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La dottrina Bush alla prova

di Massimo Introvigne (il Giornale, 14 maggio 2005)

Non bisogna nasconderselo: sull’Uzbekistan c’è un forte dibattito all’interno dell’amministrazione Bush. In Uzbekistan c’è un dittatore ex-comunista, Islam Karimov, che assomiglia molto a Milosevic. La lista delle violazioni di cui è accusato in tema di diritti umani è lunghissima. Una commissione del senato americano dà credito alle informazioni secondo cui avrebbe eliminato diversi oppositori gettandoli in catini di acqua bollente. La tortura è all’ordine del giorno.

Vladimir Putin sostiene Karimov senza se e senza ma. Denuncia al mondo che gli insorti sono “talebani”, e che se prendono il potere in Uzbekistan tutta l’Asia Centrale è in pericolo.

Lo stesso, naturalmente, sostiene Karimov, che però prega non troppo gentilmente i giornalisti stranieri di andarsene e, per ulteriori informazioni, invita a fidarsi della sua versione.

Fin qui il copione è scontato. Anche Saddam Hussein aveva una lobby di amici – generosamente finanziati – secondo cui egli era l’unico baluardo a una presa di potere da parte di fondamentalisti e di ayatollah assortiti che avrebbero fatto dell’Irak il nuovo Iran.

Quello che c’è di nuovo è che anche alcuni influenti neo-con come Daniel Pipes, spaventati dalla più che reale presenza di ultra-fondamentalisti islamici nella variopinta coalizione che vuole cacciare Karimov, scendono in campo dichiarando che, tutto sommato è meglio tenersi il presidente uzbeko, piuttosto che rischiare di vedere musulmani estremisti al potere a Tashkent.

Il segretario di Stato Condi Rice non sembra d’accordo, ma una lobby di amici di Putin preme perché si dia ragione (anche in Italia) a Daniel Pipes.

Non ci sono tre posizioni: solo due, e ognuna presenta rischi. Pipes ripete la “canzone algerina”: ci sono paesi dove, se arriva la democrazia, vincono i fondamentalisti islamici, dunque conviene che la democrazia non arrivi. È da sempre la canzone preferita di Jacques  Chirac, sostenitore di dittatori di tutte le risme – dalla Costa d’Avorio al Togo – che però “impediscono ai fondamentalisti di andare al potere”.

Era, appunto, anche la canzone di Saddam Hussein.

Ma è una canzone vecchia. Con la svolta di George Bush e il progetto del “Grande Medio Oriente” l’America ha scelto di correre il rischio che elezioni in paesi islamici siano vinte dall’islam politico, pensando che comunque la democrazia addomestica i fondamentalisti, che non tutti i fondamentalisti sono terroristi, e che il dittatore sanguinario di turno, quando non finanzia il terrorismo sottobanco, lo alimenta di fatto con lo scontento che crea.

Con un’importante presa di distanze dalla Francia (e in parte dal suo predecessore Colin Powell), Condi Rice sostiene questa linea per l’Algeria: si tengano elezioni oneste, e vinca chi deve. Ha sostenuto la rivolta in Kirghizistan, anche se tra i rivoltosi c’erano i membri di quello stesso Hizb ut-Tahrir che è presente in Uzbekistan e sogna il califfato (ma non è amico di bin Laden).

Certamente, gli Stati Uniti hanno l’interesse, il diritto e forse anche il dovere di chiedere agli insorti che vogliono democrazia in Uzbekistan il ripudio del terrorismo e l’esclusione dalla politica delle forze davvero legate ad al Qaida, garantita dal mantenimento delle basi americane.

Dare retta ai timori, pure comprensibili, di Pipes e preferire che si mantenga al potere il dittatore Karimov vorrebbe dire invece deludere le aspirazioni democratiche di milioni di musulmani, e smentire in modo incomprensibile e clamoroso l’intero progetto del Grande Medio Oriente.