La Commissione inizia l'esame.
Roberto ZACCARIA (Ulivo), relatore, fa preliminarmente presente di avere predisposto una ampia relazione scritta, che è a disposizione dei componenti la Commissione, sui cui punti essenziali intende soffermarsi in questa sede.
Osserva che la libertà religiosa è una delle libertà alla quale la Costituzione dedica maggiore attenzione. Numerose sono infatti le disposizioni generali e specifiche ad essa dedicate sia sotto il profilo della libertà individuale che sotto quello della libertà collettiva. Il diritto in esame trova garanzia generale, da un lato, nelle disposizioni costituzionali che, garantendo il libero esplicarsi della personalità dei singoli e l'aggregarsi degli individui in formazioni sociali, concorrono a tutelare la realizzazione delle facoltà riconducibili a detto fenomeno; dall'altro, trova un rinforzata tutela nelle norme introdotte nell'ordinamento italiano in esecuzione di convenzioni internazionali.
A tale proposito, ricorda l'articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e l'articolo 5 della Dichiarazione dell'ONU sulla libertà religiosa del 1981.
Nell'ordinamento costituzionale italiano le due fondamentali disposizioni degli articoli 2 e 3 della Costituzione riconoscono, da una parte, i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, «sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e, dall'altra, stabiliscono il principio di eguaglianza che pone il divieto assoluto di discriminazione in base a ragioni
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legate al sesso, alla razza, alla lingua, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e, appunto, alla religione. Una importante integrazione del dettato costituzionale è stata offerta dall'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, di cui alla legge n. 300 del 1970, che vieta qualunque tipo di indagine sulle opinioni religiose dei dipendenti.
L'articolo 21 della Costituzione, altra norma cardine del nostro ordinamento, pietra angolare dello stato democratico, come l'ha definito la Corte costituzionale, afferma il diritto di tutti, a prescindere da ogni riferimento al possesso della cittadinanza, come previsto in altre parti della Costituzione, di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con qualsiasi altro mezzo. Da questo punto di vista, anche gli articoli 17 e 18 della Costituzione, che affermano i diritti di riunione e di associazione, si pongono in via generale anche a tutela del fenomeno religioso. Nella stessa ottica si possono richiamare anche gli articoli 30 e 33 della Costituzione. La libertà religiosa è garantita poi in modo specifico ed esplicito nell'ordinamento italiano dall'articolo 19 della Costituzione, che stabilisce il diritto per tutti di professare liberamente la propria fede religiosa e dall'articolo 20 che vieta l'introduzione di speciali limitazioni legislative o fiscali per le associazioni religiose. L'articolo 19, secondo il professor Barile, rappresenta addirittura una norma «matrice» dello stesso articolo 21 della Costituzione, riconoscendo a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Nella disposizione costituzionale la libertà religiosa è considerata dunque come diritto soggettivo valido nei rapporti interprivati tra i singoli e tra i gruppi sociali, anche stranieri. La libertà religiosa si configura altresì come diritto pubblico soggettivo, in quanto azionabile nei confronti dello Stato, escludendo quindi l'ammissibilità di norme che limitino le facoltà garantite dall'articolo 19, che ammette solo interventi repressivi nei confronti di riti contrari al buon costume. L'articolo 19 della Costituzione garantisce non solo la scelta tra religioni diverse, ma assicura anche il diritto di rifiutare qualsiasi professione di fede, proteggendo la libertà di coscienza e l'ateismo. L'ordinamento italiano, quindi, favorisce la manifestazione positiva della libertà religiose, tutelando anche la posizione di chi non riconosce alcuna confessione religiosa o ne ha una concezione esclusivamente personale, nei cui confronti, in base all'articolo 3, primo comma, della Costituzione, non può derivare al singolo alcun effetto favorevole o sfavorevole. Poiché la libertà religiosa tutela sia l'azione di chi intenda professare una data fede religiosa sia l'omissione di chi non intenda professare alcuna fede, sono da ritenersi in contrasto con l'articolo 19 della Costituzione tutte quelle disposizioni che impongano ai singoli di tenere un comportamento che, in modo diretto o indiretto, importi l'adesione ad una qualunque fede religiosa. Di converso, esistono numerose disposizioni che impongono doveri suscettibili di entrare in conflitto con le proprie convinzioni etiche o religiose.
