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Tra massoneria e New Age: Zorro in versione politicamente corretta

di Massimo Introvigne

zorro allende
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Se la zorrologia, intesa come disciplina che studia seriamente Zorro, esiste – e dovrebbe esistere, considerando le centinaia di saggi dedicati al personaggio creato nel 1919 da Johnston McCulley (1883-1958) – si tratta di una scienza che si fonda su due teoremi. Primo: lo Zorro di Johnston McCulley non è quello della popolarissima serie televisiva della Walt Disney, interpretata per anni dall’immortale Guy Williams (1924-1989), il cui fascino latino tra l’altro – come non tutti sanno – non aveva in realtà origini messicane o californiane, ma italiane. Guy Williams era infatti lo pseudonimo di un attore italo-americano di seconda generazione, Armando Catalano. Lo Zorro di McCulley era un duro in un mondo spietato, certamente non pensato per i bambini, dove violenza (compresa la violenza sulle donne) e morti ammazzati erano all’ordine del giorno. Lo Zorro di Walt Disney doveva fare i conti con le regole della censura dei telefilm del pomeriggio destinati in America (e in Italia) ai più giovani: dunque la violenza era ridotta, in gran parte metaforica, e ogni accenno al sesso vietato. C’è tuttavia un secondo teorema: Johnston McCulley ha collaborato con la Walt Disney e ha espresso in numerose sedi, in modo non equivoco, il suo apprezzamento per il personaggio incarnato da Guy Williams. Si tratta di uno sdoppiamento di personalità non infrequente nella popular culture. C’è un Batman dei film e dei fumetti per un pubblico adulto e c’è il Batman dei cartoni animati. Anche la cacciatrice di vampiri Buffy, specie nelle ultime stagioni dei telefilm, non era particolarmente consigliabile ai bambini, ma una versione per i più piccoli sotto forma di cartoni animati è in preparazione. E tuttavia fra le due incarnazioni in questi casi c’è continuità. La stessa cosa vale per Zorro: quello della Walt Disney non dice tutto del personaggio del pulp immaginato da McCulley, ma quanto ne dice è coerente con l’idea dell’autore.

Nel 1999 – mi si scuserà il riferimento autobiografico – mi permisi di aggiungere alla zorrologia un terzo teorema, in un articolo di quotidiano che continuo a trovare citato un numero sorprendente di volte, talora in chiave polemica: Zorro non fa politica. A tutto concedere, fa della morale, ma piuttosto generica: i buoni vincono e i cattivi perdono, le ingiustizie sono punite e i torti vendicati. Nel che si può anche vedere un ideale tipicamente americano, ma senza insistere troppo: tutti gli eroi della cultura popolare – almeno fino alla confusione dei valori postmoderna – sono buoni che puniscono i cattivi, e non solo negli Stati Uniti.

Il mio articolo del 1999 prendeva una posizione critica contro il pur apprezzabile e monumentale tour de force allora appena pubblicato da un professore italiano, Fabio Troncarelli, La spada e la croce. Guillén Lombardo e l'Inquisizione in Messico (Salerno, Roma). Con grande acribia e perfetta padronanza delle fonti, Troncarelli ricostruiva la storia di William Lamport (1615-1659), gentiluomo irlandese che aveva coltivato nel Messico del diciassettesimo secolo (dove era noto con il nome ispanizzato di Guillén Lombardo) il sogno di sollevare le masse indigene contro gli spagnoli, prima di finire in carcere nel 1642 e di morire tragicamente sul rogo nel 1659. Troncarelli non solo sosteneva che Lamport/Lombardo era servito a McCulley da modello per Zorro, ma che il massone McCulley aveva utilizzato questo modello per creare un eroe amico degli indigeni e nemico del trono e dell’altare in perfetta consonanza con gli ideali massonici. Apparentemente, si sarebbe potuto aggiungere Walt Disney (1901-1966), massone anche lui.

