La libertà religiosa è una pietra miliare dell’ordinamento giuridico statunitense, ma qual è il suo limite? Alcuni movimenti religiosi di origine afro-brasiliana, come le Chiese del Santo Daime, pongono oggi un problema reale. Il Santo Daime nasce dall’esperienza di Raimundo Irineu Sierra, detto “Mestre Irineu”, scomparso nel 1971. Impiega ritualmente sostanze psicotrope da quando, negli anni venti del Novecento, Mestre Irineu mutuò da alcune popolazioni amazzoniche l’uso dell’“ayahuasca”, una bevanda tratta da un arbusto (“bannisteriopsis caapi”) e da alcune foglie silvane (“psychotria viridis”) a contenuto variabile di alcaloidi, stupefacenti. Mestre Irineu usava l’“ayahuasca” per ottenere visioni, ma la sua fama di guaritore ha fatto sì che dagli anni Trenta la sua Chiesa (prima nota come Alto Santo, poi come Centro de Illuminãção Cristã Luz Universal) abbia conosciuto grande diffusione. Dato che in alcuni degli inni popolari da lui ricevuti spiritualmente con l’“ayahuasca” ricorre spesso la parola “daime” (“dammi”), il nome della bevanda, e della religione, si è mutato in “Santo Daime”. Ora, il Santo Daime insiste nel dire che l’uso dell’“ayahuasca” ha senso solo entro un rituale preciso, collegato a una visione del mondo che affonda le radici sia nella saggezza degl’indios amazzonici sia nel cristianesimo. La preparazione stessa della bevanda è rituale. La questione è però divenuta spinosa sia in Brasile (dove ha trovato una soluzione giuridica specifica) sia in Europa (dove i problemi sono invece molto maggiori). Ma i daimisti ribadiscono la fondamentale differenza tra sostanze allucinogene e “entogene”, richiamando la vasta letteratura scientifica in materia. Il piano si sposta dalla chimica alla teologia. Una sostanza è “entogena” appunto in un determinato contesto storico, sociologico e rituale.
In Brasile, per esempio, l’“ayahuasca” è consentito solo al Santo Daime e alle realtà religiose affini. Negli Stati Uniti ha invece aperto uno scontro fra la lotta alle droghe e la tutela della libertà religiosa. Mentre in 28 Stati dell’Unione esistono leggi a tutela dell’uso rituale del peyote (una droga) da parte delle popolazioni indiane, la decisione della Corte Suprema nel caso “Employment Division v. Smith” del 1990 ha giudicato lecito il licenziamento dei funzionari pubblici che partecipino a riti della Native American Church con consumo di peyote. La ratio ha invocato la turbativa all’ordine pubblico come limite alla libertà religiosa, ma la sentenza è stata attaccata da tutti, Chiesa cattolica compresa. Anzi, su pressione di alcuni vescovi nordamericani, vi è finito anche un accenno (senza però citare il “caso Smith” e le droghe) nel “Catechismo” del 1997, che al n. 2109 dice: “Il diritto alla libertà religiosa non può essere […] limitato semplicemente da un ‘ordine pubblico’ concepito secondo un criterio positivista o naturalista”.
Il Congresso Usa ha risposto al “caso Smith” cercando di varare, nel 1993, il “Religious Freedom Restoration Act” (chi ritiene che il proprio diritto alla libertà religiosa sia stato violato può impugnare tale violazione in tribunale e ottenere adeguata riparazione dal governo), ma la Corte Suprema lo ha dichiarato incostituzionale. Eppure, contro il criterio del “public order”, la giurisprudenza statunitense ha lentamente elaborato, dal dopoguerra sino agli anni Settanta, il concetto di “compelling interest”. Il governo può cioè limitare l’esercizio della libertà religiosa soltanto quando esiste un “interesse imperativo” a farlo e quando non lo si può soddisfare attraverso alternative ragionevoli.
Attualmente l’Amministrazione Bush ritiene “compelling interest” il fatto che i giovani non si droghino e quindi è favorevole a un intervento limitativo della libertà religiosa verso realtà organizzate come per esempio il Santo Daime. Ma stabilire se sia “compelling interest” che non si assumano allucinogeni in modo rigorosamente limitato all’interno di riti indio-brasiliani o brasiliani di cui quelle sostanze sono da sempre parte integrante è molto più problematico. In ogni caso, resta fondamentale che, se decide di vietare tali riti, la legislazione statunitense lo faccia escusivamente in base alla dottrina del “compelling interest” e non accampando l’idea del “public order”, che da sempre è lo strumento privilegiato di leggi illiberali.