Per quanto riguarda l'esercizio del culto, l'effettività dei principi esposti è stata condizionata dalle norme del 1929 e 1930, non in linea con i predetti principi. La Corte costituzionale ne ha rimosso le maggiori asperità, ma alcune disposizioni sono rimaste in vigore e dovranno pertanto essere rimosse definitivamente. L'articolo 20 della Costituzione esclude, nei confronti di associazioni ed istituzioni aventi «carattere ecclesiastico» e «fine di religione o di culto», trattamenti speciali restrittivi. La disposizione costituzionale ha inteso individuare, parificandole, due distinte categorie. Mentre la prima locuzione si riferisce esclusivamente agli enti della Chiesa cattolica, la successiva fa riferimento agli enti espressi o creati dalle confessioni acattoliche. Tale distinzione è stata in seguito in larga parte superata, avendo il legislatore, a partire dal 1984, adottato una terminologia uniforme nel definire ecclesiastici anche gli enti delle confessioni diverse dalla cattolica: cita, in
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questo senso, l'articolo 12 della legge n. 449 del 1984, che ha regolato i rapporti tra lo Stato e la Tavola valdese, l'articolo 22 della legge n. 516 del 1988, recante l'intesa con l'Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7o giorno, e l'articolo 13 della legge n. 517 del 1988, recante l'intesa con le assemblee di Dio in Italia. Ritiene in sostanza che l'articolo 20 tuteli sia le associazioni e istituzioni riconosciute sia quelle che non abbiano ancora ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica. La disposizione costituzionale pone inoltre un divieto di introdurre tributi speciali a carico degli enti religiosi; tale divieto sta ad indicare che il carattere religioso o cultuale di associazioni o di istituzioni non può costituire criterio giustificativo di particolari imposizioni.
I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono disciplinati dagli articoli 7 e 8 della Costituzione, relativi ai rapporti tra lo Stato e, rispettivamente, la Chiesa cattolica e le confessioni non cattoliche.
L'articolo 7 della Costituzione disciplina i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica e stabilisce quale sia la reciproca posizione istituzionale dei due soggetti, affermando che «sono ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». In base a tale articolo, i rapporti istituzionali tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono disciplinati dai Patti Lateranensi, stipulati l'11 febbraio 1929 e resi esecutivi con la legge n. 810 del 1929. Intorno all'articolo 7 e al suo valore costituzionale si è sviluppato un dibattito rilevante che si è in parte concluso con le prese di posizione della Corte costituzionale.
I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche, o acattoliche, sono regolati dall'articolo 8 della Costituzione, che sancisce il principio di eguale libertà di tutte le confessioni religiose, sebbene questo debba intendersi come fonte di «uguaglianza nella libertà» e non come uguaglianza nel trattamento giuridico, che nell'applicazione legislativa è stato modulato, ragionevolmente, anche alla luce del numero degli aderenti, delle radici sociali e delle tradizioni storiche di ciascun culto. Viene riconosciuta alle confessioni non cattoliche l'autonomia organizzativa sulla base di propri statuti, a condizione che questi non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano ed è posto il principio secondo il quale i rapporti delle confessioni con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. In sintesi l'articolo 8 della Costituzione afferma tre principi: la eguale libertà, che non significa eguale trattamento, ma impedisce trattamenti diversi che incidano sulla libertà; il principio di autonomia e di indipendenza, in parallelismo con l'articolo 7 della Costituzione e il principio della impossibilità di disporre unilateralmente in materia di confessioni religiose, anche esso in parallelismo con lo stesso articolo 7, come affermato dal professor Finocchiaro.
Si sofferma quindi sulla giurisprudenza della Corte costituzionale, rilevando che essa, sin dai suoi primi anni di attività, ha operato una progressiva rimozione dei vincoli alla libertà di culto provenienti dalla legislazione pre-repubblicana, sia attraverso generali interventi a tutela della libertà di manifestazione del pensiero, sia con specifiche pronunce sulla libertà religiosa.
In generale, le sentenze 1/56, 45/57, 17/58 e 59/58 hanno rimosso tutta una serie di norme presenti nel testo unico di pubblica sicurezza e nelle norme concernenti i culti acattolici che comportavano una significativa compressione della libertà di espressione e della libertà religiosa.