Tuttavia, la tesi di Troncarelli trovava due pietre d’inciampo. La prima è che la massoneria californiana di McCulley e di Walt Disney – un’organizzazione di massa che all’epoca aveva centinaia di migliaia di membri – a differenza di quella continentale europea, con cui non va confusa, non si è mai troppo occupata di politica, diritti degli indiani o anticlericalismo. La seconda è che purtroppo gli zorrologi esistono per davvero, e molti hanno conosciuto McCulley, che era ancora vivo nel 1958. Assicurano che l’autore di Zorro non sapeva neppure chi fosse William Lamport. Peggio, benché Troncarelli conoscesse il problema e cercasse di negare ogni derivazione. McCulley ha sempre ammesso di essersi ispirato alla Primula Rossa creata nel 1905 dalla baronessa Emma Magdalena Orczy (1865-1947), una reazionaria della più bell’acqua il cui eroe lotta contro la Rivoluzione francese e il Terrore.

La lezione degli zorrologi va in gran parte perduta nel nuovo Zorro di Isabel Allende (Zorro. L’inizio della leggenda, trad. it., Feltrinelli, Milano 2005), attesissimo non solo per la popolarità dell’autrice ma perché è stato autorizzato dagli eredi di McCulley che hanno collaborato con la scrittrice di origine peruviana (ma vissuta a lungo in Cile e poi negli Stati Uniti). Va riconosciuto alla Allende non solo che sa scrivere bene, ma che si è sforzata – con l’aiuto della Zorro Productions, la fondazione creata per preservare e gestire i diritti d’autore sul personaggio – di creare una storia nuova ma non contraddittoria rispetto alla mitologia dell’eroe. Anzi, la Allende non solo deve aver letto McCulley ma deve anche essersi rivista almeno la prima parte della prima serie dello Zorro disneyano (del resto da poco disponibile in DVD più o meno in tutte le lingue), di cui il romanzo rappresenta un ideale antefatto. Vuole svelare, infatti, come Zorro è diventato Zorro: ma anche come il suo fedele servitore Bernardo è diventato muto, il comandante del presidio di Los Angeles, Moncada, è diventato un farabutto, padre Mendoza un missionario esemplare, e il sergente Garcia il soldato ciccione un po’ comico ma non cattivo che tutti conosciamo.

La risposta è che tutto è cominciato a scuola e continuato in Spagna. A scuola in California Garcia era già preso in giro dai compagni e vittima di scherzi crudeli per la sua mole, ma era protetto dal giovane Diego de la Vega (il futuro Zorro) e dal suo fratello di latte Bernardo, figlio di servitori ma inseparabilmente legato al rampollo del grande possidente don Alejandro de la Vega. Dopo un assalto di pirati che violentano e uccidono la madre di Bernardo davanti al figlio, che per lo shock diventa muto, Diego e Bernardo vanno a studiare in Spagna, a Barcellona, ospiti di un vecchio amico del padre, il nobiluomo Tomás de Romeu. Questi ha due figlie, la bellissima Juliana e la non bella (anzi, leggermente strabica) ma intelligente e coraggiosissima Isabel, che è poi la narratrice del romanzo. Juliana è corteggiata sia da Bernardo sia dall’arrogante e losco nobiluomo spagnolo Moncada, nel periodo che va dall’occupazione francese alla restaurazione monarchica. In seguito a complesse vicende, dopo che Bernardo è già rientrato in California, anche Diego e le due ragazze de Romeu lasciano Barcellona alla volta delle Americhe, inseguiti da Moncada che medita vendetta. Juliana tuttavia non ama Diego (è semmai Isabel ad esserne innamorata in segreto). Quando la loro nave è catturata dai pirati di Jean Lafitte, Juliana si innamora del corsaro e lo sposa, ottenendo la libertà per Diego e Isabel, che arrivano in California.

