la Convenzione di Ginevra: uccide, inganna, distrugge (o almeno lascia distruggere) quanto gli si para davanti. Certo, in questi comportamenti c’è molto d’inaccettabile anche dal semplice punto di vista del diritto naturale. Ma la guerra infinita del Medio Oriente tra musulmani ed ebrei conferma a suo modo l’idea di quei teologi – ripresi da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI – per cui il tempo della storia sacra non coincide con il tempo dell’orologio, e il popolo d’Israele vive in un tempo diverso dal nostro, in cui è ancora in vigore per lui l’Antico Patto, che non è mai stato abrogato da Dio.

Quanto ai musulmani, l’autore cattolico a loro più vicino, Louis Massignon, cercava d’includerli nella storia della salvezza sostenendo che vivevano ancora in un tempo perfino più antico, quello del patto fra Dio e Abramo relativo a Ismaele, il figlio scacciato con la madre schiava Agar, la cui progenie sarebbe appunto il popolo arabo.

La guerra in Palestina è una guerra precristiana. Chi la giudica con un metro europeo rischia di sbagliare le misure, come fece il venditore di noccioline prestato alla presidenza degli Stati Uniti, Jimmy Carter, quando – in un aneddoto, come si dice, se non vero, quantomeno bene inventato – avrebbe invitato in uno dei tanti summit dirigenti arabi e israeliani a “mettersi tutti d’accordo da buoni cristiani”.

Sharon non è stato – evidentemente – cristiano e forse non è stato neppure buono. Tuttavia vanno smentite almeno due leggende: che la sua passeggiata sulla spianata delle Moschee del settembre 2000 abbia generato la seconda Intifada (che in realtà i palestinesi preparavano da tempo), e che siano stati l’Intifada e gli attentati a convincerlo a imporre all’opinione pubblica israeliana il ritiro unilaterale da Gaza (dopo il quale c’erano piani segreti anche per la Cisgiordania e Gerusalemme). Più semplicemente, Sharon è stato convinto dai demografi, i quali gli hanno spiegato che un “Grande Israele” con i Territori nel 2013 avrebbe avuto una maggioranza musulmana, perdendo la sua identità di Stato ebraico: perché c’è una guerra che Israele non può vincere, ed è la “guerra delle culle” contro le madri arabe che a Gaza hanno il tasso di fertilità più alto del mondo.

E tuttavia allo Sharon del dopo-Undici Settembre – come ai re del Vecchio Testamento che amava, un Davide o un Salomone, che pure molto avevano peccato – va riconosciuta anche una genuina capacità di trasformarsi da uomo di guerra in uomo di pace, e di mettere in atto gli unici tentativi seri per porre termine al conflitto senza fine. È quello che non è mai riuscito a Yasser Arafat, nato terrorista e morto dittatore infido e corrotto.

Il futuro, per non regredire

L’addio di Sharon è più pericoloso per Israele e per il mondo di quello di Yitzak Rabin, assassinato nel 1995. Allora il Paese sapeva che c’era un erede laburista già designato, Shimon Peres, e un giovane rivale di destra, Benjamin Netanyahu, che sembrava il leader del futuro. Oggi Peres, che ha lasciato i Laburisti ed è entrato nel nuovo partito di Sharon, Kadima, è già in testa ai primi sondaggi lampo su possibili futuri primi ministri. Ma ha 82 anni. Rispettato all’estero, è sempre stato considerato debole in politica interna, e comunque nei sondaggi non lucra più del venti per cento, contro il quindici del leader del Likud Netanyahu e il dieci dei possibili candidati laburisti Peretz e Barak.

La seconda generazione dei politici israeliani non ha dato straordinaria prova di sé quando le è stata offerta la carica di primo ministro, che Netanyahu e Barak hanno già occupato senza risultati memorabili. Di qui la fiducia che il paese sembra riporre nell’ultra-ottantenne Peres, che sembra peraltro in Kadima apparentemente meno forte del più giovane Ehud Olmert. Ma Olmert forse non potrà governare da solo. I laicisti dello Shinui hanno perso pezzi e sono in crisi profonda, per i Laburisti allearsi con chi li ha lasciati per seguire Sharon sarà difficile né sarà più facile per i partiti religiosi far digerire alla base l’alleanza con ex-laicisti.

Peraltro, solo una coalizione imperniata su Kadima, con Olmert o Peres premier, ha la possibilità di conquistare una maggioranza che continui il piano Sharon per la pace alle elezioni di marzo. L’alternativa ha almeno il pregio di essere nota: un governo con Netanyahu primo ministro formato dal Likud, dai nazionalisti religiosi e dai partiti religiosi ortodossi con il programma esplicito di disfare la tela di Penelope costruita da Sharon e adottare una linea più dura nei confronti dei palestinesi.

Le incertezze della politica israeliana giocano a favore dei falchi, cioè di Hamas, nelle elezioni palestinesi ormai vicine, e anche all’interno di Hamas i “treguisti” che trattavano sottobanco con Sharon (un altro colpo di audacia del vecchio guerriero) si ritrovano indeboliti rispetto ai radicali. Rafforzano anche i folli progetti del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e dei suoi manutengoli in Libano e in Palestina, i quali potrebbero pensare che il momento è opportuno per colpire Israele attraverso una raffica di attentati, che peraltro favorirebbero Netanyahu sulla base di un programma duro senza concessioni, riportando l’orologio politico del Medio Oriente indietro di cinque anni.

Tuttavia i nemici di Israele sbaglierebbero se pensassero che con Sharon sono finite la determinazione e la capacità israeliana di reagire ai momenti difficili attraverso la coesione nazionale e svolte politiche imprevedibili come quelle con cui lo stesso primo ministro ha sorpreso il mondo negli ultimi anni. È quando è ferito che Israele improvvisamente si riprende, come gli arabi dovrebbero avere ormai imparato a loro spese. Nel Medio Oriente la storia si ripete, finché la geografia non cambia.