Successivamente, più nello specifico, la sentenza n. 117 del 1979 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 449 del codice di procedura penale, che prevedeva la formula del giuramento per i testimoni, e dell'articolo 251 del codice di procedura civile, che stabiliva la responsabilità delle parti per le proprie affermazioni «davanti a Dio». Con un successivo intervento, la Corte ha enunciato il principio della libertà del singolo nel culto e nell'appartenenza alle comunità religiose. La sentenza n. 239 del 1984 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 4 del regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731, che sembrava rendere obbligatoria l'appartenenza
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degli ebrei alle comunità israelitiche. La sentenza n. 43 del 1988 ha chiarito, con riferimento all'autonomia organizzativa delle confessioni diverse dalla cattolica, che al riconoscimento da parte dell'articolo 8, secondo comma, della Costituzione, della capacità delle confessioni religiose, diverse dalla cattolica, di dotarsi di propri statuti, corrisponde l'abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti. Con questa autonomia istituzionale, che esclude ogni possibilità di ingerenza dello Stato nell'emanazione delle disposizioni statutarie delle confessioni religiose, la Corte ha quindi affermato il principio secondo cui il limite al diritto riconosciuto alle confessioni religiose dall'articolo 8 della Costituzione di darsi propri statuti, purché «non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano» si può intendere riferito «solo ai principi fondamentali dell'ordinamento stesso e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative». Con la sentenza n. 203 del 1989 la Corte ha affermato, a conclusione di un preciso iter logico, che lo Stato italiano può esser qualificato come «laico» ed anzi che la laicità dello Stato deve essere considerato un principio supremo dell'ordinamento giuridico dello Stato. La Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 346 del 2002, ha giudicato costituzionalmente illegittima una disposizione di una legge della regione Lombardia che prevedeva benefici per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, nella parte in cui introduceva come elemento di discriminazione fra le confessioni religiose che aspirano ad usufruire dei benefici, avendone gli altri requisiti, l'esistenza di un'intesa per la regolazione dei rapporti della confessione con lo Stato. La Corte ha affermato che le intese previste dall'articolo 8, terzo comma, della Costituzione, non sono e non possono essere una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso articolo 8 né per usufruire di benefici a loro riservati, quali, nella specie, l'erogazione di contributi; risultano altrimenti violati il divieto di discriminazione, nonché l'eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l'eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario e sulla quale esercita una evidente, ancorché indiretta influenza, la possibilità per le medesime di accedere a benefici economici come quelli previsti dalla legge oggetto del giudizio di costituzionalità.
Ritiene altrettanto significativo quel filone della giurisprudenza costituzionale che ha affrontato il tema della libertà religiosa nel campo della tutela penalistica, partendo dal principio di uguaglianza sancito dal richiamato articolo 3 della Costituzione.
Con riferimento alle intese tra lo Stato e le confessioni non cattoliche, ritiene che le disposizioni in materia concorrono a definire un regime di maggiore indipendenza rispetto a quello valido per le confessioni prive di intesa. In questo senso particolarmente significative sono le disposizioni relative ai ministri del culto. Per le confessioni che hanno stipulato le intese cessano di avere efficacia le norme sui «culti ammessi», che prevedono l'approvazione governativa delle nomine dei ministri; le confessioni nominano pertanto i propri ministri senza condizioni, salvo l'obbligo di registrazione in appositi elenchi. Inoltre, diversa è la procedura relativa al riconoscimento della personalità giuridica degli istituti di culto: per quelli afferenti alle confessioni religiose che per prime hanno stipulato l'intesa, il procedimento ricalca quella per i «culti ammessi», mentre per gli istituti di culto delle Chiese battista e luterana è prevista una procedura semplificata di emanazione con decreto ministeriale e non con decreto del Presidente della Repubblica.
Ricorda quindi che esiste una serie di intese concluse e non ancora ratificate dal Parlamento, come pure una serie di trattative
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con alcune confessioni religiose, che non si sono ancora concluse con il raggiungimento di un'intesa.
