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L’albero di Zawahiri

di Massimo Introvigne (L'Indipendente, 10 settembre 2005)

Lo stillicidio di comunicati con cui su Internet si minacciano quotidianamente l’Italia, la Gran Bretagna, e l’Europa in genere – ripresi con entusiasmo anche nei sermoni di qualche imam già espulso, o che sembra l’Italia si appresti a espellere – può rispondere a una semplice meccanica della tensione, ma può anche darsi che s’inserisca in una discussione che è in corso in Al Qaida da diversi anni.

Al Qaida si stacca dal troncone principale del fondamentalismo islamico sulla base di un’analisi politica del suo principale teorico, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, esposta in diversi scritti tra cui il fondamentale volume Cavalieri sotto la bandiera del Profeta del 2001. Secondo Zawahiri, il fondamentalismo islamico deve prefiggersi lo scopo concreto di andare al potere in alcuni paesi-chiave: Egitto, Arabia Saudita, Pakistan. Negli ultimi decenni del XX secolo ha perseguito l’obiettivo con campagne di attentati negli stessi paesi islamici. Pur avendo talora conseguito brillanti successi sul piano militare, la strategia è sostanzialmente fallita sul piano politico. La stessa spettacolare eliminazione del presidente egiziano Sadat ha portato al potere un altro nazionalista, Mubarak (come si vede in questi giorni, difficile da scalzare), non un fondamentalista. L’errore, secondo Zawahiri, consiste nel non avere compreso che i dirigenti “apostati” (cioè ostili al fondamentalismo) dei paesi islamici non rimangono al potere per forza propria, ma perché li tiene in piedi l’Occidente. Caduto un manichino, l’Occidente ne trova un altro. Si tratta quindi, conclude Zawahiri, di colpire la mano che tiene su i manichini. Colpire gli occidentali, portando il terrorismo a casa loro, terrorizzando un’opinione pubblica che finirà per eleggere dirigenti isolazionisti, pronti a lasciare i paesi musulmani al loro destino. Solo allora, non più sorretti dalla mano occidentale, i dirigenti anti-fondamentalisti cadranno.

Il modello Zawahiri è alle radici degli attentati dell’11 settembre 2001. C’è però un problema. L’11 settembre non ha affatto spinto gli Stati Uniti a un atteggiamento isolazionista verso il Medio Oriente. Al contrario, ha portato al potere i neo-conservatori e le loro idee di esportazione della democrazia, che – tanto per cominciare – hanno privato Al Qaida della sua Tortuga in Afghanistan. Zawahiri si è trovato così messo sotto accusa negli stessi ambienti ultra-fondamentalisti: la sua strategia non si è forse rivelata un boomerang, aumentando anziché mettendo in crisi la determinazione internazionale americana? La trionfale rielezione di Bush nel 2004 – nonostante l’intervento “elettorale” di Bin Laden in persona – sembrerebbe confermare che negli USA la dottrina Zawahiri non funziona.

A partire dal 2003 alcuni documenti di Al Qaida correggono la rotta: per far diventare gli Stati Uniti isolazionisti, bisogna renderli anzitutto isolati dagli alleati europei. Di qui la scelta di colpire in Europa, che sembra vincente quando, dopo l’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004, va al potere in Spagna un governo che si ritira subito dall’Irak e assume un atteggiamento ultra-prudente sulla guerra al terrorismo. La Londra del 2005 sembrava aver reagito diversamente, ma qualche cedimento tra i laburisti inglesi comincia a fare capolino. Zawahiri non ha mai abbandonato il suo modello. Ai critici, dopo l’11 settembre, ha risposto che pochi alberi cadono al primo colpo di scure. Dopo l’11 settembre sono necessari altri colpi per far cadere gli Stati Uniti. E dopo Londra altri colpi – o l’impressione, a colpi di comunicati minacciosi, che sia cominciata una stagione di colpi quasi quotidiani – per far cadere altri alleati europei di Bush. Capire la strategia di Zawahiri è il primo passo per cominciare a resistere.