CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Il mistero della corda indiana

Massimo Introvigne

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Chiunque si interessi della cosiddetta “India misteriosa” ha sentito parlare del mistero della corda indiana. Un fachiro fa salire, suonando come un incantatore di serpenti o semplicemente lanciandola, una corda verso il cielo. Anziché cadere a terra, la corda rimane tesa in posizione verticale. Un ragazzo ci sale sopra e scompare. Secondo un’altra versione – un po’ più macabra – dall’alto cadono i pezzi sanguinolenti del ragazzo. Quando gli spettatori inorriditi lo pensano morto, il ragazzo riappare sano e salvo. Applausi.

Per i prestigiatori si tratta del più grande trucco di tutti i tempi, e di un trucco mai completamente svelato, così che qualcuno si chiede se non ci sia davvero qualche cosa di soprannaturale. In The Rise of the Indian Rope Trick. How a Spectacular Hoax Became History (Abacus, Londra 2004; trad. it. La leggenda della corda e del bambino che scompare, Neri Pozza, Vicenza 2004), Peter Lamont – ricercatore presso l’Università di Edimburgo, specializzato nella storia dell’illusionismo – si chiede, al contrario, se esista per davvero un mistero della corda indiana. Quando i prestigiatori europei, dopo averne sentito molto parlare, vanno a cercare di farsi spiegare come funziona dai loro rinomati colleghi indiani, scoprono con sorpresa che – nei suoi termini classici – si tratta di qualche cosa di ignoto ai giocolieri e agli illusionisti dell’India. Oggi ogni tanto qualche mago da spettacolo indiano tenta qualche cosa di simile: ma perché ne ha sentito parlare da occidentali.

O, almeno, così pensa Peter Lamont, piuttosto sicuro di avere identificato l’origine della storia in un articolo pubblicato sulla Chicago Daily Tribune nel 1890 da qualcuno che si firmava “Fred S. Ellmore”. Lo pseudonimo si inseriva nella brutale “guerra dei quotidiani” per il record di vendite a Chicago, con un trasparente riferimento a “vendere più (sell more) copie”, e nascondeva John Elbert Wilkie (1860-1934), che sarebbe diventato più tardi il primo responsabile del Servizio Segreto degli Stati Uniti. “Ellmore” spiegava che si trattava semplicemente di ipnotismo di massa: era sufficiente scattare una fotografia per chiarire che gli spettatori credevano di vedere cose che in realtà si verificano soltanto nella loro mente ipnotizzata dal fachiro illusionista (e che non ingannavano la lastra fotografica). Dopo poche settimane, “Ellmore” confessava di non essere mai stato in India e di essersi inventato l’intero articolo. Ma la sua spiegazione dell’ipnosi di massa – per quanto considerata impossibile dagli specialisti accademici di ipnotismo – circola ancora oggi.

C’era veramente qualche cosa da spiegare? A posteriori, chi ha scritto di magia nel XX secolo ha dato per scontato che il mistero della corda indiana fosse ampiamente dibattuto fra illusionisti e appassionati di induismo ben prima dell’articolo della Chicago Daily Tribune. E, a rigore, si trovano precedenti simili ma non identici in racconti di viaggiatori a partire dal Medioevo, e in Iside Svelata (1877) di Madame Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), la fondatrice della Società Teosofica. Ma – o, ancora, così argomenta Lamont – non si trattava di testi conosciuti dal grande pubblico, ed è l’articolo di Wilkie del 1890 che insieme inventa un problema e ne fornisce la soluzione.

Con il tempo, Wilkie – che si dedica, come si è accennato, a tutt’altre attività – è dimenticato, e molti provano a realizzare il trucco della corda. Le poche documentazioni fotografiche si riferiscono a imitatori occidentali di scarso talento. Resta il fatto che tra la fine del XIX secolo e la fine del XX una quarantina di persone – alcune delle quali ben note (in campi diversi dalla magia) e del tutto rispettabili – affermano di avere visto il “trucco della corda indiana” in India. Lamont sostiene che la ricchezza di particolari cresce a mano a mano che per la persona che ricorda vecchie esperienze di viaggio passano gli anni: del tutto naturalmente, e senza che sia necessario immaginare inganni, si tende a infiorare e abbellire i propri ricordi.

I resoconti riportati pochi anni dopo i fatti si riferiscono a qualche cosa di non inedito tra i giocolieri indiani: la capacità di ragazzi di poco peso di salire su pali (non corde) di bambù estremamente lunghi e sottili, eventualmente tenuti in equilibrio sul petto del “fachiro”. Si aggiunge talora la “sparizione” del ragazzo, spiegabile con giochi di specchi o di destrezza ma che richiede comunque la presenza di alberi o caseggiati nelle vicinanze. Il bambù può essere rivestito in modo da sembrare una corda, e lo stesso Lamont ha visto in India una “corda” salire in aria e rimanervi, e un ragazzo arrampicarcisi sopra (ma non sparire).

Quanto alla caduta di membra sanguinanti e alla ricomparsa del ragazzo, non ci sono resoconti attendibili che ricolleghino trucchi di questo genere al “mistero della corda”. Ma è possibile che nella memoria di qualche viaggiatore entri il ricordo del “trucco del cestino”, in effetti di origine indiana almeno ottocentesca e ben noto agli illusionisti, in cui un ragazzo entra in un cestino che è quindi chiuso e su cui si accanisce il “fachiro” con una spada facendo sprizzare sangue o anche uscirne membra sanguinanti. Il trucco è semplice: il cestino contiene membra di scimmia, il ragazzo ha una via d’uscita sotterranea o laterale, e questo spiega perché possa ricomparire sano e salvo dopo aver fatto prendere un bello spavento agli spettatori.

Quella che è interessante nel libro di Lamont non è l’ipotesi sull’origine americana di un trucco presunto “indiano” (è possibile che i precedenti in India cui fa cenno la Blavatsky siano sottovalutati dall’autore scozzese), ma la ricostruzione del dibattito sul tema. Questa mostra come spiritisti, teosofi e teorici della possibilità della “ipnosi di massa” (un antenato del “lavaggio del cervello”) abbiano escogitato risposte più o meno ingegnose e preternaturali per risolvere un enigma probabilmente inesistente, se non inventato almeno divulgato e promosso a mistero di fama mondiale da qualcuno che si firmava “S. Ellmore” e il cui scopo, celato in uno pseudonimo non troppo difficile da decifrare, era far vendere più copie del suo giornale. Così, il mito dell’“Asia misteriosa” colpisce ancora, e spiega come una certa mania dell’Oriente (da non confondersi con lo studio serio delle tradizioni e delle religioni orientali) sia una via sicura per rischiare brutte figure e prendere storiche cantonate.

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