Si sofferma quindi sulla procedura per la conclusione delle intese e sulla legge di approvazione delle intese stesse. La procedura per la stipulazione delle intese non è disciplinata in via legislativa, essendosi formata peraltro, a partire dal 1984, una prassi consolidata. Le trattative vengono avviate soltanto con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica nel nostro Paese ai sensi della legge n. 1159 del 1929. Tale riconoscimento presuppone che sia stata già effettuata una verifica della compatibilità dello statuto dell'ente rappresentativo della confessione con l'ordinamento giuridico italiano, così come richiesto dallo stesso articolo 8, comma 2, della Costituzione. Dà quindi conto del dibattito in corso sulla natura delle intese, osservando come la dottrina si divide tra i sostenitori della tesi dell'intesa quale atto esterno, e quindi paragonabile al trattato internazionale che è recepito dall'ordinamento con legge di esecuzione, e quelli che ne sostengono la natura di atto interno. Per quanto riguarda i riflessi sulla procedura parlamentare, si è posto il problema dell'ammissibilità dell'iniziativa parlamentare per i progetti di legge volti a regolare i rapporti con le confessioni religiose. L'articolo 8 della Costituzione pone una riserva di legge in materia, ma non specifica se l'iniziativa legislativa al riguardo sia attribuita in via esclusiva al Governo, in quanto titolare del potere di condurre le trattative e stipulare le intese, e individua nella stipula delle intese un presupposto costituzionalmente necessario per l'inserimento nell'ordinamento di una legge che regoli i rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose. Ciò analogamente a quanto avviene per i disegni di legge di ratifica dei trattati internazionali, in merito ai quali l'avvenuta stipula del trattato costituisce un presupposto necessario dell'iniziativa legislativa. Non risultano comunque, a differenza di quanto avviene per i progetti di legge di ratifica di trattati internazionali, precedenti di proposte di legge di iniziativa parlamentare volte a recepire intese con confessioni religiose. La forma dell'articolato e la procedura di approvazione parlamentare del disegno di legge di approvazione con votazioni articolo per articolo, alla stregua di qualsiasi progetto di legge, pone infine la questione dell'emendabilità o meno del testo. Nel corso dei lavori parlamentari si è affermata una prassi che, pur non escludendo in assoluto la emendabilità, restringe l'ambito di intervento del Parlamento a modifiche di carattere non sostanziale, quali quelle dirette ad integrare o chiarire il disegno di legge o ad emendarne le parti che non rispecchiano fedelmente l'intesa.
Per quanto riguarda i rapporti tra lo Stato e le confessioni non cattoliche prive di intesa, fa presente che gli istituti dei culti non cattolici possono essere eretti in ente morale dallo Stato italiano, che però, attraverso il Ministero dell'interno, esercita penetranti poteri di controllo nei confronti degli enti riconosciuti. In particolare è prevista l'approvazione governativa delle nomine dei ministri di culto, con la precisazione che «nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti compiuti da tali ministri se la loro nomina non abbia ottenuto l'approvazione governativa»; l'autorizzazione dell'ufficiale dello stato civile alla celebrazione del matrimonio con effetti civili davanti ad un ministro di culto non cattolico; la vigilanza sull'attività dell'ente, al fine di accertare che tale attività non sia contraria all'ordinamento giuridico e alle finalità dell'ente medesimo. La vigilanza include la facoltà di ordinare ispezioni e, in caso di gravi irregolarità, di sciogliere l'ente e di nominare un commissario governativo per la gestione temporanea. Il regio decreto n. 289 del 1930, poi, non si è limitato a dettare norme per l'attuazione della legge, ma ha stabilito princìpi nuovi ed in parte più restrittivi. Inoltre, con riferimento al parere del Consiglio di Stato, sottolinea l'importanza di prevederne espressamente la natura, essendo venuto meno il suo carattere di obbligatorietà a seguito dell'approvazione della legge n. 127 del 1997.