Qui scoprono che il perfido Moncada è diventato il comandante del presidio di Los Angeles – affidato all’inetto Garcia, diventato militare e sergente – dove ha instaurato un regno del terrore, incarcerando il vecchio don Alejandro per sottrargli i beni e perseguitando gli indiani, protetti a fatica dal vecchio maestro di Diego, padre Mendoza. Così Diego, che era già diventato Zorro in Spagna per proteggere Juliana e vendicare i torti inflitti ai deboli e agli onesti da Moncada, mentre si finge un imbelle damerino, riprende i panni del giustiziere mascherato, coadiuvato da Bernardo e Isabel (nonché dallo straordinario cavallo Tornado) e finisce per liberare il padre e costringere Moncada ad abbandonare la California. Qui però – non senza accenni a due matrimoni e relative vedovanze di Diego, che finiranno forse per lasciare finalmente il cuore del giustiziere a Isabel – si chiude il libro e cominciano le vicende di Zorro già note a milioni di lettori e di telespettatori.

Su questo canovaccio – che di per sé non si presterebbe a obiezioni – la Allende inserisce però un numero veramente eccessivo di riferimenti politicamente corretti. Anzitutto sia Zorro sia Bernardo hanno sangue indiano: sfidando le convenzioni (e i suoi stessi pregiudizi) don Alejandro ha sposato una fiera vergine guerriera indiana, Toypurnia, che è dunque la mamma di Diego. E Zorro ha perfino una nonna indiana, dai toni vagamente New Age, che cura tutte le malattie con le erbe, lo inizia alla spiritualità native American, e crea un contatto telepatico permanente fra Diego e Bernardo. In Spagna Tomás de Romeu è un intellettuale giacobino ed entusiasta della Rivoluzione francese, perseguitato dall’Inquisizione e finalmente giustiziato dalla monarchia restaurata dopo Napoleone.

L’Inquisizione è descritta con toni da romanzo anticlericale dell’Ottocento, e contro la terribile istituzione cattolica lotta da secoli La Justicia, una società segreta vagamente simil-massonica in cui è iniziato il giovane Diego, che qui comincia a diventare Zorro. È vero che la Allende conosce la derivazione dello Zorro di McCulley dalla Primula Rossa, e quindi La Justicia lotta anche contro i francesi che occupano la Spagna: ma perché sono guidati da ladri, non per avversione alle idee rivoluzionarie. Tra parentesi, la conoscenza del feuilleton europeo della Allende è nota ed enciclopedica, e anche La Justicia non è nuova. Agli italiani che non conoscessero la storia della loro letteratura popolare facciamo notare l’ovvio, cioè che assomiglia come una goccia d’acqua – Inquisizione e anticlericalismo compresi – ai Beati Paoli, la società segreta siciliana forse realmente esistita ma completamente trasformata nel romanzo I Beati Paoli (1909-1910) di Luigi Natoli (1857-1941), il più importante feuilleton italiano tradotto all’epoca in numerose lingue. Finalmente, Juliana e Diego lottano contro la schiavitù a New Orleans, e alla fine del romanzo padre Mendoza è pronto a chiedersi – neppure avesse letto Leonardo Boff o qualche altro teologo della liberazione del Novecento – se forse i missionari non hanno sbagliato tutto e non hanno imposto una discutibile religione fondata sul timore del peccato e dell’Inferno agli indiani che ne avevano una più naturale e migliore.

Qui il gioco si fa scontato, ma nello stesso tempo non funziona più. McCulley e anche gli autori della Walt Disney sapevano almeno sfuggire agli anacronismi, e non si sognavano neppure di attribuire ai loro eroi pensierini del tutto inadeguati ai tempi. Detto con chiarezza, Zorro – in versione McCulley o Disney – è chiaramente cattolico, e un padre Mendoza con dubbi di fede è ridicolo per ogni zorrofilo. Un uso più moderato di salsa buonista e New Age avrebbe reso più credibile un romanzo ben scritto e divertente, ma che lascia i veri cultori di Zorro perplessi. A chi invece conosce poco Zorro non resta che augurare che il contatto con la versione postmoderna della Allende sia occasione per riscoprire il giustiziere nella versione originale.