Per sostenere la fin troppo famosa protesta della signora Cindy Sheehan, madre di un soldato caduto in Iraq che si è accampata vicino al ranch della famiglia Bush per protestare contro la guerra e minaccia di inseguire il presidente per tutto il paese, negli ultimi giorni in America è riapparso un fantasma: Joan Baez. A sessantaquattro anni, la cantante, che ormai si esibisce di rado davanti a pubblici di provincia tanto politicizzati quanto poco numerosi, è riuscita a radunare meno di cinquecento persone per il suo show contro Bush in Texas: ma già ne minaccia altri.
Parlare male di Joan Baez è pericoloso. Per chi oggi ha la sua età, o qualche anno di meno, Joan Baez evoca la giovinezza, una musica più dolce del rock di oggi, e cantanti che almeno sapevano cantare. Reso omaggio alle sue capacità musicali, non si può però dimenticare che Joan Baez è stata per anni il personaggio simbolo di una sinistra occidentale pacifista e ipocrita che non aveva capito nulla del comunismo. La Baez rivendica di avere inventato i girotondi di recente, come si sa, riscoperti in Italia nel 1972, con una protesta organizzata al Campidoglio a Washington contro la guerra in Vietnam. A Natale dello stesso anno 1972 troviamo Joan Baez ad Hanoi a brindare con dirigenti comunisti nord-vietnamiti, laotiani e cambogiani che nel frattempo assassinavano e torturavano oppositori politici nonché preti, pastori e bonzi di tutte le religioni.
Molti anni dopo, è vero, la cantante firmerà qualche protesta contro la repressione comunista in Vietnam e Cambogia: troppo poco e troppo tardi, però, per qualcuno che aveva contribuito a diffondere un’immagine mitica dei sinistri torturatori del comunismo indocinese come pacifici resistenti aggrediti dagli americani, e di passaggio in Italia era arrivata a esprimersi con ambiguità perfino sulle Brigate Rosse. Nel frattempo, l’indimenticabile autore di fumetti Al Capp (1909-1979) la aveva massacrata con la famosa parodia “Joanie Phoanie” (Joan la fasulla), dove la ritraeva per quello che era: una campionessa dell’anti-capitalismo che si arricchiva con le grandi case discografiche, mandava il figlio Gabe a studiare in una delle più esclusive, costose (e conservatrici) scuole del New England, e pensava di lavarsi la coscienza con qualche elemosina data di tanto in tanto a una beneficenza spesso politicamente orientata.
Dopo anni di declino, Joan Baez è stata rilanciata da personaggi come il regista no global Michael Moore e utilizzata come arma impropria contro Bush, per la verità con scarso successo, nell’ultima campagna per la Casa Bianca. Dopo la delusione elettorale ha destato scandalo con un concerto a Charlottesville, in Virginia, dove affermando fra il serio e il faceto di soffrire di sdoppiamento della personalità si è esibita nella sua presunta “seconda personalità” di Alice, una bambina afro-americana dell’Arkansas, che si è messa a insultare Bush in un inglese rudimentale e sgrammaticato, risuscitando stereotipi vagamente razzisti sul modo di parlare degli americani di colore del Sud di cui ha suscitato le comprensibili proteste.
La sua visione romantica dei tagliagole iracheni, che si ostina come molti in Italia a chiamare “resistenti”, corrisponde a quella che aveva trent’anni fa dei comunisti cambogiani e vietnamiti. Joan Baez è un fantasma del passato: si può avere nostalgia di certe sue canzoni, non della sua politica. La cantante farebbe un favore a se stessa e agli americani se si accontentasse della sua vita da pensionata miliardaria senza riproporre ogni tanto qualche esibizione politico-canora un po’ patetica, che dimostra come con il tempo ha perso la voce ma non il vizio del pacifismo a senso unico, e quello di beatificare frettolosamente come “resistenti” assassini e terroristi rispetto ai quali dopo qualche anno dovrà ammettere, al solito, di avere commesso qualche piccolo errore.