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Sui rapporti con la Comunità religiosa islamica, osserva che, dal punto di vista tecnico-giuridico, non sono state avviate fino ad oggi trattative per la conclusione di intese, ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione, con associazioni islamiche. Fin dagli anni '90 in realtà sono state avanzate da parte di alcune comunità islamiche, quali la Comunità religiosa islamica, l'Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia, l'Associazione musulmani italiani e il Centro islamico culturale d'Italia, istanze per arrivare a stipulare intese con lo Stato italiano, basate su proposte unilaterali, dal momento che le predette organizzazioni non avevano raggiunto un accordo preventivo tra loro. Nel 2000, per superare tale situazione, le organizzazioni citate sono pervenute alla costituzione dell'associazione del Consiglio islamico d'Italia, quale organismo di rappresentanza dell'Islam, sull'esempio di quanto già verificatosi in Spagna, ove nel 1992 la locale comunità islamica ha siglato con lo Stato l'accordo di cooperazione concernente la regolamentazione di alcune tematiche di rilievo, quali il matrimonio, l'assistenza religiosa nei centri pubblici, l'insegnamento della religione islamica, le festività religiose ed altro. Dissidi interni sopravvenuti hanno, tuttavia, impedito che in Spagna tali disposizioni avessero effettiva applicazione. Analogamente in Italia, il Consiglio islamico, costituito nel 2000, non è mai divenuto operativo e le difficoltà di raggiungere un'unitarietà dei richiedenti che fosse rappresentativa dell'universo islamico in Italia ha determinato l'impossibilità di stipulare un'intesa con lo Stato, mancando l'interlocutore riconosciuto. Le richieste di intesa con lo Stato italiano non sono state prese in esame dalla Presidenza del Consiglio dal momento che nessuna delle associazioni è dotata del riconoscimento giuridico come ente di culto, indispensabile per avviare i negoziati da parte della Commissione per le intese con le confessioni religiose.
Ricorda quindi che nella scorsa legislatura la Camera ha discusso un disegno di legge, di iniziativa governativa, recante norme in materia di libertà, non pervenuto tuttavia ad approvazione definitiva.
Si sofferma poi sul contenuto delle proposte di legge in esame, osservando che i due progetti di legge, presentati dai deputati Boato e Spini, pressoché identici, riproducono il testo del disegno di legge del Governo C. 3947, esaminato nella XIII legislatura dalla Commissione affari costituzionali della Camera, la quale giunse nel febbraio 2001 all'approvazione di un testo per il quale conferì mandato al relatore Maselli di riferire all'Assemblea. I progetti di legge in esame si articolano in quattro capi: il capo I detta norme in materia di libertà di coscienza e di religione; il capo II è dedicato alla disciplina delle confessioni e associazioni religiose; il capo III regola la stipulazione di intese, ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione; il capo IV reca disposizioni finali e transitorie.
L'articolo 1 enuncia espressamente la garanzia, riconosciuta a tutti, del diritto fondamentale, proprio della persona, della libertà di coscienza e di religione, sulla base delle disposizioni costituzionali, delle convenzioni internazionali sui diritti inviolabili dell'uomo e dei princìpi del diritto internazionale in materia. L'articolo 2 garantisce invece le manifestazioni proprie di tale libertà, enumerando i diritti ivi ricompresi. In particolare, l'ultimo periodo dell'articolo 2 precisa che non possono essere disposte limitazioni alla libertà di coscienza e di religione diverse da quelle previste dai citati articoli 19 e 20 della Costituzione.
Si sofferma quindi sui temi di maggiore interesse trattati dalle proposte in titolo, a partire dal divieto di discriminazione e dall'educazione religiosa nella famiglia. Con riferimento a quest'ultimo tema, fa presente che l'articolo 4, al comma 1, prevede il diritto di istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio, in coerenza con la propria fede religiosa o credenza, nel rispetto della loro personalità e senza pregiudizio della salute dei medesimi. I genitori hanno quindi il potere di educare i figli in modo religioso o non religioso, fermo restando che tale educazione non può che rappresentare un
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avviamento, non essendo possibile alcuna coercizione e dovendosi ammettere che il figlio, anche prima della maggiore età, abbia il diritto di scegliere la sua vita religiosa, criterio che trova conferma nella formula del codice civile, che impone ai genitori il rispetto delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli. Il comma 2 della disposizione in esame riconosce infatti al minore al di sopra dei quattordici anni la possibilità di compiere autonomamente le scelte pertinenti all'esercizio del diritto di libertà religiosa.
Per quanto concerne poi l'obiezione di coscienza, osserva che l'articolo 7 stabilisce, al comma 1, che i cittadini hanno diritto di agire secondo i dettami imprescindibili della propria coscienza, nel rispetto dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione, mentre il comma 2 demanda alla legge la disciplina delle modalità per l'esercizio dell'obiezione di coscienza nei vari settori.
