La maggior parte dei grandi attentati di Al Qaida - 11 settembre compreso - ha avuto fra i suoi protagonisti degli «arabi afghani». Paradossalmente, nessuno dei terroristi così denominati è afghano, e non tutti sono arabi. Nel gergo di Al Qaida sono «arabi afghani» gli stranieri che hanno combattuto nella «brigata internazionale» di Bin Laden contro i russi in Afghanistan e ne sono tornati con l'aureola dei vincitori. In tutte le città - comprese Londra, Madrid, Milano - i rapporti di polizia indicano in «arabi afghani» i più ascoltati e temibili reclutatori di Al Qaida.
Lo stesso nome Al Qaida, «la base», si riferiva del resto all'inizio a una «base» o banca di dati che custodiva gli indirizzi di tutti coloro che avevano fatto parte della «brigata internazionale» afghana.
Il problema per Bin Laden è che i computer con gli elenchi degli «arabi afghani» sono caduti in mano degli americani in Afghanistan. Non tutti i reduci dall'Afghanistan - oltre ventimila persone - possono essere arrestati. Ma la maggioranza è sorvegliata dai servizi e dalle polizie occidentali.
I più attivi in Al Qaida sono ormai quasi tutti in prigione.
Un nuovo documento diffuso via Internet e proveniente dalla filiale saudita di Al Qaida spiega ora come far fronte al progressivo venir meno del numero di «arabi afghani» che possono operare liberamente in Occidente e nei paesi a maggioranza islamica retti da governi alleati degli Stati Uniti. Il testo, considerato autentico da specialisti statunitensi e israeliani, è firmato da un nome che, se non è falso, è nuovo - un certo Abdullah Ahmad al-Imran -, e ripete nel suo stile idee tipiche di Zarqawi e di quella che il superterrorista giordano ama chiamare la «seconda generazione» dell'internazionale del terrore.
Nella sostanza, il documento - intitolato «La politica militare del jihad di Al Qaida in Irak» - prospetta la progressiva sostituzione degli «arabi afghani» con gli «arabi iracheni». Come i primi non erano afghani, i secondi non sono iracheni. E anche stavolta alcuni sono arabi e altri no: ci sono filippini, somali, malesi, indonesiani, perfino qualche convertito europeo all'islam. Gli «arabi iracheni» sono coloro che hanno svolto attività terroristiche in Irak, sfidando stavolta non l'Unione Sovietica ma gli Stati Uniti. Il documento raccomanda di non tenerne un'unica lista, che prima o poi potrebbe cadere in mano americana. Ma di far ripartire gli «arabi iracheni» dall'Irak non appena abbiano avuto il loro battesimo del fuoco e siano in grado di organizzare autonomamente attentati con diversi tipi di esplosivi.
Secondo il testo, «il jihad di Al Qaida in Irak segna la nascita di una seconda Al Qaida, che esporterà il jihad nel resto del mondo così come la prima Al Qaida ha fatto a partire dall'Afghanistan». Nello stile di Zarqawi, il documento raccomanda di non utilizzare sciiti, che sono per definizione eretici e inaffidabili, ma soltanto sunniti.
Nei giochi di potere interni di Al Qaida, Zarqawi aspira a controllare gli «arabi iracheni», la «seconda generazione» che può fare da contrappeso alla prima generazione di «arabi afghani» personalmente legati ai capi storici Bin Laden e Zawahiri.
Per le forze dell'ordine occidentali, tenere d'occhio chi va e chi viene dall'Irak diventa una priorità. E si capisce perché il nostro governo, criticato da una parte della sinistra, tenga duro - più che giustamente - nel negare a esponenti della sedicente «resistenza» irachena il visto che chiedono per venire in Italia a fare propaganda.