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Si apre un nuovo fronte sciita nella lotta al «Satana occidentale»

di Massimo Introvigne (il Giornale, 26 giugno 2005)

La vittoria di Ahmadinejad dimostra che i consiglieri di Khamenei, che sono ancora più estremisti di lui, hanno prevalso sulla «guida» iraniana, all'inizio favorevole a Rafsanjani. L'Iran ha una serie di gravissimi problemi economici e sociali - droga e prostituzione dilagano, una vergogna per un Paese islamico - e deve fare fronte a un crescente malcontento interno. Come sempre - è uno schema che si ripete dalla sconfitta musulmana di Vienna del 1683, che segna l'inizio del declino islamico - le risposte possibili a una soluzione di crisi nell'islam sono due.

La prima è che l'Islam è in declino perché è rimasto indietro rispetto all'Europa: deve fare il possibile per recuperare il ritardo, aprendo all'Occidente sia pure con cautela. In Iran era questa la ricetta dell'ex-presidente Khatami; e in questa direzione - senza troppo dirlo - si sarebbe mosso anche Rafsanjani. L'altra risposta alla crisi dell'islam è che questa deriva dall'abbandono della purezza della tradizione originaria: si è imitato troppo, non troppo poco, l'Occidente. La risposta è dunque la chiusura, la repressione dura degli oppositori occidentalizzanti, e la mobilitazione intorno a un progetto di lotta globale all'Occidente.

Con l'elezione di Ahmadinejad si apre - o si consolida, dal momento che era già aperto da anni - un secondo fronte della guerra che l'islam radicale ha dichiarato all'Occidente. Al Qaida è un'organizzazione composta interamente da musulmani sunniti. Benché Bin Laden sia così disinvolto da avere avuto contatti con il regime di Teheran, gli ideologi di Al Qaida sono stati tutti allevati in un islam sunnita puritano e anti-sciita, e Zarqawi in Irak invita al massacro dei «falsi musulmani» sciiti.

Per Khomeini l'inevitabile guerra finale dell'islam contro il «grande Satana» occidentale avrebbe dovuto essere guidata non da rivoluzionari sunniti di dubbia dottrina e lignaggio, ma dal clero sciita forte di una legittimità e di una saggezza millenarie. Fino all'11 settembre 2001 l'idea del pericolo sciita radicale era chiara a tutti gli esperti di terrorismo internazionale. L'Iran era considerato lo «Stato canaglia» più pericoloso, e gli Hezbollah sciiti libanesi uno dei gruppi meglio addestrati e più capaci di colpire, non solo in Medio Oriente. L'11 settembre ha messo talmente in primo piano il grande complotto terrorista sunnita di Bin Laden che ci si è quasi dimenticati dell'altro complotto sciita, separato e diverso ma non meno pericoloso.

Il complotto sciita esiste ancora. Ha dalla sua una parte non irrilevante della classe politico-religiosa che governa l'Iran, che ora ha fatto eleggere a sorpresa un suo uomo come presidente, e che dispone di armi di distruzione di massa ben più micidiali di quelle di Saddam. Da Teheran, questo gruppo agita le minoranze sciite in Pakistan, in Libano, in Arabia Saudita, negli Stati del Golfo. Può fare persino più danni di Osama bin Laden.

Certo, come non tutti i sunniti sono amici di Al Qaida, così non tutti gli sciiti considerano l'Occidente un Satana che deve essere distrutto. La maggiore autorità morale che si oppone al khomeinismo radicale è proprio il grande ayatollah Sistani, la cui autorità è riconosciuta dalla stragrande maggioranza degli sciiti dell'Irak, il Paese che custodisce i luoghi santi del mondo sciita. Per l'Iran di Ahmadinejad, riuscire a uccidere Sistani o suscitare contro di lui una seria opposizione è un passaggio decisivo per il rilancio di una rivoluzione sciita globale.