In ordine poi all'esercizio della libertà religiosa e pratiche di culto, l'articolo 8, al comma 1, afferma il principio secondo cui l'appartenenza alle Forze armate, alle Forze di polizia o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura e di assistenza o la permanenza in istituti di prevenzione e pena non impedisce l'esercizio della libertà religiosa e delle pratiche di culto, né l'adempimento delle prescrizioni religiose in materia alimentare o relative all'astensione dalle attività in determinati giorni o periodi previsti come festività.
L'articolo 9 opera un generale rinvio alla legislazione vigente con riguardo a vari aspetti della tutela della libertà religiosa nel lavoro domestico e nei luoghi di lavoro, mentre l'articolo 10 è volto principalmente ad attuare il principio della libertà di organizzazione confessionale, sancendo la libertà per i ministri di culto di svolgere il loro ministero spirituale. L'articolo 11 quindi disciplina la celebrazione del matrimonio davanti ad un ministro di culto di una confessione religiosa avente personalità giuridica ai sensi della normativa proposta ed il successivo articolo 12 reca norme in materia di attività scolastiche.
Si sofferma, infine, sulle questioni in materia di libertà delle confessioni e associazioni religiose. In particolare, l'articolo 15 enuncia i diritti che competono a tutte le confessioni religiose in attuazione dell'articolo 8, primo comma, della Costituzione, che riconosce eguale libertà a tutte le confessioni senza richiedere per ciascuna di esse alcun requisito formale o sostanziale. Tra i diritti riconosciuti, evidenzia quelli di celebrare i propri riti, purchè non contrari al buon costume, di aprire edifici di culto, di diffondere la propria fede o credenza, di nominare i propri ministri, di emanare atti in materia spirituale, di assistere i propri fedeli, di corrispondere liberamente con proprie organizzazioni o con altre confessioni, di promuovere la valorizzazione delle proprie espressioni culturali. I successivi articoli da 16 a 20 disciplinano l'iter procedurale finalizzato al riconoscimento civile della personalità giuridica delle confessioni religiose: ai sensi di tale disciplina normativa, le confessioni «prive di intesa» possono dunque richiedere, direttamente o per il tramite di un proprio ente esponenziale, il riconoscimento della personalità giuridica. Quanto ai modi di acquisto della personalità giuridica, osserva preliminarmente che la normativa proposta si richiama alla procedura in passato adottata per il riconoscimento di tutti i nuovi enti, cattolici e non cattolici, a carattere unitario e su base nazionale, ossia mediante decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato e su proposta e previa istruttoria del Ministro dell'interno. Da ultimo, fa presente che l'articolo 24 dispone direttamente l'equiparazione, sotto il profilo tributario, delle confessioni religiose aventi personalità giuridica, o dei loro enti esponenziali, aventi fine di religione, credenza o culto, nonchè delle attività dirette a tali scopi, agli enti ed alle attività aventi finalità di beneficenza o di istruzione. Quanto alle altre attività svolte, diverse da quelle di religione, credenza o culto, resta valido
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il regime vigente, ivi compreso quello tributario. Conclude ribadendo la rilevanza degli argomenti trattati dalle proposte di legge in titolo, auspicando un proficuo confronto sulle stesse.
Luciano VIOLANTE, presidente, ringrazia il relatore per la esauriente relazione svolta, che presenta spunti di estremo interesse e che rappresenta un efficace punto di partenza per l'esame dei provvedimenti in oggetto. Ricorda quindi che una più ampia relazione scritta, appositamente predisposta dal relatore, è a disposizione dei deputati.
Marco BOATO (Verdi), rivolto al rappresentante del Governo, evidenzia l'opportunità della presentazione di un disegno di legge governativo sulla materia in oggetto, come avvenne nel corso della XIII e della XIV legislatura.
Jole SANTELLI (FI) fa presente l'opportunità di esaminare le questioni recate dalla proposte di legge in oggetto sotto un profilo di comparazione con le discipline vigenti in altri ordinamenti.
Luciano VIOLANTE, presidente, ricorda che nella scorsa legislatura il Governo presentò due disegni di legge recanti la modifica di intese previamente raggiunte con l'Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7o giorno (C. 5085) e con la Tavola Valdese (C. 5983), il cui iter tuttavia non si concluse. Rileva pertanto l'opportunità di iniziative legislative in materia, anche di natura parlamentare, al fine di consentire il loro tempestivo esame. Nessun altro chiedendo di intervenire, rinvia il seguito dell'esame ad altra seduta.